Con la crisi Covid, le pensioni dei giovani ancora più a rischio

scritto da il 03 Agosto 2020

L’autore di questo post è Eraclito, pseudonimo che un “umile servitore dello Stato”, esperto di economia e finanza, soprattutto in ambito internazionale, ha scelto per scrivere con maggior libertà – 

Uno degli effetti potenzialmente rilevanti e finora trascurati della crisi economica scatenata dalla pandemia da COVID-19 è quello sulle pensioni, non tanto quelle di coloro che le percepiscono adesso o andranno in pensione nei prossimi anni ma piuttosto quelle di coloro che andranno in pensione nel prossimo decennio e soprattutto quelle di coloro che sono appena entrati o si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro (ammesso che abbiano questa fortuna, considerato l’elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile pari al 23,5 per cento a maggio scorso).

Peraltro, questi effetti asimmetricamente a carico delle nuove generazioni sono in chiara continuità con il passato degli ultimi decenni. È sufficiente infatti riepilogare le vicende delle previdenza in Italia che spero siano sufficientemente chiare, non essendo chi scrive un esperto di previdenza pubblica.

C’era un tempo in cui, affianco all’istituto della pensione di vecchiaia, aveva larga diffusione quello della pensione di anzianità. A quel tempo, alcuni lavoratori sono effettivamente andati in pensione con un’anzianità di 20 anni, 6 mesi e 1 giorno e hanno percepito una pensione ragguardevole per decenni e decenni e magari la percepiscono tutt’ora, loro o i loro rispettivi consorti. Le pensioni oltretutto, sia di anzianità sia di vecchiaia, erano generalmente di notevole importo perché vigeva il sistema retributivo, che consiste nel parametrare la pensione all’ultimo o agli ultimi stipendi percepiti nella propria carriera. Se ci pensate, non si tratta di una cosa necessariamente malevola: in questo modo, lo Stato sollevava costoro da un bel rischio, assicurandogli una pensione per la vita residua in continuità con lo stipendio percepito a fine carriera.

Purtroppo, come spesso accade in Italia, si è esagerato e il sistema pensionistico pubblico è andato per lunghi anni in un profondo squilibrio attuariale, dovuto al combinato disposto di tanti fattori: la sproporzione tra la pensione percepita e i contributi sociali versati, la diffusa possibilità di andare in pensione con un’anzianità contributiva ben al di sotto di quella prevista per le pensioni di vecchiaia, la generosità delle pensioni di anzianità e di quelle di reversibilità e il progressivo allungamento della speranza di vita in Italia.

Ecco che allora nel 1995 interviene la legge Dini che interviene dando inizio a dualismi tra quei lavoratori che continueranno a godere del sistema retributivo e quelli che dovranno avvalersi interamente o in maniera mista del metodo contributivo. Si tratta di un duro colpo allo Stato Sociale italiano, non immediatamente percepito perché si materializzerà lentamente ma inesorabilmente nel corso dei decenni. Infatti, per essere accettabile politicamente e poter essere votata in Parlamento, la riforma Dini correggeva sì gli squilibri attuariali ma in maniera graduale, talmente graduale andando a regime solo dopo diversi decenni che una tartaruga sarebbe stata più veloce. Il colpo inferto allo Stato Sociale è quello per cui, mentre con il metodo retributivo il lavoratore ha la ragionevole certezza di poter mantenere in pensione un tenore di vita comparabile a quello goduto negli ultimi anni di carriera (con il rischio degli squilibri tra contributi e prestazioni a carico dello Stato), con il metodo contributivo il lavoratore diventa molto più esposto al rischio che la pensione che percepirà, in quanto funzione dei contributi versati e non della retribuzione, non sia sufficiente a garantirgli un adeguato tenore di vita per tutto il resto della sua vita (essendo il lavoratore e non lo stato ad essere soggetto al rischio di dover adeguare i contributi per ottenere un trattamento previdenziale soddisfacente). Guarda caso: due anni prima della riforma Dini, nel 1993, il legislatore italiano disegnò un quadro articolato per le forme di previdenza complementare private, incoraggiandone l’utilizzo: della serie, se non sei sicuro di avere una pensione pubblica sufficiente, costruiscitene una privata usufruendo di alcuni sgravi fiscali.

Ad ogni modo, dopo essere stata in vigore 16 anni, la legge Dini non era ancora entrata sufficientemente a regime per garantire una sufficiente sostenibilità del sistema pensionistico italiano. Nel 2011, dunque, quando l’Italia va in crisi con uno spread del BTP verso il Bund salito a livelli allarmanti oltre i 500 punti base, diventa sempre più evidente la necessità di un aggiustamento strutturale della finanza pubblica, volendo sottrarsi all’indebitamento europeo con il commissariamento della Trojka.

