Tra povertà e covid: ecco come stanno i millennials

scritto da il 29 Luglio 2020

Il dato è impietoso: oggi i giovani trentenni italiani che si trovano in una condizione sociale peggiore di quella di partenza sono superiori a coloro che l’hanno migliorata. Ma, benché peggiorino nell’arco del tempo, le previsioni dei report più recenti sulla generazione dei millennials (i nati intorno agli anni ’80) si inseriscono nel solco delle rilevazioni già effettuate negli anni trascorsi.

Lo diceva il rapporto di Bankitalia del dicembre 2018: c’è un rallentamento della mobilità sociale, e le posizioni di un individuo sono fortemente condizionate da fattori quali il quartiere di provenienza, le scuole frequentate, i legami familiari e d’amicizia. E lo dice anche il rapporto annuale dell’Istat del luglio 2020: l’ascensore sociale è bloccato e l’ultima generazione considerata, i nati tra il 1972 e il 1986, sperimenta la riduzione del passaggio verso classi sociali superiori – la mobilità ascendente – e un contemporaneo aumento del tasso di mobilità discendente, dunque di coloro che regrediscono a condizioni sociali inferiori rispetto a quelle di partenza.

Per la prima volta, evidenzia l’Istat, sono in percentuale più i figli che rischiano una regressione rispetto allo status dei genitori (26,6%) di quanti avranno invece la possibilità di ascendere verso condizioni più favorevoli (24,9%). Un numero, quello dei mobili verso il basso, già superiore rispetto a tutte le precedenti generazioni.

La pandemia da covid-19 ha poi esacerbato queste dinamiche, innestandosi su un terreno già eroso da crescenti disuguaglianze e da forti contraccolpi economici che – dalla recessione del 2008 – hanno condizionato il mercato del lavoro in cui si affacciavano i giovani d’allora. Quei millennials che oggi si trovano a fare i conti con una nuova crisi, di cui, evidenzia l’Istat, faranno le spese soprattutto le classi più svantaggiate e gli stessi giovani precari.

Dove nascono le difficoltà dei millennials

Lo spartiacque della crisi del 2008 ha avuto un impatto rilevante sui millennials, che proprio allora si presentavano nel mondo del lavoro. Il rapporto pubblicato dal Cnel lo scorso dicembre ha infatti rilevato una diminuzione di 400mila occupati tra i 15 e i 24 anni dal 2008 al 2019, mentre 1,4 milioni di giovani adulti – dai 24 ai 34 anni – dopo la recessione non sono rientrati nel mercato del lavoro.

Quanto a occupazione giovanile, l’Italia è fanalino di coda in Europa, mentre è nostro il primato di Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Su questo fronte, l’Italia primeggia nel ranking europeo con un 29,7% che diviene emblema – come evidenziano le elaborazioni sui dati Eurostat dell’Istituto Moressa – di un Paese tra i meno floridi in termini di opportunità per i propri giovani. E dove – continua l’osservatorio – il dibattito pubblico privilegia l’attribuzione dello stigma di bamboccioni e sdraiati a un’analisi dei problemi strutturali che si pongono alla base delle difficoltà dei millenials, sempre più spesso protagonisti di una fuga verso realtà in cui maggiori sono le possibilità di realizzazione personale e lavorativa. In Italia, infatti, le difficoltà riscontrate dalle giovani generazioni si riflettono, tra i vari ambiti, nella loro iniziativa imprenditoriale e nella drammatica condizione delle giovani famiglie.

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Imprese e millennials: un rapporto che fatica a decollare

Il rapporto tra gli under 35 e l’imprenditorialità rivela in pieno le difficoltà riscontrate dai giovani nell’inserirsi nel mondo del lavoro. Secondo Unioncamere, quasi un’attività su 3 tra quelle sorte nel 2018 era guidata da un millennial. Ciò, a prima vista, può far sembrare il quadro ottimo, ma ecco che si rimane con l’amaro in bocca se si pensa che nello stesso anno preso in esame, considerando la totalità delle imprese, solo una su 10 aveva a capo un under 35. La situazione migliora prendendo in considerazione soltanto le imprese digitali, dato che il 20% circa nel 2016 era amministrata dai giovani.

