26 miliardi per il Reddito di Cittadinanza, 11,6 per la ricerca: Italia ultima

scritto da il 03 Luglio 2020

Nel triennio 2020-2022, il Reddito di Cittadinanza graverà sui conti pubblici per 26 miliardi di euro, cui occorrerà aggiungere altri 9,7 miliardi da destinare alle politiche attive per il lavoro. In totale, considerando la ratio della misura, si tratta di 35 miliardi di euro. La notizia non è originale né recente. I dati di pertinenza, infatti, ci riportano indietro di circa centoottanta giorni, fino al mese di gennaio, periodo in cui Unimpresa diffuse la risultanza di una propria indagine.

Un misfatto piuttosto recente, invece, riguarda l’esito dei 22.151 interventi fatti dalla Guardia di Finanza allo scopo di accertare l’indebita fruizione del summenzionato Reddito socio-assistenziale. I media, il 21 giugno scorso, hanno dato ampio spazio al fenomeno di cronaca in questione: sono state denunciate oltre 700 persone, per le quali la pena prevista adesso è la reclusione da due a sei anni, secondo l’ipotesi di reato contemplata nell’art. 7, comma 1 del DL 4/2019.

L’accostamento tra l’elemento dell’aggravio di spesa e quello delle truffe ai danni dello Stato non è da intendersi come principio o, addirittura, criterio di ‘messa in discussione’, giacché è evidente – e sempre lo sarà, d’altronde – che la linearità d’una qualsivoglia disciplina legislativa ed economica non può essere valutata sulla base di tutte le infrazioni possibili o malevole distorsioni. Non rinunciamo di certo a una bella passeggiata serale nel timore di essere aggrediti e derubati, come non rinunciamo a fare un acquisto online nel timore che la nostra carta sia clonata. Eppure, può accadere; l’evento rientra nella statistica delle cose possibili: concezione, fine, realtà e variabili sociali sono parti imprescindibili di ogni progetto di economia pubblica, che, di conseguenza, dovrebbe essere giudicato ante societatem. Proprio qui, però, nascono e immediatamente si consolidano le vere preoccupazioni. Non si tratta di pregiudizi. Si badi bene! Se si può ridurre la disuguaglianza, l’intero paese ne trae un beneficio e nessun detrattore politico può opporsi.

I numeri delle voci di bilancio pubblico, purtroppo, se messi a confronto, ci inducono a nutrire ‘morbosi’ dubbi sul valore della spesa socio-assistenziale. Unimpresa, infatti, oltre a palesare perplessità sui 26 miliardi del triennio, ha oggettivamente denunciato l’esiguità degli investimenti in ricerca, che corrispondono, come s’è detto, a 11,6 miliardi, e in opere pubbliche e infrastrutture di riferimento, che invece corrispondono a 15,1 miliardi. Lo scompenso, in effetti, è tragicomico, assurdo e, per certi aspetti, anche grottesco.

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Se consultiamo il sito redditodicittadinanza.gov.it, leggiamo, fin dalle prime battute, che il “Reddito di Cittadinanza ti aiuta a formarti e a trovare (…) il Reddito di Cittadinanza ha inoltre l’obiettivo di migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (…)”. Tralasciando ridondanze e ripetizioni enfatiche accumulate in pochissime righe, vien fatto di porsi alcune domande e fare delle inevitabili considerazioni analitiche. Anzitutto, sembra paradossale che si spenda tanto per un reddito sociale che dovrebbe aiutare i cittadini a formarsi e trovare lavoro, laddove la formazione stessa ne esce fortemente penalizzata. Secondo la Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione della Commissione Europea (2019), dal 2009 al 2018, gli investimenti per l’istruzione in percentuale del PIL, in Italia, sono passati dal 4,6% al 3,8%. In rapporto alla spesa pubblica, invece, impegniamo il 7,9%. In pratica, abbiamo la media più bassa dell’UE. Nel 2009, abbiamo speso 72 miliardi per migliorare il settore, lo scorso anno 66. In termini di occupazione, prendendo in esame la categoria dei diplomati tra i 24 e i 34 anni, rileviamo addirittura un calo di quattro punti percentuali, mentre la media UE è cresciuta del 3%. In ambito OCSE, per esempio, l’Italia è al ventisettesimo posto per investimenti in ricerca e sviluppo. Ce lo dicono i curatori dell’Annuario di Tecnologia, Scienza e Società del 2020, Giuseppe Pellegrini e Andrea Rubin, i quali ci fanno notare pure che quattro tra i primi cinque scienziati italiani più citati nel mondo vivono e lavorano o negli Stati Uniti o nel Regno Unito.

Rebus sic stantibus, una prima domanda retorica può essere ‘liberata’ sulla pagina: si crede davvero che si possa creare lavoro per decreto? Il lavoro generato per decreto è assai limitato e non può avere durata nel tempo, è un che di fittizio, la premessa d’una sconfitta globale imminente. Lo stesso dicasi per la formazione! A febbraio, la ministra Nunzia Catalfo twittava trionfale: “Quasi 40mila persone che ricevono il reddito di cittadinanza hanno trovato lavoro”. Lo slancio emotivo della ministra, tuttavia, implicava anche un distacco dalla realtà, di cui molto probabilmente non s’è tenuto conto. Anche ammettendo che questi 40.000 percettori del Reddito di Cittadinanza siano stati concretamente ricollocati, dichiarazione, questa, non dimostrabile scientificamente, sarebbe appena il caso di riproporre il dato in comparazione col numero di coloro che beneficiano del reddito sociale, col numero dei navigator assunti e, da ultimo, col numero dei bisognosi in Italia. Se omettiamo certi contenuti, la narrazione si fa celebrazione gloriosa. Tra le altre cose, la Corte dei Conti, per il tramite del proprio Procuratore Generale, Fausta Di Grazia, ci fa sapere che il RdC è stato un flop: ovviamente, il tutto è ben documentato nella relazione sul rendiconto generale dello Stato 2019.

