Il vittimismo dell’Italia cicala e il mito dell’avanzo primario

scritto da il 11 Settembre 2020

Post di Fabrizio Ferrari, laureato magistrale in Economics presso l’Università Cattolica di Milano –

Nel suo intervento dell’8 settembre, Enrico Mariutti espone alcuni dati intesi a confutare quella che etichetta come “la narrativa della cicala e della formica: l’Europa del nord laboriosa e risparmiosa chiamata a salvare i cugini mediterranei, fannulloni e spendaccioni”. Senza entrare nel merito della ricostruzione che Mariutti propone della recente storia politica italiana e della globalizzazione, mi preme unicamente far notare alcuni elementi ad essa quantomeno complementari. In particolare, la retorica “Italia vs Frugal Four” di quest’ultima estate ha dato la stura ad un vittimismo nazionale fondato su due pseudo-fatti che, a ben vedere, fatti non sono—vuoi per la loro irrilevanza pratica e teorica, vuoi per la loro palese falsità.

I due pseudo-fatti sono i seguenti. Il primo: “L’Italia ha sì un elevato debito pubblico, ma è un Paese frugale che risparmia—nel complesso—più dei frugal four”. Il secondo: “Il deficit pubblico italiano è sì elevato, ma solo a causa della spesa per interessi: senza di quella—cioè, guardando solo all’avanzo primario—siamo al pari, se non meglio, dei frugal four”.

Purtroppo, la realtà è ben diversa da come questi pseudo-fatti la vorrebbero dipingere.

Italia formichina? No, è una cicala!

Per confutare il primo pseudo-fatto, è sufficiente osservare la Figura 1. Come si può facilmente constatare, il sistema economico italiano—nel suo complesso, cioè considerando globalmente il settore privato ed il settore pubblico—non si caratterizza assolutamente per livelli di risparmio superiori a quelli di Austria, Svezia, Olanda e Danimarca. Al contrario, fin dalla fine degli anni ’90 l’Italia presenta tassi di risparmio di gran lunga inferiori a quelli dei quattro frugali, con un trend che è andato da questi divergendo. Al 2019, il sistema economico olandese presentava un tasso di risparmio pari al 31% del PIL, quello danese e quello svedese pari al 29,1%, quello austriaco pari al 27,3%, mentre quello italiano era—di gran lunga distaccato—pari al 20,4% del PIL.

Quindi, il primo mito è presto sfatato e dimostrato come falso: l’Italia, anche considerata nel suo complesso ed integrando la performance del settore pubblico con quella del settore privato, non presenta in alcun modo tassi di risparmio superiori ai quattro frugali. Al contrario, è un Paese che, da almeno 20 anni, risparmia meno rispetto a questi ultimi—con tutte le conseguenze negative che ne derivano in termini di investimenti complessivi ed accumulo di capitale.

Figura 1. Fonte: IMF, World Economic Outlook Database, October 2019.

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Avanzo primario: siamo davvero così bravi?
Riguardo al secondo pseudo-fatto, sono necessari due passaggi.
Passaggio nr. 1: come mostra la Figura 2, non è poi così vero che l’Italia si distingue da anni per un avanzo primario così tanto fuori dalla media dei frugal four. Difatti, se ciò è stato sicuramente vero—anche se in modo del tutto insufficiente, dal momento che il nostro debito pubblico è rimasto di gran lunga superiore a quello dei quattro frugali (Figura 3)—nel corso di buona parte degli anni ’90, bisogna altresì constatare come non sia stato più così vero né durante il primo decennio del 2000, né negli ultimi tre anni. Nel 2017, l’avanzo primario italiano (1,2%) è stato inferiore a quello svedese (1,4%), danese (1,6%) e olandese (2,2%). Nel 2018, è risultato pari a quello austriaco (1,4%) e inferiore a quello olandese (2,4%). Nel 2019, è risultato ancora praticamente pari a quello austriaco (1,4% per l’Italia, 1,2% per l’Austria), ma inferiore a quello olandese (1,9%).

