Donne e uomini, perché con la pandemia si rischia un passo indietro

scritto da il 23 Aprile 2020

L’autrice di questo post è Azzurra Rinaldi, docente di economia politica all’Università di Roma Unitelma Sapienza – 

Il Covid ci ha posto di fronte ad una crisi eccezionale, profondamente diversa da quella del 2008, nonostante i due eventi vengano spesso messi a paragone. Basti considerare l’andamento delle richieste di disoccupazione negli Stati Uniti, che hanno cadenza settimanale e forniscono in qualche modo un’indicazione sullo stato dell’andamento macroeconomico del paese. Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2008, la media di richieste di disoccupazione è stata di 345 mila a settimana. Durante il picco della crisi del 2008, le richieste hanno sfiorato le 600 mila unità. Giovedì 26 marzo sono arrivate a 3,2 milioni, giovedì 2 aprile 6,6 milioni, il 9 marzo 5,24 milioni (per un totale di 22 milioni nelle ultime 4 settimane).

Quindi, la crisi corrente è del tutto nuova e ci obbliga ad alcune riflessioni, anche in termini di parità di genere, iniziando da un dato: a livello globale, il virus sembra impattare in misura maggiore sugli uomini, che sembrano manifestare una mortalità da coronavirus più elevata rispetto alle donne. Tuttavia, questo non equivale a dire che le ripercussioni sulle donne saranno meno dirompenti. Partiamo da una prima considerazione: i lavoratori del sistema sanitario per la maggior parte sono donne. Lo conferma anche Gaya Spolverato, medico chirurgo e presidentessa dell’associazione Women in Surgery Italia, che ha evidenziato quanto segue: “L’80% del personale sanitario è costituito da donne. Le donne sono pertanto in prima linea nell’emergenza COVID 19, lo sono nelle ambulanze, nei pronto soccorso, nei reparti, nelle rianimazioni”.

Ma non si tratta solo di questo. Prendiamo, ad esempio, la chiusura delle scuole, decisione indispensabile che, tuttavia, appesantisce le responsabilità di cura non retribuite, che sono generalmente appannaggio dell’universo femminile. Stando agli ultimi dati del World Economic Forum relativi al contesto mondiale, le donne si fanno carico del cosiddetto lavoro di cura non retribuito in una misura tre volte maggiore rispetto a quella degli uomini e, anche per far fronte a queste attività non retribuite, si trovano in larga misura ad accettare posizioni lavorative part-time. Alcuni dati recenti provenienti dal Regno Unito, per esempio, riferiscono che il 40% delle lavoratrici ha un contratto part-time, a fronte del 13% degli uomini. Anche nel nostro paese, nel 2018, il 75% dei lavoratori part-time è stato di sesso femminile. Sotto il profilo puramente economico, proprio per l’evidenza che le donne costituiscono una grande fetta di lavoratori part-time e informali in tutto il mondo e in Italia, l’epidemia potrebbe avere un impatto sproporzionatamente negativo su di loro. Il rischio è che, a causa dell’epidemia, l’uguaglianza di genere faccia un clamoroso passo indietro. Possiamo affermare che il coronavirus abbia svelato il meccanismo alla base del funzionamento delle coppie di lavoratori dei paesi avanzati: “Possiamo entrambi lavorare, perché c’è qualcun altro che si prende cura dei nostri figli”. Ora, in realtà, le coppie devono decidere chi dei due continuerà a lavorare e chi si occuperà della cura di figli, anziani e malati.

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In questa prospettiva, occorre portare avanti due importanti ordini di considerazioni. Il primo tema riguarda le attività retribuite di cura, che anche in questo caso vengono generalmente affidate alle donne. In questo ambito, stiamo assistendo ad una transizione dall’economia retribuita a quella non retribuita che sta interessando tutti i lavori di cura e ad una conseguente (e drammatica) contrazione dell’occupazione. Molte lavoratrici impiegate nelle attività di cura retribuite (che molto spesso provengono da paesi in via di sviluppo) si stanno trovando senza occupazione a causa del Coronavirus. Questo rischia di provocare una contrazione di reddito sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti, data la riduzione nel volume delle rimesse delle lavoratrici emigrate. Poi, c’è il grande tema delle attività di cura non retribuite. Secondo i dati della Organizzazione Internazionale del Lavoro, globalmente le donne portano avanti il 76,2% delle ore totali di lavoro di cura non retribuito, con picchi vicini all’80% in aree come l’Asia.

