Il grosso problema dello stato imprenditore con l’economia di mercato

scritto da il 29 Maggio 2020

Post di Fabrizio Ferrari e Pietro Bullian, laureati magistrali in Economics presso l’Università Cattolica di Milano –

In un recente articolo pubblicato qui su Econopoly, i due autori (Alessandro Guerani e Filippo Barbera) hanno preso le difese dell’idea di Stato Imprenditore delineata da Mariana Mazzucato, esponendo come—a loro avviso—tale proposta sia ben distinta dalla pianificazione centrale (“statalismo”) e dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione (“sovietizzazione”).

Tuttavia, ci sembra che l’idea di Stato Imprenditore—anche nella versione “emendata” da Guerani e Barbera—rimanga incompatibile, per diversi motivi, con il funzionamento di un’economia di mercato. Ciò detto, ci teniamo comunque a premettere che condividiamo—almeno in parte—alcune delle critiche che i due autori muovono al “capitalismo corporativistico” italiano, pur rimanendo convinti che la soluzione non possa assolutamente passare per uno Stato Imprenditore.

Il concetto di Stato Imprenditore, infatti, in primo luogo trascura il meccanismo soggettivo di formazione dei prezzi e di attribuzione del valore ai beni e servizi di consumo. In secondo luogo, trascura la lungimiranza degli agenti economici e, più in particolare, dei mercati. Infine, il topos dello Stato Imprenditore sembrerebbe poggiare su una demarcazione troppo ambigua tra quest’ultimo e lo Stato Regolatore—cioè lo Stato a cui siamo abituati nel mondo occidentale capitalista.

La soggettività dei prezzi e l’assenza di margini per lo Stato
Il primo punto di incompatibilità tra Stato Imprenditore ed economia di mercato riguarda il ruolo di indirizzo economico che si vorrebbe attribuire al primo (deputato a “indicare l’orizzonte di obiettivi collettivi e ambiziosi”) sul secondo (a cui andrebbe impedito di esprimersi “solo attraverso la sovranità del consumatore”).

Le nostre perplessità derivano direttamente dalla definizione di “economia politica”, di “prezzo” e di “mercato”. Partiamo da una definizione che metta in relazione tra loro questi tre elementi: “L’economia politica è la disciplina che studia le scelte di consumo e di produzione degli esseri umani (o agenti) in un contesto di risorse scarse e con usi mutuamente esclusivi. In tale contesto, gli esseri umani privilegiano la soddisfazione di alcuni bisogni rispetto ad altri, attribuendo quindi un valore soggettivo ai mezzi per il soddisfacimento diretto (beni e servizi di consumo) o indiretto (fattori di produzione) di tali bisogni. Il prezzo dei beni, dei servizi e dei fattori di produzione origina sul mercato, dove gli agenti (consumatori e produttori) scambiano tra loro al fine di conseguire i mezzi che reputano (soggettivamente) migliori per il soddisfacimento (soggettivo) dei propri fini”.

Quindi, è naturale domandarsi: se un’economia di mercato necessita di prezzi di mercato—che possono formarsi solo in seguito ad attribuzioni soggettive di valore a beni, servizi e fattori di produzione—per funzionare ed allocare le risorse coerentemente con le preferenze degli agenti economici, come potrebbe un’entità priva di soggettività psicologica (lo Stato Imprenditore) partecipare a questo meccanismo di formazione dei prezzi?

In altre parole: a quale gerarchia di valori dovrebbero ispirarsi l’allocazione delle risorse produttive e le scelte di consumo decise dallo Stato Imprenditore?

– Se la risposta è “alla gerarchia della maggioranza dei cittadini”, l’obiezione più evidente è che ciò già avviene, dal momento che i cittadini esercitano la loro sovranità sul mercato in qualità di consumatori—premiando gli imprenditori che allocano le risorse in conformità ai loro gusti e penalizzando quelli che fanno il contrario.

– Se, invece, la risposta fosse “alla gerarchia dei burocrati e dei tecnici di Stato”, si tratterebbe semplicemente di sostituire le preferenze di pochi individui (i tecnici, i burocrati e i pianificatori) a quelle della totalità dei consumatori; ma in questo caso come potrebbero i consumatori, vedendosi privati della libertà di scegliere cosa consumare, migliorare il loro benessere?

L’efficienza e la lungimiranza del mercato
Il secondo punto di incompatibilità tra Stato Imprenditore ed economia di mercato concerne la presunta assenza di lungimiranza del mercato nel finanziare investimenti di lungo periodo. In altre parole, chi sostiene questa posizione accusa il mercato di fallire—per sua intrinseca natura—quando si tratta di “mettere a disposizione degli investitori un capitale paziente”. Tuttavia, questa critica è empiricamente confutabile.

