Lo smart working e la fine del lavoro per come lo conoscevamo

scritto da il 15 Maggio 2020

Post di Elisabetta Calise, HR business partner. Avvocato. Fa parte del board esecutivo della Scuola di Politiche –

Jack Dorsey, fondatore di Twitter, è laconico: chi vorrà lavorare da remoto potrà farlo e la decisione varrà per sempre. È recente la notizia del primo modello di Smart Working permanente per una big tech statunitense.

Nel Decreto Legge Rilancio, approvato dal Consigli dei Ministri e al vaglio del Parlamento, lo Smart Working diventa un diritto per i lavoratori del privato con figli under 14. Fino al 31 luglio, data che per ora segna la fine dello stato di emergenza legata al Covid-19, i lavoratori dipendenti di aziende private con almeno un figlio entro i 14 anni avranno diritto al lavoro agile anche in assenza degli accordi con il datore previsti dalla legge 81/2017.

Non è una novità che il lavoro agile venga considerato alla stregua di un diritto soggettivo. I più avveduti ne hanno parlato con più incisività almeno da quando a marzo lo Smart Working è stato adottato come modello emergenziale e diffuso di esecuzione della prestazione lavorativa. E non c’è da stupirsi: la smaterializzazione del workplace è in atto da generazioni. Negli anni ‘60 i nostri genitori alle ore 17.00 chiudevano alle loro spalle la porta dei loro uffici, con questo gesto suggellando di fatto anche la fine perentoria della loro giornata lavorativa. Da tempo non è più così, l’IoT (lInternet delle cose) ci tiene connessi H24, in un coinvolgimento sulle questioni lavorative spesso dilatato nel tempo, diffuso, intermittente, letteralmente flessibile. Era anacronistico pensare di poter procedere ancora con timide sperimentazioni dello Smart Working, ammesso che il working – il lavoro – oggi si fa ovunque ed è sempre smart, non solo quella volta alla settimana sancita dagli accordi sindacali.

schermata-2020-05-14-alle-12-28-24

La legge n. 81 del 2017, che lo ha istituito, ha completamente rivoluzionato il concetto di subordinazione, improntandola a caratteri di flessibilità e indipendenza. Il lavoratore, che resta un dipendente sottoposto alle direttive del datore, vede riconoscersi la facoltà di svolgere le proprie mansioni ovunque e in qualsiasi momento.

Il confine tra la fattispecie di lavoro subordinato e lavoro autonomo appare sempre più labile.

Ferma restando l’eterodirezione (oltre alle tutele applicabili e ai diritti retributivi e assicurativi tipici del lavoro subordinato), il datore di lavoro perde il controllo sui tempi e luoghi di lavoro: l’adempimento della prestazione svolta “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” fonda tout court un nuovo modo di lavorare, che informa la vita del lavoratore oltre che fuori dall’azienda, come ci si aspetterebbe da un modello di lavoro definito agile, anche all’interno della stessa.

In questo nuovo modo di lavorare c’è poco spazio per retaggi fordisti da catena di montaggio. Ai lavoratori è richiesta smartness, l’intelligenza operativa che quasi affievolisce il concetto stesso di eterodeterminazione, ammesso che la proattività, l’empatia, la capacità di anticipare i bisogni del cliente interno ed esterno, scalano la classifica delle soft skills più richieste nel mercato del lavoro oggi.

Il diritto del lavoro si evolve e con esso, prima di esso – giacché il diritto rappresenta la plastica evoluzione della società – le nostre vite.

Il 22 maggio 2020 la legge sul lavoro agile in Italia compie tre anni. Quando è stata concepita erano sicuramente intellegibili i fini per cui sarebbe stata utilizzata e siamo forse scettici rispetto allo Smart Working totale di Dorsey, ma qualcosa ci dice che “done is better than perfect”, come recita il murales a caratteri cubitali nel quartier generale di Google. Avere gli strumenti per essere nel nostro tempo, anziché rincorrerlo, è la notizia positiva del giorno.

Twitter @Eli_Calise