“L’euro è un’entità malefica”: inflazione come metafora di un disagio

scritto da il 14 Agosto 2020

Secondo un aneddoto narrato da Gregory Mankiw e Mark Taylor, nella Germania degli anni Venti, l’iperinflazione era talmente galoppante che i camerieri, nei ristoranti, durante una normale cena, erano costretti a passare dai tavoli più volte per informare i clienti del cambiamento dei prezzi. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, che si può leggere qui. All’inizio degli anni Settanta, in Cile, l’inflazione era superiore al 100% mensile. In Argentina, vent’anni dopo, si raggiunse addirittura il 200%. A metà degli anni Ottanta, invece, in Brasile, si sfiorò il 250%. Se queste percentuali paiono allarmanti, allora quelle che riguardano Bolivia, Nicaragua e Perù sono, a dir poco, sconcertanti: rispettivamente, 11.750%, 13.109% e 7.482% su base annua e sempre nei terribili anni Ottanta. In Italia, di fatto, dal secondo dopoguerra in poi, una situazione così preoccupate e rovinosa non s’è mai vissuta: siamo arrivati alla doppia cifra solo nel ecennio 1973-1983, con un massimo del 24,5% registratosi nel 1974. Al contrario, nell’ultimo decennio, s’è percepito solo il rischio di deflazione.

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Sulla base del rapporto ISTAT 2020, si può parlare concretamente di un calo tendenziale dei prezzi, e, nello stesso tempo, anche di debolezza della domanda, fenomeno, questo, strettamente legato al primo. Sul piano della percezione, di fatto, la situazione, al momento, è ambigua: da una parte, alcuni prodotti dominanti dell’agroalimentare, durate l’emergenza sanitaria, sono stati sovrastimati facendo registrare un aumento dello 0,1%; dall’altra, tuttavia, non si può fare a meno di dire che, su base annua, la diminuzione è pari al 2%. In quanto al 2020, i redattori del report dell’Istituto di Statistica, scrivono: “L’inflazione acquisita per il 2020 è pari a zero per l’indice generale e a +0,7% per la componente di fondo.”

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La premessa che abbiamo elaborata e proposta ha indubbiamente una matrice più aneddotica che informativa, ma – si badi bene! – non si tratta di derive occasionali della scrittura. Se è vero che le teorie circa la causa dell’aumento dell’inflazione sono diverse e tutte autorevoli, è altrettanto vero che il focus del ventennio non è affatto ‘eziologico’.  Secondo il pensiero keynesiano, se la domanda di beni e servizi è superiore all’offerta e la produzione è disfunzionale, allora l’inflazione sale. Altra teoria è quella secondo cui l’aumento del costo delle materie prime, determinando l’incremento dell’intero costo di produzione, genera l’incremento dei prezzi. Da ultimo, per i monetaristi, l’aumento della massa monetaria mediante l’offerta delle banche centrali può tradursi in aumento dei prezzi. Dicevamo che il focus non è affatto eziologico. E lo confermiamo rilanciando la questione attraverso una domanda: qual è stata e qual è l’idea che la gente s’è fatta dell’aumento generale dei prezzi e della diminuzione del potere d’acquisto della moneta? La risposta è per lo più unanime: l’euro ha impoverito le famiglie, ha fatto crescere i prezzi. Da qui dovremmo dedurre immediatamente un ammorbante aumento dei prezzi. Dovremmo… ma l’immagine che abbiamo della realtà, talora, è alquanto incongruente. Se mettiamo a confronto i decenni 1973-1983 e 2002-2012, ricaviamo una prima prova della dispercezione.

 

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Un’altra prova si ottiene dalla consultazione del paniere dei prezzi al consumo nel quale l’ISTAT inserisce circa 1.700 prodotti. Questi, tuttavia, non hanno tutti la stessa incidenza. Per esempio, gli alimentari incidono per oltre il 16%, i servizi sanitari per poco meno del 9%, mentre le bevande alcoliche per poco più del 3% e l’istruzione per l’1%. Ebbene? È vero che un cono con gelato, prima dell’euro, costava 1.500 lire, laddove oggi costa 3 euro e si contraddistingue per un incremento del 200%, ma il suo peso all’interno del paniere dei prezzi al consumo è talmente irrilevante da non giustificare la paura inflattiva. In generale, l’equazione di rendimento del nostro denaro è sempre stata la seguente, con o senza euro: la cifra che crediamo di avere meno il tasso d’inflazione futuro. Nessuno comunque intende mettere in dubbio che la crescita improvvisa e marcata dell’inflazione possa causare un impoverimento delle famiglie e, in generale, del consumatore, mentre il fenomeno opposto, la deflazione, possa impoverire le imprese, i cui costi di produzione non sarebbero proporzionati a quelli di vendita.

