Non usate i soldi dell’Europa per tagliare le tasse

scritto da il 01 Giugno 2020

Come usare i soldi del Recovery Fund, appena proposto dalla Commissione Europea? Uno dei veri problemi del nostro paese è l’incapacità di mettere a terra i miliardi dei programmi di co-finanziamento delle istituzioni europee. Un rischio che potremmo correre anche questa volta, visto che le decine di miliardi andranno spese nella maggior parte entro il 2022. Ma ce n’è uno ancora più strisciante: c’è chi propone, come il Movimento 5 Stelle, di usare i più di 150 miliardi che potrebbe fornire la Commissione per tagliare le tasse. E questa sarebbe, molto probabilmente, una scelta sbagliata.

Secondo le prime previsioni, l’Italia dovrebbe essere tra i principali beneficiari del piano, con una cifra – che rimane solo una stima – di circa 172,7 miliardi, suddivisi tra 81,8 in sussidi senza obbligo di restituzione e 90,93 in prestiti. I finanziamenti proposti, benché in parte definiti “a fondo perduto” non sono regali: i prestiti andrebbero restituiti (a tassi molto bassi e lunghe scadenze), e anche parte dei trasferimenti, in inglese “grants”, sarebbero pagati in parte anche dall’Italia attraverso i suoi contributi al bilancio europeo. Tenendo conto dei contributi italiani al piano, sempre che i fondi non vengano reperiti attraverso nuove imposte europee, verosimilmente i trasferimenti netti per lo stato italiano saranno minori ai 40 miliardi di euro. Resta un affare per le casse pubbliche, perché la restituzione sarà diluita negli anni mentre le spese sono possibili nei prossimi 2 o 3.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte

Proprio la natura una tantum dei finanziamenti europei rende impossibile usarli per finanziare un taglio delle tasse che, nella speranza di tutti, dovrebbe essere definitivo. Per di più, negli ultimi giorni si è capito che la Commissione – nel caso in cui la proposta venisse approvata – adotterebbe controlli ex-ante ed ex-post sull’utilizzo dei finanziamenti. E le priorità delle istituzioni europee sono chiare: investire in settori strategici per l’Unione (infrastrutture, digitale, ambiente), finanziare riforme strutturali ed evitare le peggiori ripercussioni sui settori più colpiti dalla pandemia e dal lockdown, come il turismo o l’automotive.

Per di più il nuovo programma europeo dovrebbe chiamarsi “Next Generation EU”. Dovrebbe quindi concentrarsi a distribuire i suoi benefici su tutte le generazioni, ed evitare che i disastri del Covid-19 si ripercuotano su quelle future. Il taglio delle imposte invece si concentrerebbe sulle generazioni attuali, e in particolare su alcune categorie. Senza costruire un piano di rilancio pluriennale di cui il nostro paese ha disperato bisogno. Con il Recovery Fund avremmo infatti l’opportunità e finalmente la potenza di fuoco per poter aggredire i problemi strutturali del nostro paese: scuola, infrastrutture, efficienza della pubblica amministrazione, produttività delle imprese stagnante, mercato e costo del lavoro, solo per citarne alcuni. In primis, l’istruzione. L’Italia spende il 3,8% del Pil in istruzione, rispetto a una media europea del 4,6%. Se vogliamo compiutamente formare cittadini pronti per la “Next Generation EU” occorre investire sui giovani.

La strage del ponte Morandi ha reso poi evidente lo stato precario della rete fisica infrastrutturale del paese, mentre il coronavirus ci ricorda come nel 2020 una connessione veloce e stabile a internet sia uno strumento imprescindibile. Le risorse potrebbero essere allora convogliate per l’ammodernamento delle infrastrutture fisiche (come ponti, viadotti) e della rete dei trasporti, portando l’Alta Velocità anche al Sud. L’estensione della rete in fibra è un altro passo fondamentale, perché permetterebbe a molte imprese (e pubbliche amministrazioni) di poter finalmente far affidamento su una connessione più veloce e stabile, un elemento imprescindibile nell’economia digitale del 2020.

La creazione di un clima economico più competitivo passa necessariamente per la semplificazione amministrativa, elemento che potrebbe giovare anche alle PMI italiane, colonna portante della nostra economia. Secondo Assolombarda, il costo della burocrazia è di 108 mila euro per le piccole imprese e richiede tra i 45 e 190 giorni di lavoro di un operatore dedicato. La semplificazione e la digitalizzazione potrebbero così tentare di sbloccare una produttività che in Italia (ma un po’ in tutto il mondo) è ormai bloccata da 30 anni.

Vi è poi un mercato del lavoro caratterizzato da una forte rigidità e dualità, ossia con differenze di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, e dove i giovani faticano ad accedere. Una maggiore adozione della contrattazione decentrata, soprattutto durante la crisi dovuta al coronavirus, potrebbe facilitare i processi di assunzione e impattare favorevolmente sulla produttività delle imprese.

Per non parlare della giustizia civile, per cui per arrivare a sentenza di terzo grado sono necessari in media quasi 3000 giorni, 8 anni, mentre la media dei paesi membri del Consiglio d’Europa è di 715 giorni, meno di un quarto. Lo stesso vale anche per la giustizia amministrativa e quella penale. Molte di queste riforme sono addirittura a costo zero per le casse pubbliche, altre richiedono degli investimenti che gli strumenti europei potrebbero garantire. In sostanza serve la volontà e la forza politica di portarle a termine, e il Recovery Fund potrebbe rappresentare un vettore comune per riuscirci.

Intendiamoci, in Italia è certamente necessaria anche una riforma fiscale. Il sistema delle imposte in Italia è complesso, iniquo e aperto a scappatoie per l’evasione e l’elusione. Ma per una riforma strutturale e costosa come questa non possono essere usati soldi europei.

La sfida è sicuramente ardua, ma è giunto il momento di affrontare i problemi strutturali, troppo spesso dimenticati dalla politica, perché complessi e richiedenti politiche lungimiranti. Il decreto Cura Italia e il successivo decreto Rilancio hanno destinato – giustamente – più di 80 miliardi di euro per sostenere il reddito degli italiani e l’operatività delle imprese. Le politiche per la domanda, per quanto in ritardo e spesso in modo inefficiente e iniquo, il governo italiano le sta adottando, e probabilmente non mancherà di farlo ancora nei prossimi mesi, se necessario. Ma i soldi europei, se arriveranno, non potranno che essere usati per altro.

Occorre guardare al futuro, sebbene appaia molto incerto. Lo stesso nome scelto dalla presidente Von der Leyen, “Next Generation EU” vuole indirizzarci su questa strada. Un futuro per l’Italia che possa svilupparsi all’insegna della sostenibilità, della digitalizzazione, del lavoro, dei giovani e dell’Europa, coerentemente con gli obiettivi dell’Unione. Un piano di aiuti di tale entità non si vedeva dai tempi del piano Marshall, dopo la distruzione del secondo conflitto mondiale. Ma come rimarcato da un editoriale de El Mundo, gli aiuti esigono responsabilità.

Le risorse peraltro non sono ancora assicurate. Le negoziazioni saranno dure e le posizioni di parte del governo per utilizzare il Recovery Fund per tagliare le imposte potrebbero indebolire la posizione italiana. Parlare di taglio delle tasse – una soluzione di breve termine e che può portare lauti consensi alla politica – prima ancora di comporre una proposta, un piano organico, è esattamente il contrario di quanto abbiamo bisogno e di quanto dovremmo fare.

Twitter @Tortugaecon