Generazione lockdown: perché a pagare la crisi saranno i giovani

scritto da il 05 Giugno 2020

Le previsioni parlano chiaro: il periodo post-lockdown sarà caratterizzato da una grave recessione e da un alto tasso di disoccupazione a livello globale. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel suo ultimo rapporto ha dichiarato che l’economia mondiale subirà una contrazione pari al 3% per l’intero 2020, mentre l’Italia dovrà affrontare una riduzione del Pil pari al 9,1% confermandosi uno dei Paesi più colpiti. A pagare il conto più salato, se la politica non interverrà immediatamente, saranno ancora una volta i giovani.

Uno dei settori che subirà maggiormente le conseguenze negative è quello del lavoro: secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) rese note il 27 maggio, il 94% dei lavoratori nel mondo vive in Paesi in cui sono in vigore misure di chiusura delle attività lavorative. Il fenomeno risulta ancora più critico se si prende in considerazione la situazione dei giovani all’interno del mercato del lavoro: sarà infatti questa categoria di lavoratori a dover sopportare i peggiori effetti socio-economici della pandemia nel breve e nel lungo termine. La disoccupazione giovanile, fenomeno che a livello globale interessava più di 67 milioni di giovani ex ante il lockdown e che nel 2019 si attestava attorno al 13,6%, è in crescita dal febbraio 2020.

Il futuro della “generazione lockdown” rischia di essere compromesso a causa di shock sistemici come i cambiamenti nei settori dell’istruzione e la diminuzione dell’occupazione, che comporteranno una diminuzione del capitale umano in seno ai giovani e la possibile marginalizzazione degli stessi nel mercato del lavoro.

L’università durante la pandemia

Il mondo dell’insegnamento universitario è stato investito da innumerevoli cambiamenti. Il distanziamento sociale e la chiusura di scuole e università ha reso necessario abbandonare la didattica frontale e volgersi – nel più breve tempo possibile – verso l’erogazione dei corsi in modalità remota. Come dimostra un’indagine condotta nel mese di marzo da parte della Conferenza dei rettori delle università italiane, l’88% delle attività didattiche universitarie è stato trasferito online e più della metà degli atenei eroga oltre il 96% dei propri corsi con strumenti di teledidattica.

L’utilizzo della didattica online, una soluzione flessibile e adattabile, potrebbe non rappresentare una contromisura temporanea: l’Università di Cambridge ha già annunciato che tutto l’anno accademico 2020-2021 si terrà online. Questa decisione storica, qualora fosse emulata anche da altri atenei a livello globale, potrebbe concorrere a determinare un cospicuo calo delle immatricolazioni. Come riporta il New York Times, gli studenti sono attualmente restii ad immatricolarsi all’università poiché la situazione di incertezza globale non consente previsioni sulla riapertura degli atenei in autunno.

A ciò, si unisce la riduzione delle risorse a disposizione delle famiglie appartenenti a contesti socio-economici più fragili e la relativa considerazione del costo opportunità di un’immatricolazione a fronte di un inserimento nel mondo del lavoro. Secondo le stime dell’Osservatorio Talents Venture, se le previsioni del Fmi si riveleranno corrette, il numero di immatricolati nelle università italiane per l’anno accademico 2020-2021 potrebbe ridursi di circa 35mila unità rispetto all’anno precedente, ovvero dell’11%. Il risultato potrebbe essere un’enorme perdita per gli atenei italiani, pari a circa 46 milioni di euro, dovuta al minor gettito da tasse universitarie. Inoltre, è plausibile pensare che nella scelta di non immatricolarsi confluirà anche la ridotta mobilità internazionale, sia per gli studenti italiani che intendevano recarsi all’estero che per coloro che avrebbero scelto il nostro Paese come meta di studi. Secondo Talents Venture infatti, in Italia è possibile aspettarsi una contrazione della domanda estera di immatricolazione, che nell’a.a. 2018-2019 era pari a 15.600 unità, in aumento dello 0,5% rispetto all’anno precedente.

