Laureati, perché il rientro degli expat non è una politica di sviluppo

scritto da il 28 Luglio 2020

Post di Giulia Pastorella e Fabio Migliorini. Pastorella, esperta di digital policy, vive e lavora a Bruxelles. È stata candidata nella circoscrizione Europa alle elezioni del 2018 e sta ultimando un libro sugli expats. È responsabile per la strategia digitale di Azione. Migliorini: analista di dati, ha lavorato in ambito start-up e e-commerce a Berlino; correntemente ricopre il ruolo di Lead Product Analyst per HelloFresh – 

“Nostalgia” è nel significato letterale greco il dolore (“algos”) per il ritorno (“nostos”), un po’ come la “mialgia” indica il dolore muscolare. Certo è un sentimento presente nella vita degli italiani emigrati, che sono sempre più numerosi e qualificati, come spesso viene lamentato sui media e nel dibattito pubblico.

Il dolore del migrante italiano si manifesta sia sotto la forma di negata speranza di poter tornare, sia come una rassegnata analisi costo-beneficio che, nonostante generose politiche di incentivi fiscali, risulta perdente. Quindi se a questa nostalgia si può cercare di porre rimedio con politiche che favoriscano il “controesodo”, non le si può presentare come politiche di sviluppo per il paese. Invece il rientro, soprattutto dei cosiddetti “cervelli in fuga”, viene presentato spesso come una ricetta per la crescita italiana, come per esempio nel post I giovani laureati italiani: tanto talento al servizio di altri Paesi pubblicato su Econopoly.

L’argomento fallace del ritorno degli emigrati come “svolta” per l’Italia è costruito così:

1. Molti laureati lasciano l’Italia, la cifra più comunemente citata sono i 182.000 laureati in 10 anni (ISTAT)
2. Il costo stimato annuale per la formazione è di €250k euro per laureato, ovvero 15 miliardi in totale (si tratta sempre di stime molto approssimative)
3. Se potessimo far rientrare chi è partito e ricevere indietro parte di quel capitale umano disperso al servizio di altri paesi renderemmo l’Italia più competitiva e più ricca

Se i primi due punti sono indubbiamente un problema per il paese e, essendo puramente descrittivi, non presentano particolari criticità analitiche (al netto di come viene effettuata la stima del capitale umano perduto e dei noti problemi nel conteggio degli emigranti italiani), il terzo punto è una conclusione errata.

Da un punto di vista puramente logico infatti sembra supporre che l’emigrazione sia un problema a sé stante ed una volta invertiti i flussi (cioè fatti tornare i cervelli fuggiti) la situazione ritornerebbe alla normalità. Sembra inoltre sottendere che la migrazione sia causa del declino dell’Italia.

Invece “la spirale del sottosviluppo”, come l’ha recentemente definita Stefano Allievi in un suo saggio, fa sì che l’emigrazione sia al contempo un sintomo ed un acceleratore del declino italiano, le cui radici invece, ben descritte in “La strada smarrita” di Bastasin e Toniolo, sono da ricercarsi in un complesso intreccio di fattori economici ed istituzionali.

Torniamo peró sul tema del rientro degli emigrati qualificati e del perché anche se tutti o molti di loro rientrassero non potrebbero davvero dare una svolta al paese indipendentemente da qualunque altro fattore. Semplificando molto, chi emigra risponde a delle logiche di domanda e offerta del mercato del lavoro che presuppongono la ricerca di un match migliore per il proprio profilo altrove. Sappiamo bene invece che già con i tassi di emigrazione attuali i giovani qualificati che restano fanno fatica a trovare un lavoro in Italia che sia in linea con la propria istruzione e le proprie aspettative.

Infatti già nel Rapporto Annuale 2019 ISTAT dedicava un capitolo al problema della valorizzazione del capitale umano in Italia, dove emerge che la sovraistruzione (anche nota come over qualification) sia diventata un problema cronico del paese, comportando “un mancato ritorno sia economico sia sociale degli investimenti sostenuti a livello individuale e collettivo“.

La percezione di mismatch per i giovani laureati italiani è del 42% (laureati occupati in una professione che richiede un titolo di studio inferiore alla laurea) e tende ad essere più alto per i laureati nel settore socio-economico e giuridico e relativamente più bassa nei settori STEM, ed anche in quel caso un giovane occupato su tre si sente sopra-qualificato rispetto al proprio lavoro.

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La correlazione più interessante è però quella con le dimensioni dell’impresa. Non sorprendentemente le micro e piccole imprese mostrano i tassi di mismatch piú elevato. La frammentazione del nostro sistema produttivo è spesso riconosciuta fra le concause del declino italiano (cfr La strada smarrita citato in precedenza) e sembra difficile immaginare che il ritorno degli emigrati possa incidere su questa caratteristica del sistema. Più realisticamente gli emigranti di ritorno si dovrebbero adattare a quello che il sistema-paese può offrire.