Non è solo una questione di impostazione ideologica o di norme sociali: queste scelte vengono effettuate anche, in molti casi, sulla base di aspetti pratici, ovvero considerando chi percepisce una retribuzione più modesta o chi ha un contratto più flessibile. Pertanto, dal momento che scuole ed asili nido sono stati chiusi, il lavoro aggiuntivo di assistenza non retribuito sarà nuovamente caricato in misura prevalente sulle donne. Per non parlare, poi, del fatto che, dal momento che il sistema sanitario non è in grado di accogliere tutti i malati di Covid, molte persone che sono state colpite dal virus hanno ricevuto indicazione di rimanere in casa e anche questo rappresenta ovviamente un carico di cura ulteriore a cui molte donne risponderanno riducendo le loro ore di lavoro o rinunciando tout court al lavoro retribuito per potersi prendere cura di bambini, malati ed anziani. E, dal momento che le attività di cui attualmente, in fase di epidemia, si stanno occupando le donne (asili nido, scuole, baby sitters) non sono retribuite, questo produrrà un’ulteriore contrazione di reddito.

Questo è quanto normalmente avviene in occasione delle crisi. Anche durante la crisi di Ebola nel 2014, per esempio, il reddito complessivo si è prevedibilmente ridotto. Tuttavia, le retribuzioni salariali degli uomini, nel post-crisi, sono tornate ai loro livelli iniziali più rapidamente rispetto a quanto non abbiamo fatto quelli delle donne. Gli effetti distorsivi della crisi possono durare anni ed il livello retributivo di alcune donne rischia di non tornare più ai livelli pre-crisi. Non si tratta solo di parametrare gli effetti sulla base della situazione attuale: l’industria dei servizi, per esempio, perderà nel futuro molte opportunità di creazione del reddito, proprio a causa del congelamento occupazionale attuale.

E qui si pone il grande interrogativo: quali basi vogliamo porre per il post-Covid? Gaya Spolverato, giustamente, sottolinea: “Sono per lo più donne le laureate in Medicina che verranno inviate a dare supporto alla carenza di personale. Sono per lo più donne le infermiere e le operatrici sanitarie nei reparti e nelle rianimazioni. Sono per lo più donne i medici di base che pagano con la loro vita l’incertezza iniziale nell’affrontare quella che poi si è manifestata una pandemia. Sono donne le impiegate delle imprese di pulizia negli ospedali, che sanificano le stanze Covid. Sono donne che spesso a casa hanno famiglia e mettono a rischio la loro vita e la loro famiglia, la vita dei loro bambini e dei genitori anziani, durante le attività di invisible care. Non sono donne le persone che prendono le decisioni di questo paese, che provano a guidarci fuori dalla crisi sanitaria ed economica”.

È lo stesso tema che è stato sollevato da oltre 50.000 donne della società civile, che hanno inviato una lettera al Presidente del Consiglio, reclamando la parità nei luoghi decisionali e nelle task force che interverranno sulla ripresa, promuovendo l’efficace hashtag #datecivoce (Twitter: @datecivoce). Che risponda ad un’esigenza condivisa che le donne hanno, in questo paese, di essere ascoltate viene confermato dalla presenza massiccia che questa iniziativa sta ottenendo su tutti i media, nonché dal crescente numero di adesioni che sta raccogliendo, da parte non solo delle donne, ma anche degli uomini.
È quanto sostiene anche Irene Facheris, formatrice, attivista ed autrice di “Parità in pillole” (link: /; Twitter: @cimdrp: “Se non partiamo dal presupposto che la parità debba essere raggiunta, possiamo pensare a tutte le alternative del mondo che tanto nessuno proverà nemmeno a metterle in pratica. Chi ha il potere al momento è la parte maschile, la quale continua a non vedere certi problemi e soprattutto a non capire come impattino anche sull’universo maschile. C’è bisogno che il femminismo diventi una pratica di tutti e non la discussione di nicchia di un gruppo ristretto di donne. A quanto pare, migliorare la vita delle donne perché è eticamente giusto provarci non è una motivazione sufficiente, perciò le cose si muoveranno quando diventerà chiaro che migliorare la vita delle donne migliorerà anche quella degli uomini.”

I governi dovrebbero iniziare a riconoscere che le donne stanno sopportando il peso maggiore della crisi sia sotto il profilo economico che sotto quello sociale. Uno strumento che si potrebbe iniziare ad utilizzare anche nel nostro paese, ad esempio, è il Gender Responsive Budgeting. Non è complicato. Al contrario, è piuttosto intuitivo: si tratta di analizzare anche le iniziative di politica fiscale che vengono adottate in questa circostanza, in risposta al coronavirus, alla luce del diverso impatto che esse generano sulle vite delle donne e degli uomini, partendo dal presupposto che, in base ai dati attuali, le misure intraprese certamente avranno un effetto diverso sulle vite delle donne e degli uomini. Se non lo si farà, per l’ennesima volta si saranno ignorate le necessità ed il duro lavoro di almeno metà della popolazione.

Twittert @economistaxcaso

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