Una conseguenza diretta della crisi del settore universitario riguarda la possibile creazione di un bacino di giovani lavoratori meno istruiti. Secondo la teoria del capitale umano di Theodore Schultz, un alto livello di istruzione è strettamente connesso a miglioramenti nel mercato del lavoro in termini di produttività e guadagni. La terribile perdita di capitale umano di cui sarà protagonista la “generazione lockdown” contribuirà a rendere ancor più difficoltoso e meno proficuo l’inserimento lavorativo dei giovani di oggi.

I dati dal mondo del lavoro

Se il mondo universitario subisce già le conseguenze dell’emergenza Covid-19, i dati dal mondo del lavoro giovanile sono altrettanto preoccupanti. A dare l’allarme è l’Ilo che nelle ultime analisi sull’impatto economico della crisi ha evidenziato come i giovani siano le principali vittime nei Paesi coinvolti dal lockdown. La popolazione in età compresa tra i 20 e i 29 anni è stata colpita in “modo sproporzionato” dalla crisi, si afferma nel report, e più di un giovane su sei ha perso il lavoro dall’inizio del mese di marzo.

Saranno poi i mesi caldi del 2020 il secondo banco di prova per i più giovani, in quella che il Washington Post ha definito come la “summer of nothing”, l’estate del nulla. I giovani studenti di tutto il mondo, infatti, sono soliti approfittare della pausa estiva per accumulare esperienze extra-accademiche. L’obiettivo è arricchire i loro curricula, la cui competitività gioca un ruolo fondamentale per l’ingresso nel mercato del lavoro. L’emergenza Covid-19 ha spazzato via il “tempo della semina” della generazione del lockdown e ha portato alla sospensione o alla completa cancellazione di tirocini, eventi e scambi internazionali.

Secondo alcune stime dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal), soltanto in Italia erano stati attivati, nel 2017, circa 350mila tirocini in tutto il territorio nazionale. La sospensione delle attività produttive dettata dal rischio contagio ha reso economicamente impossibile per molte imprese continuare a sostenere gli stage già avviati. La maggior parte delle attività di tirocinio sono quindi state sospese e molte altre programmazioni di medio-periodo sono state annullate. I percorsi di tirocinio non sono regolati da canonici contratti di lavoro, ma dipendono da specifiche convenzioni tra enti promotori ed enti ospitanti. Ciò significa che gli stagisti non godono delle misure di tutela tipicamente adottate a favore dei lavoratori dipendenti. Circa il 64% di chi ha perso la possibilità di portare a termine i propri tirocini, infatti, non ha ricevuto alcuna compensazione salariale. Inoltre, chi ha continuato a lavorare a distanza ha visto il suo orario di lavoro ridursi del 23%.

Un’ulteriore aggravante è data poi dal fatto che, quando i giovani sono occupati, essi sono impiegati in attività molto più sensibili agli shock di reddito e vulnerabili alle oscillazioni del mercato. Secondo l’Ilo infatti, quasi il 77% dei giovani sono occupati in lavori informali e le loro condizioni di lavoro sono precarie. Una recente analisi de lavoce.info ha inoltre rilevato che, in Italia, circa il 25,5% degli occupati nelle attività etichettate come “non essenziali” durante il lockdown, quali turismo e ristorazione, ha un’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Anche l’Ilo ha sottolineato che più di quattro giovani lavoratori su dieci erano impiegati, prima della crisi, in uno dei settori individuati dal report come i più colpiti dall’impatto del Covid-19.

La dottrina dell’ammortizzazione: unica speranza per i giovani

Già la grande recessione e la successiva crisi dei debiti sovrani avevano duramente colpito i giovani, facendo aumentare la disoccupazione e generando una diminuzione dei loro redditi medi. Per questo, secondo le Nazioni Unite e come spiegano gli economisti Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, senza appropriati ammortizzatori potrebbe essere inferto un duro colpo alle prospettive lavorative dei più giovani.

A tali politiche si associano le proposte della Banca mondiale, la quale mette in guardia gli Stati dai tagli di bilancio tipici dei periodi post-crisi e consiglia, per contro, di sostenere l’occupazione giovanile, investendo nell’istruzione e nello sviluppo digitale, come unico strumento di lungo termine in grado di presupporre una ripartenza collettiva.

Testo a cura di Anna Corrente e Martina Mazzini

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