Perché il rilancio del Paese passa dalla politica industriale

scritto da il 25 Giugno 2020

Post di Ivan Giovi e Andrea Muratore. Andrea Muratore (residente a Orzinuovi in provincia di Brescia) e Ivan Giovi (residente a Gragnano Trebbiense, in provincia di Piacenza), entrambi classe 1994, sono analisti che si occupano di materie economiche e geopolitiche per l’Osservatorio Globalizzazione* – 

Nel contesto della rassegna “Gli altri Stati generali”, un ciclo di conferenze organizzate da cinque tra organizzazioni e centri studio (Osservatorio Globalizzazione, Kritica Economica, Sottosopra, La Fionda e Associazione Minerva) per sensibilizzare il dibattito sui temi fondamentali per la ripresa del Paese, è stata affrontata la questione del rilancio delle politiche industriali in Italia.

Il sistema Paese necessita di un chiaro e deciso ripensamento delle linee guida della propria politica industriale. Troppo spesso, negli anni passati, il dibattito a livello politico, accademico e mediatico sulle rotte dell’interesse strategico italiano in materia di politica industriale si è limitato a discussioni accese, se non addirittura rissose, in occasione dell’apertura di tavoli di crisi o di dossier problematici come quelli riguardanti l’ex Ilva di Taranto e gli stabilimenti Fiat.

Il dibattito andato in scena il 13 giugno scorso, a cui hanno partecipato Giovanni Dosi (Scuola superiore Sant’Anna di Pisa), Giovanna Vertova (Università degli Studi di Bergamo) e Roberto Romano (CGIL Lombardia) ha provato a trasmettere un’idea diversa: la necessità di politiche industriali strutturate e capaci di incidere sulla ripresa del Paese, per sopperire a quella che è stata la preponderante politica industriale degli ultimi trent’anni o meglio la sua assenza e la sua necessaria osservazione anche sul versante dei servizi. Durante il dibattito sono emerse sia cause delle carenze italiane, da non collocare unicamente con le privatizzazioni degli anni Novanta – come la mancanza di una produzione interna di beni capitali capace a sopperire alla domanda nazionale di investimenti, ma anche la scarsa volontà e competenza politica nel definire gli obbiettivi e i fini della politica industriale – che proposte, come le mission, obbiettivi concreti che le aziende private o ex-novo pubbliche tassativamente devono seguire in settori di particolare interesse quali il digitale, la medicina e il territorio; alla concezione dello Stato come innovator of last resort e alla industrializzazione della ricerca e sviluppo pubblica. Ma anche la diversificazione del metodo di agire, di funzionamento e di comportamento tra le imprese che fanno riferimento allo Stato in settori considerati strategici e le imprese del settore privato.

Le linee guida per la ripresa del Paese

Dalle discussioni emerse nel panel sulla politica industriale a “Gli altri Stati generali” emerge con chiarezza la necessità di pensare strategicamente il futuro del Paese. La nostra convinzione, ribadita in una recente analisi pubblicata sulla rivista Le Sfide, è che la politica industriale sia da pensare come una questione sistemica: un terreno d’azione in cui lo Stato è chiamato a prendere consapevolezza della natura competitiva delle relazioni economiche globali nell’era internazionale, a cogliere l’evoluzione delle catene del valore e della produzione su scala globale, a creare le condizioni per far sì che l’Italia possa inserirsi nel loro sviluppo, coglierne i migliori frutti in termini di crescita economica e relazioni commerciali.

In altre parole, a farsi stratega, definendo le priorità e i settori in cui si ritiene più utile convogliare sforzi politici, progettualità e, in maniera mirata, capitali pubblici per creare le sovrastrutture del rilancio del Paese. Ma non solo, anche per poter formare quella classe manageriale di alto livello che un paese industriale come il nostro necessita fortemente. La nostra posizione si mantiene esterna al dibattito sulla necessità o meno di una “nuova IRI”, ritenendo noi essenziale prendere esempio dalle lezioni positive del passato (e in tal senso la prima fase delle partecipazioni statali ne ha potute esprimere molte, dal caso Finsider a quello Stet) ma anche dei mutati equilibri legati alla globalizzazione che renderebbero oggi uno schema fondato unicamente sull’assetto proprietario come limitante. L’Italia del boom in cui l’IRI operava nel secondo dopoguerra necessitava di infrastrutture di base, di edificare una rete produttiva funzionale allo sviluppo di un fiorente sistema industriale, di procacciarsi conoscenze e materie prime necessarie al decollo del Paese. Ora, scrivevamo su Le Sfide, “riteniamo che al Paese serva, in primo luogo, affrontare le sfide della rivoluzione tecnologica e metterla al servizio del rilancio dell’Italia come grande Paese industriale, far fronte al deperimento delle infrastrutture per connettere con nuovo slancio l’Italia ed evolvere i paradigmi dell’industria manifatturiera” sviluppando anche la protezione dei settori ritenuti di maggiore interesse nazionale.