Questo rischio sarà evitato grazie ad un governo sostenuto da un’ampia maggioranza e guidato da Mario Monti, il cui compito fu quello di attuare riforme poco appetibili politicamente ma che saranno approvate dal Parlamento perché “il Parlamento è sovrano”. Una di queste riforme è la cd. Riforma Fornero che inasprisce e accelera il percorso di aggiustamento del sistema pensionistico italiano ma non lo risolve del tutto. Infatti, gli andamenti demografici fanno comunque prevedere, anche se spostato più in là nel tempo, un significativo innalzamento della spesa previdenziale sul PIL prima di una graduale discesa verso livelli più bassi (la cd. gobba)

Dal 2011 in poi, vi sono stati diversi interventi per i cosiddetti esodati che qualche politico negli anni precedenti aveva messo a carico dello Stato, coprendo i costi privati per consentire la risoluzione di crisi aziendali con personale in esubero attraverso prepensionamenti a carico del sistema pubblico. Infine, il governo eletto nel 2018 ha introdotto la misura detta “quota 100”, confermata dall’attuale governo, consentendo fino al 2021 il pensionamento a chi godesse di un’anzianità contributiva tale che sommata alla sua età arrivasse a 100.

Dunque, già prima della crisi da Covid-19, le prospettive pensionistiche dei giovani erano drammatiche ad eccezione di alcuni fortunati che, come si dice al Sud, hanno trovato, il più delle volte vincendo un concorso pubblico, il “posto”, ossia un contratto a tempo indeterminato pur sempre con garanzie inferiori a quelle che godono i loro genitori ancora nel mondo del lavoro. Gli altri giovani, e non sono pochi purtroppo, o non lavorano a causa del persistentemente alto tasso di disoccupazione giovanile, o un lavoro lo hanno ma in nero oppure soggetto a forme di precariato e discontinuità. Questi ultimi, dunque, a meno di un’inversione dell’economia italiana che aspettiamo da 20 anni, non possono aspettarsi una pensione dignitosa non solo per le regole pensionistiche e per gli interventi come quota 100 che scaricano gli oneri sulle generazioni che verranno, ma anche per le successive riforme del mercato del lavoro che hanno creato un dualismo tra lavoratori giovani, privi di tutele e con salari bassi, e quelli più anziani, che conservano il vecchio regime.

L’avvento della Crisi Covid19 ha due effetti: il primo di breve periodo impatterà notevolmente su tutti coloro sono in qualche modo soggetti al regime contributivo; in tale regime, infatti, il montante di contributi sociali utile per la pensione viene rivalutato periodicamente in base all’andamento del PIL italiano; pertanto, una caduta del PIL italiano nel 2020 che i principali previsori collocano a doppia cifra sopra il 10 per cento, avrà sicuramente effetti negativi sul montante contributivo dei lavoratori soggetti a tale regime.

Poco male: è probabile che quando ci si accorgerà di questo effetto lo Stato interverrà per sterilizzarlo almeno in parte.

Il secondo effetto di medio-lungo periodo, ove mancasse una ripresa economica sostenibile e di una certa robustezza, è invece molto più difficile da sterilizzare. Prova ne è che il PIL dell’Italia si colloca ancora al di sotto dei livelli pre-euro; una grande proporzione di giovani non ha un lavoro (proporzione che aumenterà a causa della crisi) o ne ha uno in nero senza contributi o precario con un salario basso e/o intermittente (accentuato verso il basso dalla crisi e dalla disinflazione); tutto ciò consente loro di accumulare un montante contributivo molto modesto e in molti casi insufficiente alla sussistenza all’età del pensionamento. Pressati dalle esigenze economiche immediate, è probabile che pochi giovani si rendano conto dei rischi cui sono soggetti nel futuro e ancor meno sono coloro che possono adottare contromisure, ad esempio ricorrendo alla previdenza complementare.

In conclusione, quanto più la politica economica italiana non saprà cogliere l’occasione della crisi per far ripartire il paese in maniera durevole, non solo con un buon segno positivo del PIL nel 2021 ma anche per i successivi 10 anni, tanto più gli uomini di mezza età come me nutriranno una serie di timori legati a:

– In primo luogo, il tenore di vita dei nostri figli quando noi non ci saremo più, soprattutto ove questi giovani non riuscissero a trovare un impiego stabile una volta usciti dagli studi;

– In secondo luogo, l’abbassamento del nostro stesso trattamento previdenziale (che tra l’altro è spesso abbastanza oscuro, per la carenza informativa attraverso la cd. busta arancione);

– Infine, la possibilità che, quando le nuove generazioni diventeranno classe dirigente o comunque maggioranza nel paese, si rifaranno sui loro genitori che hanno accumulato un elevato debito pubblico, hanno ridotto loro il trattamento previdenziale e hanno lasciato loro un pesante fardello sulle spalle, compreso dal punto di vista ambientale;

Chissà se e quando ciò avverrà e chissà se allora ci si potrà ancora avvalere del principio del diritto acquisito.