Figura 2: Fonte: IMF, World Economic Outlook Database, October 2019

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Figura 3: Fonte: IMF, World Economic Outlook Database, October 2019

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Passaggio nr. 2: l’avanzo primario è un parametro che, macro-economicamente, non ha nessun significato particolare. Essendo, per definizione, pari alla differenza tra entrate e uscite dello Stato al netto della spesa per interessi, non tiene conto di una spesa—quella per interessi, appunto—che è semplicemente un trasferimento a beneficio di alcuni agenti, i quali—anche grazie al reddito da interessi che guadagnano sul debito pubblico—contribuiscono alla formazione del PIL. In altre parole, il pagamento di interessi sul debito pubblico non è concettualmente diverso da un qualsiasi trasferimento dello Stato a favore di un qualsiasi agente economico—sia questo trasferimento una pensione, un sussidio, una detrazione fiscale, et cetera.

Ma, allora, per quale motivo si parla così spesso di avanzo primario? La spiegazione è la seguente: se un Paese ha un tasso di crescita del PIL nominale superiore al costo del suo debito pubblico, riesce a ridurre il proprio rapporto tra debito pubblico e PIL anche se il suo avanzo primario (cioè, la differenza tra le entrate fiscali e la spesa pubblica al netto degli interessi) è negativo—cioè, fa registrare un deficit primario. Ecco spiegato, quindi, da dove viene questo “mito dell’avanzo primario”.

Questo ragionamento può essere espresso dalla formula (1). L’equazione (1) approssima la variazione del rapporto tra il debito pubblico ed il PIL (B(t+1) – B(t)) di un Paese dati i seguenti parametri: il livello iniziale di debito pubblico in rapporto al PIL (B(t)), il deficit primario (d(t)) in rapporto al PIL, la differenza tra il tasso di crescita nominale (g(t)) del PIL ed il costo del debito pubblico (r(t)).

(1) B(t+1) – B(t) = d(t) – [g(t) – r(t)] x B(t)

Quindi, per farla breve:

– Se [g(t) – r(t)] > 0, allora è possibile che il rapporto debito/PIL si riduca anche qualora si verifichi un deficit primario d(t) > 0 (cioè, qualora si abbia un avanzo primario negativo). Pertanto, solo in questo caso può avere senso guardare all’avanzo primario positivo di un Paese e definirlo come “austerità”.

– Se, invece, [g(t) – r(t)] > 0, guardare all’avanzo primario (negativo o positivo che sia) non serve a nulla e non dà nessuna informazione: infatti, anche qualora si verificasse un avanzo primario positivo, il rapporto debito/PIL potrebbe ugualmente aumentare a causa della scarsa crescita del PIL (g(t)) e/o dell’eccessivo costo del debito pubblico (r(t)).

Come mostra la Figura 4, l’Italia è, dei cinque considerati, il Paese per cui ha meno senso in assoluto guardare all’avanzo primario, dal momento che il tasso di crescita del PIL nominale si è rivelato superiore al costo del debito (cioè, [g(t) – r(t)] > 0) solo due volte (nel 1995 e nel 2000…) dal 1991 ad oggi. Addirittura, come evidenziato dall’economista francese Charles Wyplosz [1], l’Italia è il Paese membro dell’OCSE in cui la condizione [g(t) – r(t)] > 0 si è storicamente verificata di meno. Insomma: non si capisce su quali basi di teoria economica dovrebbe poggiarsi questa infatuazione italica per l’avanzo primario.

Figura 4. Fonte: elaborazione su dati IMF, World Economic Outlook Database, October 2019.

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Quindi, tiriamo le fila sul tema dell’avanzo primario.

Da un lato, non è vero che l’Italia è stata costretta—in seguito all’adesione all’UE—a conseguire avanzi primari particolarmente superiori ai frugal four. Dall’altro lato, guardare all’avanzo primario italiano non ha alcun senso economico, dal momento che sono trent’anni che cresciamo meno di quanto ci costi il nostro debito pubblico: tanto vale, dunque, guardare direttamente al saldo di bilancio pubblico complessivo (cioè, l’indebitamento netto) ed all’evoluzione del rapporto tra debito pubblico e PIL.

Conclusione

In un dibattito nazionale ormai vittima di isterismi e vuota retorica, non guasterebbe provare a ragionare sulla teoria e l’empiria economiche sottostanti, servendosi di dati e razionalità. Facendolo, si scoprirebbe agevolmente come il vittimismo italiano sia il classico gigante retorico le cui gambe teoriche ed empiriche sono fatte di argilla.

Twitter @Fabriziofer1994

[1] Per approfondire, si veda: Charles Wyplosz, Olivier in Wonderland, Figura 1, Voxeu.org, 17 giugno 2019.