Discutendo con l’Osservatorio Globalizzazione, un attento osservatore come Giuseppe Berta faceva notare che il Paese necessita di “guardare in avanti, definendo una sorta di carta che dica quali sono gli elementi strategici del nostro apparato produttivo di cui non possiamo e non vogliamo fare a meno, per poi favorire una politica di crescita delle nostre imprese medio-grandi”. La recente crisi del coronavirus ci insegna quali sono i pilastri di cui non si può fare a meno: le infrastrutture di rete acquisiscono valenza critica in periodi di instabilità o crisi sistemica e gli apparati industriali per la realizzazione e la manutenzione di reti di Tlc, energia, acqua e trasporto contribuiscono a garantire la tenuta della spina dorsale materiale e immateriale del Paese; il comparto della Difesa, dell’elettronica avanzata e dell’aerospazio è una frontiera di competizione che tutela elevati livelli occupazionali e di export, oltre a contribuire alla tutela del sistema-Paese nel suo complesso; i settori del biomedicale e della farmaceutica sono stati valorizzati come decisivi dalla battaglia sulle forniture mediche andata in scena durante l’emergenza pandemica.

A questo si affianca la miriade di alleanze e distretti industriali del cosiddetto “quarto capitalismo”, una costellazione di piccole e medie imprese ad alta specializzazione e forte concentrazione geografica, che rappresentano le punte d’eccellenza dell’Italia laboriosa e attiva “all’ombra dei campanili”, per citare Carlo Cipolla. Per questa diffusa costellazione di imprese la sfida è la medesima del resto del comparto produttivo: ancorare l’Italia alle catene del valore e alle reti commerciali più importanti su scala globale. È qui invece che si inserisce la necessità di far sviluppare queste piccole e medie imprese, spesso sottocapitalizzate e sottodimensionate, così da renderle player di dimensioni critiche per poter competere con gli attori di altri paesi a forte vocazione industriale. Per questo non basta più la limitata potenza di fuoco della sola Invitalia, è necessario pensare anche ad un soggetto di dimensioni molto più elevate nella forma del “Fondo Sovrano” che abbia come obbiettivo non solo lo sviluppo dimensionale delle imprese ma anche la difesa degli assetti proprietari.

Ogni grande piano di cui si discute riguardante la ripartenza del Paese presuppone un ragionamento di politica industriale. Prendiamo i tanto discussi progetti di rilancio della sanità: indipendentemente dalle modalità di finanziamento, essi aprono importanti questioni su diverse filiere di approvvigionamento che l’Italia deve saper presidiare e mantenere operative per aver un pieno ritorno e dividendi produttivi, occupazionali e strategici dal rilancio di un settore tanto critico. Dai presidi sanitari alla robotica più avanzata nel campo biomedicale, passando per gli hardware e i software di processamento e gestione dei dati sanitari il discorso è chiaro: potrebbe l’Italia contare su un piano tanto importante senza aver la garanzia di vedere mobilitate le sue migliori risorse interne e, di conseguenza, aver la garanzia di poterlo portare a termine nei modi e nei tempi più congeniali?

Se tutto è strategico, nulla è strategico. Ma se lo Stato, in termini di politica industriale, delimitasse bene i perimetri e si rendesse conto delle ricadute che investimenti mirati, stimoli alla ricerca e usi ben calibrati di strumenti come il golden power possono produrre sul sistema-Italia il discorso cambierebbe. Paesi come la Francia e la Germania si stanno rendendo conto da tempo della svolta competitiva delle relazioni economiche internazionali e, soprattutto, del fatto che la competizione sulle catene del valore impone di tenere entro i perimetri nazionali la fascia di produzione che garantisce il massimo valore aggiunto. Fascia che nell’era dei big data e della rivoluzione tecnologica passerà nei prossimi anni sempre più nel campo dell’immateriale, rendendo ulteriormente necessaria la supervisione politica e strategica di uno Stato in grado di dare le linee d’indirizzo e i finanziamenti necessari all’innovazione, alla ricerca e ai cambi di paradigma produttivi. Per anni la politica industriale si è ridotta al tentativo di dare risposte a domande emergenziali (che fare dell’Ilva? Che fare di Alitalia? Come comportarsi di fronte all’offshoring produttivo?). Ora si tratta di individuare in anticipo le domande, ovvero le linee di tendenza su cui si muove il potere economico e la competizione su scala globale. Facendosi trovare pronti per governarne gli indirizzi sul suolo italiano.

*centro studi indipendente fondato e diretto dal professor Aldo Giannuli