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Allora che cosa non funziona nel nostro processo d’interpretazione di certi fenomeni economici? Nel caso in specie, il ventennio che sta per concludersi, tra le altre cose, ha visto nascere un modo improprio di concettualizzare il potere d’acquisto della moneta: in sostanza, s’è scelta e assunta una causa di impoverimento, la si è trasformata in metafora ontologica del disagio e s’è fatto in modo che ogni pensiero economico o, più correttamente, para-economico derivasse da una certa assunzione di pensiero: “l’euro è un’entità malefica”. Qui, non si sta proponendo una teoria a favore dell’euro o contro, ma si sta tentando di indagare sul valore psicolinguistico di un certo modo di pensare e agire del consumatore. A tal proposito, occorre fare uno sforzo ‘cognitivo’: dire che “l’euro è un’entità malefica” equivale a fare uso, per l’appunto, di una metafora ontologica, significa avvalersi di un sistema valoriale ed esperienziale grazie al quale possiamo assegnare dei confini a ciò che ci circonda, così da comprendere eventi, azioni e stati che, altrimenti, sarebbero del tutto incomprensibili e considerare il nostro campo visivo come un vero e proprio contenitore entro il quale possiamo operare concretamente. Il nostro primo confine è la nostra pelle. Tale tesi viene formulata e dimostrata in un’opera del 1980, Metaphors we live by, da George Lakoff e Mark Johnson, i quali, per illustrare il fenomeno delle metafore ontologiche, fanno proprio l’esempio dell’inflazione. Ammettere che l’inflazione è un’entità, come scrivono gli stessi autori, “ci consente di fare riferimento a essa, quantificarla, identificarne un aspetto particolare, vederla come una causa, agire rispetto a essa e, forse, persino credere di capirla. Metafore ontologiche come questa sono necessarie anche per tentare di affrontare razionalmente le nostre esperienze.”

Proponiamo alcuni esempi fatti da Lakoff e Johnson in modo che il meccanismo possa farsi ancora più chiaro: “L’ inflazione sta abbassando il nostro standard di vita”, “Dobbiamo combattere l’inflazione”, “L’ inflazione ci sta mettendo all’angolo et similia. In alcuni casi, l’inflazione viene addirittura personificata in una sorta di animismo economico e considerata un avversario: “L’ inflazione ha attaccato le fondamenta della nostra economia”. In sostanza, noi comprendiamo e comunichiamo qualcosa per il tramite di qualcos’altro; il che, se, da un lato, rientra in un naturale processo di ‘partecipazione linguistica’, dall’altro, genera preoccupanti equivoci e pestiferi luoghi comuni. Per esempio, si trascura per lo più il valore nominale del denaro, come s’è già detto, e non si tiene in considerazione che l ’inflazione, nel caso in specie, non è affatto indipendente da numerose altre variabili del sistema economico. Se prendiamo in esame l’equazione di Fisher, i=r+π, dove i è il tasso d’interesse nominale, r quello reale e π il tasso d’ inflazione, di là dai tecnicismi, ci rendiamo conto di avere già tre variabili strettamente legate l’una all’altra. In particolare, secondo l’effetto Fisher, un aumento dell’1% del tasso d’inflazione provoca un pari aumento del tasso d’interesse nominale. Come abbiamo visto in precedenza, però, una variazione del tasso d’ inflazione, a propria volta, implica l’analisi di altre variabili: da un possibile andamento disfunzionale della domanda a un possibile aumento del valore di mercato delle materie prime et cetera. Se invece spostiamo l’attenzione alla curva di Philips, dobbiamo documentare una proporzionalità inversa tra livello di disoccupazione e tasso d’inflazione: la riduzione del potere d’acquisto della moneta comporta un aumento dei posti di lavoro e viceversa. E naturalmente potremmo continuare a fare tanti altri esempi al solo scopo di far capire quanto sia importante, in specie in economia, ‘parlare’ attraverso i concetti di modelli, funzioni e relazioni tra variabili, ma, in conclusione, basta affermare che nessuna affermazione ideologica, da dovunque provenga, è dotata di senso.

 

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