Leadership e potere: un (modesto) tentativo di fare chiarezza

scritto da il 21 Luglio 2020

Nella letteratura manageriale, specie degli ultimi 15 anni, sono stati scritti diversi articoli (e anche qualche libro) che mettono in primo piano la contrapposizione, nella gestione dei team, tra un approccio che fa leva sul potere ed uno centrato sulla leadership.
(Un altro filone piuttosto florido è quello “leadership vs management”).

Vedo due limiti in questo approccio:
1) un pensiero dicotomico che, pur se molto efficace in termini comunicativi, non rende giustizia della complessità, della mutevolezza e, spesso, dell’ambiguità della vita organizzativa;
2) una scarsa chiarezza nella definizione dei termini in gioco, per cui confini che potrebbero apparire netti sono, invece, sfumati o addirittura indefinibili.

Voglio provare, con questo post, a condividere la mia visione sul tema potere / leadership, partendo dai significati dei termini e sviluppando, su questa base, alcuni ragionamenti.
Questo non significa che le definizioni date qui siano scolpite nella pietra. Le ho scelte tra molte altre possibili, con un criterio: si tratta di quelle che, secondo me, possono meglio stare alla base di modelli interpretativi che spieghino le dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni.

Innanzitutto, la parola “potere” (termine piuttosto bistrattato, a cui, per lo più, viene dato un valore negativo. Come si vedrà più avanti, non sono d’accordo con questa lettura).
Lo definisco come la capacità di un attore sociale di determinare la condotta di un altro attore (il potere è, quindi, una forma di causazione sociale).
In altre parole, un soggetto (che chiamiamo per comodità A) ha potere su un altro (B) nella misura in cui è in grado di essere la determinante di un suo comportamento.
Il manager di un’azienda (A) ha potere sui suoi riporti (B) nella misura in cui è in grado di ottenere da loro attività, servizi, impegno, etc.
In questo senso, il potere non è un assoluto. Un manager potrebbe chiedere ed ottenere da un suo collaboratore la redazione di un report, ma, probabilmente, se gli chiedesse di ballare sulla sua scrivania quest’ultimo, credo giustamente, si rifiuterebbe.
Per questo si usa spesso la locuzione “sfera di potere”: si definiscono così i confini del potere di un soggetto rispetto ad un altro soggetto (nel caso di cui stiamo parlando, la redazione del report è all’interno della sfera di potere di A, il ballo sul tavolo all’esterno).
Un’ulteriore precisazione: se tutte le relazioni di potere sono causazioni sociali, non tutte le causazioni sociali sono potere. Se, per esempio, io chiedessi ad un mio allievo di offrirmi un bicchiere d’acqua, e questi me lo porgesse, io sarei stato la determinante di un suo comportamento. Non necessariamente, però, potrei tradurre questa sua reazione con il fatto che io detengo un potere su di lui: se il suo fosse stato un puro gesto di cortesia nei miei confronti, il suo atto non avrebbe a che vedere con una dinamica di potere.
La caratteristica del potere, infatti, sta nel fatto che il comportamento di B sia determinato dalla sua volontà di ottenere un vantaggio dall’adesione alla relazione di potere con A. In altre parole, A possiede una risorsa a cui B aspira (oppure che B vuole evitare, come preciserò tra poco) e questa risorsa diventa la “moneta” di scambio di quella relazione.
In estrema sintesi, quindi:
Esiste una relazione di potere quando un soggetto A è in grado di determinare il comportamento di un soggetto B, in quanto detiene una risorsa a cui quest’ultimo aspira.
E qui sta la chiave e la motivazione della mia adesione a questa definizione: la natura della risorsa detenuta da A, infatti, ci consente di distinguere tre diverse tipologie di potere.

Il primo tipo di risorsa è la forza.
In questo caso, A detiene un potere di tipo coercitivo.
Attenzione: per forza non intendo necessariamente la possibilità di determinare un danno fisico. La possibilità, per esempio, di licenziare un collaboratore, oppure di infliggergli un richiamo o una punizione rientrano sempre in questo ambito.
B, in questo caso, aderisce al rapporto di potere (e mette in atto comportamenti determinati da A) al fine di evitare l’uso della forza (per questo ho scritto prima che B può aspirare ad una risorsa, ma può anche volerne evitare l’uso da parte di A).
La misura della sfera di potere in questo caso è determinata dalla quantità della forza a disposizione (la sfera di potere coercitivo di un tiranno è più ampia di quella di un CEO… o almeno così dovrebbe essere), ma anche dalla “sensibilità” di B ai danni che A potrebbe infliggere.

La seconda tipologia sono le risorse materiali. In questo caso A è in grado di elargire, a fronte dell’adesione di B alla relazione di potere, una ricompensa in denaro o in beni materiali (un aumento di stipendio, un premio, un benefit, etc.).
Chiamo questa forma potere economico.
La misura della sfera di potere è determinata dall’entità delle risorse materiali a disposizione di chi detiene potere, ma anche, ancora una volta, dalla “sensibilità” dell’interlocutore a queste risorse.