Infatti, il mercato presenta innumerevoli esempi storici di lungimiranza—quello di Tesla è probabilmente il più attuale ed evidente. Il costruttore americano, che produce esclusivamente veicoli elettrici (“compatibili con il bene pubblico”), difatti, è secondo solamente al gruppo Toyota per capitalizzazione di mercato—quindi per profitti futuri attesi dagli investitori—mentre non figura neppure tra i primi venti costruttori per volumi di vendita: rispetto ai 10 milioni di veicoli commercializzati da gruppi come Toyota o Volkswagen, Tesla vende poco più di 350.000 veicoli all’anno—e non genera, per ora, alcun profitto.

Ciononostante, il “capitale paziente” del mercato finanzia Tesla e ne sovvenziona le perdite—attendendosi profitti e soddisfazione dei consumatori per il futuro. Questo avviene perché il mercato sceglie vincitori e perdenti sulla base del successo commerciale—attuale o potenziale—e dell’idoneità a soddisfare i consumatori—attuali o potenziali—dei progetti ad esso sottoposti.

Invece, su quali basi verrebbe scelto il vincitore dallo Stato Imprenditore? Nello stesso modo in cui ha scelto di salvare Alitalia anziché salvare le compagnie low cost che mantengono in vita il nostro turismo? Oppure sulla base di quale player è più idoneo a garantire rendite di posizione—come, ad esempio, la conservazione di impianti industriali e di occupazione improduttivi ed inefficienti—da monetizzare elettoralmente?

schermata-2020-05-28-alle-10-05-54

Stato Imprenditore o Stato Regolatore?
La nostra terza e ultima perplessità riguarda la distinzione sfocata tra Stato Imprenditore e Stato Regolatore. Infatti, nel delineare uno Stato che orienti “gli interessi particolari in direzioni compatibili con il bene pubblico”, si deve aver ben chiara la risposta ad una domanda: ci si riferisce ad uno Stato (Regolatore) che si limita ad intervenire dove effettivamente il mercato—vuoi per problemi di attribuzione di diritti e doveri (beni comuni, esternalità), vuoi per la natura particolare della produzione in oggetto (il monopolio naturale)—è intrinsecamente incline al fallimento? O ci si riferisce, piuttosto, ad uno Stato (Imprenditore) cui è demandato il ruolo di “coordinatore tra attori, settori e risorse”?

Se ci si riferisce al primo (lo Stato Regolatore), allora nulla quaestio: gli Stati liberaldemocratici e le società capitaliste occidentali sono già—seppur con margini di miglioramento—strutturati in questo modo. Si tratta semplicemente, in questo caso, di migliorare la capacità dello Stato Regolatore di intervenire—ad esempio, tramite la definizione chiara di diritti e doveri e attraverso la legislazione sulla concorrenza—nell’organizzazione della cornice istituzionale in cui operano gli agenti di un’economia di mercato.

Se, invece, ci si riferisce al secondo (lo Stato Imprenditore), allora diventa difficile separare quest’ultimo—definito come “coordinatore tra attori, settori e risorse”—dallo Stato centralmente pianificato (“statalismo”) e dalla “sovietizzazione”. Detto altrimenti: sotto quale punto di vista lo Stato Imprenditore dovrebbe condurre ad un’allocazione delle risorse migliore di quella a cui converge spontaneamente il mercato? Di nuovo, sono possibili due risposte—entrambe sussumibili nelle due sezioni precedenti.

– Se la risposta a tale domanda è sul piano etico dei giudizi di valore morale (“lo Stato Imprenditore è moralmente superiore ai singoli agenti e conosce il Bene Assoluto che ai singoli agenti è ignoto”), allora andrebbero chiariti due aspetti. In primo luogo: in che modo tale “coscienza” dello Stato Imprenditore sarebbe obiettiva (gnosi rivelata? Diritto naturale? Morale assoluta?) e legittimata a travalicare l’aggregazione delle preferenze espresse dal mercato senza scadere nello Stato Etico? In secondo luogo: ha senso—e in che modo?—concepire una scala di valori morali (assiologia) riferita a un’entità priva di soggettività psicologica?

– Se, invece, la risposta a tale domanda vuole essere sul piano obiettivo dei giudizi di fatto (“lo Stato Imprenditore è più intelligente del mercato nel conseguire la massima efficienza”), allora rimane da capire come possa un sottoinsieme dei membri della società (i burocrati, i tecnici e i pianificatori) essere in possesso di più informazioni rispetto alla totalità della società medesima (gli agenti economici). Ogni cittadino è un agente economico razionale che produce (eccezion fatta per chi non è in grado di produrre, di cui si deve occupare lo Stato Sociale che già esiste, non lo Stato Imprenditore), risparmia e consuma—e quindi, in qualità di agente economico razionale, è il miglior custode di sé stesso, dei propri bisogni e delle proprie preferenze.

Da ultimo, ci chiediamo: come potrebbe uno Stato—come quello italiano—incline a preservare “vantaggi di posizione e barriere all’ingresso e allo sviluppo”, dimostrandosi quindi inadeguato a svolgere le più basilari funzioni proprie di uno Stato Regolatore, essere in grado assumersi un onere aggiuntivo e diventare uno Stato Imprenditore?

Twitter @Fabriziofer1994