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Non va meglio sul fronte del dottorato di ricerca, dove analizzando la coorte che ha conseguito il titolo tra il 2012 ed il 2014 si osserva che il 20% (!) che si è spostato all’estero occupa molto più spesso una posizione in ambito di ricerca ed innovazione ed ha un tasso di mismatch occupazionale inferiore.

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Infine anche guardando al lato della domanda, i dati UnionCamere (“La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane nel 2019”) confermano che 21 su 30 delle figure professionali di piú difficile reperimento sono ”professioni tecniche nell’ambito industriale (ad esempio, tecnici meccanici, tecnici della produzione industriale, tecnici elettronici, addetti a macchine utensili) e nell’ambito dei servizi (ad esempio tecnici programmatori, tecnici esperti di applicazioni informatiche, agenti assicurativi e immobiliari”). Sembra difficile immaginare il match perfetto per la fantomatica figura del cervello in fuga anche in questo caso.

Potremmo continuare chiedendoci come potremmo trovare all’improvviso posti per tutti i ricercatori se già quelli esistenti rimangono precari per decenni, o come trovare posizioni dirigenziali quando il ricambio generazionale non è il forte delle aziende italiane, o ancora dove trovare sbocchi per innovatori che spesso lavorano in settori che in Italia non esistono quasi? Ancora una volta i dati sugli investimenti in ricerca, fabbisogno di manager qualificati e livello di investimenti di venture capital ci racconterebbero la stessa storia di carenze strutturali.

Da un punto di vista di policy è stato un errore comune di questi anni quello di pensare in termini di incentivi e bonus a tempo, una logica che ha portato a risultati meno che soddisfacenti anche nella politiche del rientro. Trovare un lavoro adatto e soddisfacente è molto più importante del semplice salario, in altri casi invece l’incentivo offerto non è abbastanza. Inoltre dare incentivi fiscali a chi torna crea lavoratori di serie A e di serie B, come succede con tutte le azioni di discriminazione positiva, e questo va a detrimento proprio di chi ha scelto di non partire, decidendo di perseguire la propria carriera in Italia.

E quindi? È pur vero che il danno derivante dalla perdita di capitale umano esiste (e non solo sotto la forma di gettito fiscale ma anche di capacità innovativa, di capitale sociale e potenziale demografico) ma non possiamo pensare che sia un problema a sé stante, né credere che basti una politica di bonus a sopperire a carenze strutturali che peraltro impediscono il pieno utilizzo delle capacità e delle competenze in loco.

Quindi occorre concentrarsi su due assi:
– Internazionalizzazione: ambire ad attrarre talenti non necessariamente italiani e smettere di pensare che bisogna fare ‘rientrare i nostri ragazzi’. Sganciare il discorso sull’emigrazione dalla dinamica moralistica dove da un parte si chiede che il ”governo faccia qualcosa” e dall’altra si vedono gli emigranti come portatori di una responsabilità speciale verso il proprio paese, derivante dal cogliere i frutti dell’investimento ricevuto in formazione in un paese straniero.

– Non confondere le cause con gli effetti: ogni partito ha la sua particolare lista di riforme di cui il paese abbisogna (investimenti in ricerca, sburocratizzazione, costo del lavoro…) e non è questo il luogo per discuterne. Bisogna però riconoscere la dimensione dei fenomeni e la loro natura e non pensare che si possano risolvere problemi complessi a suon di incentivi.

Si potrebbe dire ancora molto sull’emigrazione italiana, sulle sue specificità e su come venga comunemente narrata. Ma resta un punto fondamentale: esiste un ruolo che gli espatriati italiani possono svolgere in questo momento, ed è quello di sostenere il paese in un momento difficile contribuendo a rendere più sano, informato e ragionevole il nostro dibattito pubblico. Non perché siamo tutti esterofili ma perché abbiamo bisogno di arricchire il punto di vista di un paese sempre più ripiegato su se stesso. Queste “rimesse culturali” potrebbero avere un impatto altrettanto importante di quello avuto delle rimesse economiche degli emigranti della migrazione post-unitaria nello sviluppo del paese.

Twitter @PastorellaGiu  e  @FabioMigliorin7

Fonti Citate
* Istat Rapporto Annuale 2019
* UnionCamere Domanda Professioni e Formazione 2019
* Carlo Bastasin, Gianni Toniolo, La strada smarrita
* Stefano Allievi, La spirale del sottosviluppo
* Fuga dei cervelli, Fioramonti: “È emergenza. Per ogni laureato che se ne va addio a 250mila euro di nostre tasse”, Il Fatto Quotidiano