La terza tipologia sono le risorse di tipo simbolico. E qui il discorso si fa un po’ più scivoloso: questa categoria è meno facilmente definibile e circoscrivibile rispetto alle prime due. Le risorse simboliche, infatti, possono essere le più disparate. Torno all’esempio della relazione tra me ed il mio studente. Egli potrebbe avermi porto il bicchiere d’acqua perché è desideroso di una relazione positiva con me, visto che è interessato alle mie idee ed aspira a continuare ad abbeverarsi al mio sapere (lo so, è una pia illusione, ma lasciatemi almeno sperare).
Oppure, un collaboratore permette che il suo capo determini i suoi comportamenti perché quest’ultimo ha trasmesso al suo team un progetto credibile ed entusiasmante. In questo caso B consente al rapporto di potere perché aspira ad appartenere al gruppo che realizzerà questo progetto. Infine, l’adesione potrebbe avvenire rispetto non tanto ad un obiettivo, ma ad un’idea. In questo caso, il soggetto A riesce a determinare i comportamenti di B perché questi è motivato da una visione che lo entusiasma (e che è stata, naturalmente, trasmessa ed incarnata da A).
Che cosa hanno in comune queste tre situazioni? Il fatto che la sfera di potere, in questo caso, si misura in termini di consenso, intendendo con questo termine la capacità di A di generare in B l’adesione a un’idea, ad un progetto oppure alla persona stessa (tornerò nel prossimo post su queste diverse forme del consenso).
Chiamo questa forma di potere leadership.

Quello di leadership, quindi, non è un concetto contrapposto a quello di potere, ma una delle sue forme. Più precisamente, la leadership è una forma di potere basata su uno scambio di beni simbolici, la cui misura è determinata dal consenso.

Un ultimo passaggio, abbiate pazienza.
A questo punto, possiamo tracciare quello che io chiamo “il triangolo del potere”, i cui vertici sono le tre forme che quest’ultimo può assumere.

Il triangolo del potere

Lo stile di esercizio del potere è, di conseguenza, determinato dal diverso mix utilizzato da ciascun soggetto A al fine di ottenere i comportamenti di B nelle diverse situazioni. In alcune relazioni potrebbe prevalere la leva del potere coercitivo, in altre quella del potere economico, in altre ancora quella della leadership (o, appunto, un mix variabile tra questi tre ingredienti).

A sua volta, questo mix si basa tipicamente su due determinanti:

1) la quantità di ciascuna delle risorse detenuta da A (se, per esempio, un soggetto non detenesse né la forza né risorse economiche, l’unica forma di esercizio di un potere potrebbe essere la leadership. Non avrebbe altra scelta. Nel caso, invece, in cui detenesse una quantità enorme di potere coercitivo, potrebbe permettersi di non avere alcun interesse a scambi di carattere economico o simbolico);

2) la volontà da parte di A di utilizzare un certo mix di risorse al fine di ottenere il comportamento di B. Se, infatti, il soggetto A detenesse tutte le risorse (il caso, per esempio, di un manager che, per gerarchia, avesse potere coercitivo, per leve di budget potere economico e per capacità di generare consenso una forma di leadership) si troverebbe a dover decidere quale sia il miglior mix da utilizzare in ciascun momento di una relazione di potere.

Se anche questo passaggio è chiaro, resta un’ultima domanda a cui rispondere: qual è il criterio con cui scegliere tra le diverse forme appena elencate?
Per farlo dobbiamo prendere confidenza con due attributi del potere che i politologi conoscono bene: il potere potenziale ed il potere attuale.
Le definizioni:
potere potenziale: è quella serie di comportamenti che A potrebbe potenzialmente ottenere da B esercitando una o più delle forme di potere appena viste. Potremmo definirlo il “serbatoio di potere” di A su B.
potere attuale: è ciò che A “spilla” da questo serbatoio: i comportamenti che A ottiene da B in virtù del proprio potere.
La trasformazione di un potere potenziale in potere attuale viene definita esercizio del potere.

La sintesi, derivata da queste definizioni, di che cosa significa gestione del potere è, quindi, questa:

l’esercizio del potere ha sempre un costo (che, tipicamente ma non necessariamente, è rappresentato dal trasferimento della risorsa a cui B aspira in cambio dei comportamenti a lui richiesti)
chi è in grado di amministrare efficacemente il proprio potere riesce a minimizzare questo costo.

Questo è, quindi, il criterio di scelta da parte di A della forma di potere da esercitare al fine di determinare la condotta dell’attore B: la minimizzazione del costo di esercizio del potere stesso.

Ne deriva che una visione non dicotomica della questione potere / leadership deve porsi l’obiettivo di fornire a chi detiene il potere criteri e modelli che gli consentano di raggiungere questo obiettivo, con un approccio pragmatico e al di là di ricette semplicistiche e, spesso, fuori contesto.

Mi rendo conto che così il tutto può sembrare un po’ teorico (forse anche molto teorico…).

Spero almeno, però, di aver contribuito a fare chiarezza circa i termini ed il “campo di gioco”. In post successivi tornerò sui singoli temi e cercherò di dare maggiore profondità e concretezza.

Per farlo nel modo migliore, mi piacerebbe che mi lasciaste i vostri commenti e le vostre domande, così da personalizzare approccio e contenuti sulla base delle vostre esigenze.
Potete farlo in due modi:

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– lasciando un commento su questo post aperto sul mio blog

Ringrazio in anticipo chi vorrà offrire il proprio contributo.

 

Twitter @lucabaiguini

Una breve nota a margine: la definizione di potere come causazione sociale è il frutto del lavoro di Mario Stoppino, mio docente di Scienza della Politica all’Università di Pavia. Sarà perché è stato il mio primo maestro su questi temi, ma continuo a trovare nel suo lavoro (e nel suo genio) una fonte continua di ispirazione.