Istruzione, l’handicap italiano. Ecco da dove ripartire

scritto da il 04 Settembre 2020

L’autore di questo post è Antonino Iero, oggi in pensione, già responsabile del Centro Studi e Ricerche Economiche e Finanziarie di UnipolSai –

Il declino dell’economia italiana è un fenomeno ormai difficile da negare. Tale processo si riflette, peraltro, anche sulla posizione complessiva che il nostro Paese occupa sulla scena mondiale. Si è consolidata nel tempo anche un’ampia letteratura che affronta il tema del più generale deterioramento nazionale, enumerandone le cause e proponendo soluzioni. In questa sede intendo limitarmi ad associare la traiettoria economica italiana ad un dato da più parti giudicato rilevante: il grado di istruzione della popolazione, oggi definito come “capitale umano”.

Il modesto livello di istruzione è un handicap che l’Italia si porta dietro fin dalla nascita dello Stato unitario [1]. Alla luce dei dati disponibili, non sembra che tale svantaggio sia stato recuperato. Questo sia in termini quantitativi (distribuzione della popolazione per titolo di studio), sia in termini qualitativi (esito dei test internazionali sulle abilità letterarie e matematiche).

Il primo aspetto da considerare è la distribuzione della popolazione per titolo di studio. Qui confronteremo i dati italiani con quelli delle altre tre maggiori economie dell’area euro: Germania, Francia e Spagna [2]. Il livello di istruzione è stato articolato classificando le persone, in coerenza con i criteri utilizzati da Eurostat, in tre macro categorie:
1 – titolo fino alla scuola secondaria inferiore;
2 – titolo della scuola secondaria superiore;
3 – titolo universitario.
La tabella che segue riporta i dati relativi alla popolazione tra i 25 e i 74 anni relativi al 2019. Benché vi possano essere alcune differenze di classificazione tra i vari sistemi scolastici, è difficile negare che il nostro Paese si presenti con un tasso di istruzione minore di Germania e Francia (nazioni con le quali ancora amiamo confrontarci). Anche rispetto alla Spagna si evidenzia un rilevante gap: si osservi la maggiore incidenza dei laureati nella nazione iberica rispetto all’Italia. Il basso livello di italiani dotati di un titolo di studio universitario è, in effetti, l’aspetto che più colpisce.

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Si potrebbe sostenere che sul nostro Paese grava un passato di bassa scolarità, che riguarda gli anziani e riduce la quota complessiva di persone aventi un titolo di studio superiore. Se però esaminiamo gli stessi dati riferiti ad una fascia di popolazione più giovane (tra i 25 e i 34 anni) si ottiene la tabella successiva:

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Anche in questo caso emerge un minor livello di scolarità in Italia rispetto agli altri Paesi, con la parziale eccezione della Spagna che però mostra, anche qui, una quota più elevata di persone dotate di un titolo di studio universitario. Rimane quindi il dato di fondo: nei confronti degli altri Paesi l’Italia presenta una incidenza di laureati significativamente inferiore. Se ne conclude che la complessiva minor scolarità rilevata in Italia non è l’effetto di un passato che continua a manifestare negativi effetti destinati a scomparire nel tempo, bensì una sconsolante realtà presente (e, in assenza di interventi, anche futura).

Un ulteriore fattore di interesse da prendere in considerazione è la distribuzione dei laureati in funzione dell’indirizzo di studio prescelto. I dati sono presentati nella tabella che segue [3]:

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Da qui emergono alcune caratteristiche che riguardano sia l’orientamento agli studi dei giovani italiani, sia l’offerta formativa delle università italiane. Rispetto agli altri Paesi, si manifesta una accentuata propensione verso le materie umanistiche (Arts and humanities) e verso le cosiddette scienze sociali (Social sciences, journalism and information). Si rileva, invece, una maggior debolezza nella branca economica amministrativa (Business, administration and law) [4]. Benché non si sia all’altezza della Germania, gli studi scientifici (Natural sciences, mathematics and statistics) sembrano attrarre ancora un apprezzabile quota di studenti. Il settore dove è maggiore il gap dell’Italia rispetto agli altri Paesi è quello dell’ICT, che raccoglie un desolante 1,3% dei laureati italiani. Il campo di studi ingegneristici appare, nel complesso, sufficientemente presidiato, probabile eredità del permanere di una discreta rilevanza del settore manifatturiero nel nostro Paese.

La distribuzione dei laureati per indirizzo di studio, connessa con la diffusione dell’educazione universitaria (minore per l’Italia rispetto agli altri Paesi, come abbiamo visto sopra) fa sì che, in termini di incidenza dei laureati nelle materie “scientifiche” sulla popolazione da 20 a 29 anni, l’Italia evidenzi un misero 15,5 per mille, contro valori che oscillano dal 20,1 al 26,6 per mille nelle altre nazioni [5]. Davanti ad un futuro in cui scienza e tecnologia saranno determinanti per lo sviluppo economico e culturale questa situazione appare ben poco rassicurante.