Nonostante qualche notizia positiva, riferita però a singoli ambiti, è lo scenario globale che preoccupa: dal 2011 al 2018 il numero di aziende under 35 italiane è diminuito notevolmente, di circa il 19%. Questo dato non è giustificato, se non in maniera esigua, né dal calo demografico della popolazione tra i 18 e i 35 anni (attestatosi al 5%), né dalla crisi economica (visto che il numero di imprese è rimasto pressoché costante). Ma c’è di peggio: sempre secondo Unioncamere, un’impresa giovanile su 3 chiude i battenti entro i primi 5 anni di vita, e fra quelle che non ce la fanno addirittura quasi il 50% non resiste oltre i due anni.

L’ombra della povertà sulle giovani famiglie

La precarietà delle condizioni lavorative dei giovani si rivela anche nella loro vita personale. Secondo una serie di report della Caritas di Firenze, il profilo del cosiddetto nuovo povero, delineatosi in seguito a un crollo del proprio reddito dopo l’inattività del lockdown, è quello di coppie giovani, italiane, con figli (di solito uno), con un solo reddito o anche due, ma di cui uno o entrambi precari.

Già prima della pandemia il quadro non era dei migliori. Secondo i dati di Openpolis, l’aumento della povertà conseguente alle crisi del 2008 e del 2011 ha colpito molto di più i giovani, in particolare gli under 18, rispetto alle altre generazioni. Inoltre, il divario generazionale per quanto riguarda la povertà era tutt’altro che ampio fino a 12 anni fa, ma le giovani famiglie, e in particolare quelle con figli a carico, si sono dimostrate più esposte agli effetti negativi della crisi economica.

In un Paese dove le nascite diminuiscono sempre di più e l’aspettativa di vita si fa sempre più alta, è facile intuire come dalla crisi economica si possa passare a quella demografica: vedendo sempre di più una diminuzione del loro reddito di fronte alla nascita di un figlio, le giovani famiglie possono essere meno incentivate a procreare, facendolo, semmai, ad un’età più avanzata. Eppure, in un sondaggio dell’Osservatorio giovani, il 94% dei giovani italiani esprimeva la volontà di costruire una famiglia con figli.

La realtà purtroppo è molto diversa dai desideri: nel 2017 più dell’80% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni viveva ancora con i propri genitori. Spesso un sintomo, questo, della mancata indipendenza finanziaria dalla propria famiglia. Secondo il professor Alessandro Rosina, tra i coordinatori del rapporto redatto dall’Osservatorio giovani, il fattore che spinge i millennials a “rifugiarsi” nella propria famiglia di origine è proprio la difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro, e a conquistare una piena autonomia.

Come il covid ha peggiorato la situazione

È su questo substrato che poggiano gli effetti del covid-19. Già durante il lockdown, era chiaro che tra i più funestati dagli effetti della pandemia ci sarebbero state le giovani leve, persa la possibilità di fare stage e di tentare l’ingresso nel mondo del lavoro. E, soprattutto, visti gli effetti del lockdown sui giovani lavoratori. In Italia, prima della fase 2, solo il 49,7% dei lavoratori under 24 e il 61% dei lavoratori tra 25-34 anni è rimasto occupato nei settori ancora attivi. Un dato che, se confrontato con le rilevazioni mensili provvisorie relative al mese di maggio (finito il lockdown) e diffuse dall’Istat, delinea la fisionomia dell’impatto delle misure di contrasto alla pandemia: rispetto al mese precedente, infatti, il tasso di disoccupazione tra i giovani compresi tra i 15 e i 24 anni ha riportato la crescita più sostenuta, assestandosi al 23,5%.

Non è un caso, dunque, che il sondaggio condotto dall’Istituto Toniolo durante la serrata abbia fatto registrare un certo scoramento dei giovani italiani, pessimisti sulle prospettive di ripresa post-pandemia. Ad aprile, molti tra gli intervistati hanno affermato di percepire un peggioramento della condizione lavorativa ed economica rispetto al passato. Effettivamente, a conti fatti, non avevano tutti i torti.

Testo a cura di Pierfrancesco Albanese e Vittorio Fiaschini

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