 

Fondamentale la distinzione tra famiglie che beneficiano del RdC e domande accolte

Fondamentale la distinzione tra famiglie che beneficiano del RdC e domande accolte

L’operazione, comunque, è semplicissima. Approssimando leggermente le cifre per eccesso, come d’altronde ha fatto la ministra, otteniamo i seguenti risultati: 2.000.000 di percettori del reddito, 40.000 nuovi lavoratori, 3.000 navigator, 4,6 milioni di persone in povertà assoluta. Ciò vuol dire che all’incirca il 2% dei percettori di reddito avrebbe trovato lavoro, ma pure che i navigator, rispetto ai ‘nuovi lavoratori’, rappresentano il 7,5%: si tratta di una sproporzione indecente. Creare ‘per decreto’ una quantità di posti di lavoro che è pari al 7,5% di coloro che hanno trovato lavoro mediante una misura d’assistenza è oltre ogni decoro macroeconomico. Tra le altre cose, dal momento che più del 50% di questi 40.000 avrebbe trovato un impiego nei primi sei mesi dall’attuazione della misura, non è escluso che il modello sia stato molto meno efficace di quanto si sia pensato finora. Con riferimento ai poveri, invece, si riscontra un problema determinante. Come si legge nel report dell’ISTAT, “per il RdC ci si basa sulle autodichiarazioni presentate dai richiedenti e sottoposte a verifica da parte dall’INPS”, mentre, la povertà assoluta “è stimata utilizzando i dati rilevati con un’indagine campionaria che, nel 2019, ha coinvolto 18.718 famiglie”; la qual cosa, almeno prestando fede all’enunciazione dell’Istituto di Statistica, potrebbe generare una certa difformità e alterare il piano assistenziale.

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La vicenda delle truffe relative alla fruizione illegittima del Reddito di Cittadinanza, perpetrate addirittura da proprietari di Porsche, ma anche da imprenditori abbienti e da lavoratori in nero, adesso, assume un diverso valore, nella misura in cui si colga l’aspetto disfunzionale: alla spesa pubblica fatta anche per creare lavoro (non-senso?) si contrappone la mancanza di investimenti autentici per il lavoro e le imprese e, nello stesso tempo, si crea indirettamente un’area d’illegalità. Un focus decisivo dell’intera analisi è perfettamente proposto da Unimpresa, non solo e non tanto con riferimento a ricerca e a istruzione, le cui ‘quote’ sono già da sé allarmanti, ma anche, piuttosto, riguardo ai 15,1 miliardi destinati alle opere pubbliche e alle infrastrutture che, paragonati alla spesa per il Reddito di Cittadinanza, producono una colossale contraddizione.

Gli investimenti fissi delle Pubbliche Amministrazioni, infatti, comprendendo la costruzione di scuole, autostrade, ospedali, oltre a determinare la formazione lorda di capitale, creano proprio un legame tra il presente e il futuro di un paese perché stimolano la produzione e i consumi e generano nuovi posti di lavoro. In generale: perché un governo dovrebbe preferire una spesa senza futuro, appesantendo la sezione corrente del bilancio pubblico e indebitandosi sempre di più, in luogo di un investimento che passerebbe dalla sezione in conto capitale? Questa è una delle domande retoriche che abbiamo concepite in precedenza, ma per le quali facciamo fatica a trovare delle risposte.

Bisogna tenere conto del fatto che nel triennio preso in esame, le grandi opere pubbliche perderanno addirittura il 36,44% degli investimenti, un valore devastante, oltre che sorprendente. Alla scuola andrà un po’ meglio, ma sempre in negativo: -1,56%.; mentre l’università riceverà solamente lo 0,76% in più. In sostanza, non si capisce più quali siano la vision e la mission dell’Italia. Per tanto tempo, ci siamo raccontata la storiella del nostro primato culturale, ma è arrivato il momento di farla finita. Ormai, si tratta solo di un racconto di magia che può catturare solo l’attenzione dei gonzi: la cultura non è possesso; non è sufficiente rivendicare, per esempio, la proprietà di un sito archeologico o continuare a urlare che noi abbiamo avuto Dante Alighieri e Leonardo da Vinci, se abbiamo ancora un altissimo numero di giovani che abbandona precocemente gli studi, una classe di docenti universitari tra le più anziane del mondo e nessun governo si preoccupa di cambiare lo stato di cose.

Quella Cina a lungo bistrattata e, di recente, maledetta per via delle sortite complottistiche, oggi, vanta il primato mondiale nell’innovazione tecnologica, mentre quel Giappone al quale s’ispirano tanto generosamente i sovranisti spende in istruzione e ricerca molto più di quanto investiamo noi, che preferiamo piangerci addosso. Quando le donazioni saranno finite, in assenza di veri posti di lavoro, la situazione peggiorerà. Ecco perché perdiamo punti percentuali: adottiamo la politica economica del ‘tappabuchi’, filo-elettorale.

 

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