Una riprova della debolezza “culturale” italiana si ha esaminando l’esito dei test PISA e PIAAC effettuati periodicamente dall’OECD [6] rispettivamente su un campione di studenti e di popolazione adulta. Nella rilevazione del 2018, gli studenti italiani si posizionano sotto la media dei Paesi esaminati in tutte le tre categorie: capacità di intendere un testo redatto nella propria lingua: Italia 476 punti, media OECD 487 (11^ su 18 Paesi UEM); capacità matematiche Italia 487, media OECD 489 (13^ sui 19 Paesi UEM); scienze naturali Italia 468, media OECD 489 (15^ sui 19 Paesi UEM). Negli adulti va ancora peggio: su poco meno di una quarantina di nazioni partecipanti, nella comprensione di un testo redatto nella propria lingua peggio degli italiani hanno fatto solo Kazakistan, Cile, Turchia, Messico, Perù ed Ecuador; nelle abilità matematiche non va molto meglio, dietro l’Italia solo Spagna, Kazakistan, Cile, Turchia, Messico, Perù ed Ecuador. Un quadro piuttosto sconfortante.

Il governo italiano, grazie all’allentamento delle regole europee sui bilanci pubblici e in virtù del progetto NextGenerationUE, avrà a disposizione nei prossimi mesi una quantità di risorse finanziarie mai vista in precedenza. È ovvia la necessità di spenderli bene, possibilmente in un numero limitato di progetti ad alto impatto per la nazione. I provvedimenti di spesa presi fin qui non lasciano ben sperare, poiché si sono rivelati estemporanei, disarticolati, dispersivi e, talvolta, iniqui. Insomma, rivelano la mancanza di una visione e di una strategia intese a definire il futuro del Paese.

Viene in aiuto un passaggio di un discorso che Mario Draghi ha pronunciato recentemente: “I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e se non si è fatto niente resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri.”.

Quale indicazione migliore? Si delinea chiaramente un campo di intervento che occorre cogliere al volo: istruzione e ricerca scientifica. Solo così le risorse messe a disposizione dall’intervento pubblico potranno contribuire a porre le condizioni per un cambiamento di una realtà (quella italiana) che era insoddisfacente ben prima che arrivasse il Coronavirus.

Infatti, il sistema economico italiano, pur in presenza di un ristretto numero di imprese di pregio, si presenta troppo squilibrato verso i settori a basso valore aggiunto. Illudersi che sia sufficiente continuare a puntare solo su turismo, enogastronomia, moda e agricoltura tradizionale non farà che impantanarci ulteriormente in un circolo vizioso di basse qualifiche professionali, con i conseguenti bassi redditi personali e nazionali. Occorre pertanto favorire un processo evolutivo che permetta di spostare il baricentro produttivo nazionale verso attività in grado di garantire un futuro ai giovani e, quindi, anche alla nazione. Condizione necessaria perché ciò avvenga è una crescita delle conoscenze diffuse tra la popolazione.

Vi è una verità, impronunciabile per i politici e appena sussurrata da qualche economista: il debito pubblico risulta sostenibile quando si attua la distribuzione di un reddito effettivamente prodotto. Affinché ciò avvenga, gli attori economici (e quindi anche lo Stato) non possono che puntare sullo sviluppo. Appare però ormai chiaro che lo sviluppo sarà appannaggio principalmente di alcuni settori (ICT, energia, genetica, intelligenza artificiale, nanotecnologie, etc.). L’apparato produttivo italiano è fuori dalla maggior parte di questi promettenti campi. Se non saremo capaci di rientrarvi, il ruolo del nostro Paese assumerà sempre più il profilo di consumatore di prodotti fabbricati altrove (è emblematico l’esempio degli smartphone) e di fornitore di servizi di bassa qualità. L’Italia diventerà definitivamente una specie di Disneyland per i turisti nordeuropei o asiatici, come era evidente dalla panoramica di strade e piazze di molte città italiane prima del Covid-19.

Ai nostri ragazzi vogliamo continuare a promettere un qualsivoglia sussidio (chiamatelo come volete) per lasciarli guardare passivamente, per televisione o su internet, il mondo che cambia? O decideremo, finalmente, di dargli gli strumenti culturali per permettergli di partecipare attivamente alla vita sociale e culturale in una prospettiva mondiale?

toni_iero@virgilio.it

NOTE

[1] Si veda, tra gli altri: C. Bastasin, G. Toniolo, La strada smarrita, Laterza 2020. 

[2] I dati sono stati ricavati da Eurostat, tabella “Population by educational attainment level, sex and age (%) [edat_lfs_9903]”. 

[3] I dati sono stati ricavati da Eurostat, tabella “Distribution of graduates at education level and programme orientation by sex and field of education [educ_uoe_grad03]”. 

[4] Ma non nel sottosettore degli studi giuridici, che ha raccolto il 6% del totale dei laureati italiani a fronte del 2,9% in Germania, del 6,3% in Francia e del 5,1% in Spagna. 

[5] I dati sono stati ricavati da Eurostat, tabella “Graduates in tertiary education, in science, math., computing, engineering, manufacturing, construction, by sex – per 1000 of population aged 20-29 [educ_uoe_grad04]”. 

[6] Organisation for Economic Co-operation and Development. L’indagine PISA (Programme for International Student Assessment) 2018 è stata effettuata su 77 Paesi. I test PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) hanno riguardato 38 nazioni.