Pacchetti (InTribe): In tempi di crisi, sbaglia chi non investe nel marketing

scritto da il 17 Settembre 2020

L’ottavo e ultimo appuntamento della rubrica “Call Me Startup – Storie di giovani imprenditori ai tempi del Covid-19” parla di marketing, abitudini di consumo e smart working. L’ospite di oggi è infatti Mirna Pacchetti, CEO e Co-Founder di InTribe.

InTribe è una società di ricerche di mercato specializzata in analisi delle abitudini di consumo, con tecniche classiche ma anche con big data e intelligenza artificiale. Startup nata nel 2016, nel tempo ha raggiunto importanti traguardi: l’incubazione nel programma Speed MI Up organizzato dalla SDA Bocconi, l’accelerazione da parte di Digital Magics e la partecipazione a Google for Startups nel 2019. Si è subito distinta dalle altre agenzie di settore per un focus più verticale sulle Generazioni Y e Z, e per l’utilizzo della gamification nelle proprie survey. 

Secondo la World Federation of Advertisers (WFA), l’80% delle multinazionali ha messo in pausa le campagne pubblicitarie previste per il secondo trimestre del 2020, arrivando a tagliare fino al 40% del budget pubblicitario. È chiaro che il marketing e il settore della pubblicità abbiano accusato il colpo del lockdown e del conseguente calo dei consumi. 

Tuttavia il digital marketing non si può fermare, perché le vendite online dei prodotti sono salite mediamente del 18% rispetto al 2019. E così è aumentato anche il traffico derivante dai social media. Beni legati alla casa, giochi / strumenti formativi e oggetti di lusso hanno visto percentuali di crescita importanti (rispettivamente +70%, + 35% e + 10%, fonte Deloitte).

Il settore pubblicitario ha sicuramente ricevuto un pesante schiaffo dal Covid-19, ma ora più che mai è necessario intercettare i cambiamenti nelle abitudini di consumo: questa la proposition di InTribe. 

(In calce all’articolo il video dell’intervista completa)

 

Cosa ti ha spinto a fondare InTribe?

InTribe è stata fondata da me e la mia socia Marzia di Meo con la collaborazione di quello che è il nostro direttore ricerche, ossia Marco Ravagnan, nascendo di fatto da una nostra esigenza personale.

Ci occupavamo di consulenza strategica con particolare focus su marketing e comunicazione. Molto spesso ci capitava di fare o di commissionare delle indagini di mercato e quasi sempre da un lato notavamo che non erano del tutto complete ed esaustive e dall’altro ci chiedevamo come potessero essere sfruttate al meglio. Nel frattempo – stiamo parlando di cinque anni fa – sentivamo parlare in maniera sempre più ricorrente dei big data, ma ancora nessuno li utilizzava in maniera massiva per fare indagini di mercato specifiche sugli insight dei consumatori.

Da qui abbiamo deciso di creare InTribe, di fatto unendo l’intelligenza umana all’intelligenza artificiale, ossia facendo in modo che l’intelligenza umana beneficiasse delle capacità computazionale che ha l’intelligenza artificiale nell’elaborazione di grandi quantità di dati in breve tempo. La chiave era il poter fruire non di big data ma di smart data, selezionati e verticalizzati appunto sugli insight dei consumatori.

Quindi in concreto cosa fa InTribe? 

InTribe si occupa di customer insight data intelligence: a tutti gli effetti fa ricerche di mercato. La grossa differenza è che noi utilizziamo le tecnologie – ossia il machine learning, l’intelligenza artificiale – per raccogliere ed elaborare grandi moli di dati, e soprattutto utilizziamo tutto ciò che è pubblico online, che siano post, thread, recensioni, articoli.

Alcune volte comunque utilizziamo metodologie più classiche: abbiamo un tool tecnologico che serve per fare survey online e lo utilizziamo sui nostri panelist per fare indagini molto specifiche su informazioni che non si trovano online e che quindi vanno chieste direttamente al consumatore.

Che impatto ha avuto il Covid-19 sul business di InTribe?

Il Covid-19 ha avuto un duplice impatto, uno positivo e uno negativo. Del resto si dice sempre che dietro una crisi c’è una grande opportunità, quindi nel momento in cui c’è stato il lockdown come prima cosa ci siamo detti: “Benissimo, ora cosa si fa? Come reagiamo?”

La reazione è stata quella di avviare un progetto che avevamo nel cassetto da tempo ma che avevamo sempre procrastinato, ovvero la realizzazione di webinar settimanali nei quali raccontavamo come stavano cambiando i consumi. Devo dire che ha avuto un ottimo riscontro, perché siamo riusciti a raggiungere un gran numero di persone e di aziende.

L’impatto negativo è stato ovviamente l’aver subito un rallentamento, come peraltro la maggior parte delle aziende, e questo ci ha portato a ri-bilanciare e re-schedulare un po’ tutte le nostre attività.

Devo comunque dire che con tutto quello che è successo l’impatto è stato abbastanza contenuto. Quindi guardo soprattutto la parte positiva che ci ha concesso di iniziare a utilizzare i video, tant’è che dalle prossime settimane inizieremo a pubblicare delle video-pillole specifiche sugli insight dei consumatori.

Avete individuato dei cambiamenti nelle abitudini dei consumatori durante e post-lockdown? 

Durante il lockdown abbiamo tracciato sin da subito le abitudini facendo indagini di mercato nel momento in cui abbiamo capito che stava succedendo qualcosa non solo di grosso, ma che non era mai successo prima. Abbiamo quindi deciso di fare anzitutto una survey. L’outcome è stato duplice: da un lato la Generazione Z si sentiva un po’ immune e quindi subiva il lockdown come una costrizione, dall’altro si evidenziava l’aumento della fruizione dell’online soprattutto da parte dei Baby boomers, quindi gli over 55.

Dopodiché abbiamo iniziato anche ad elaborare i big data e abbiamo fatto delle analisi predittive, quindi utilizzando lo storico per elaborare delle previsioni.

Una delle cose che era emersa è che, come in tutte le recessioni economiche – perché poi la pandemia ha portato con sé una recessione economica – ci sarebbe stato un cosiddetto effetto clessidra, ossia una restrizione della classe media, ovviamente con una dinamica per cui pochi vanno verso un ceto più elevato mentre molti perdono una parte rilevante del loro potere di spesa. Questo da una parte crea tutti i problemi economici che stiamo vedendo, ma porta con sé anche il fatto che in queste fasi il lusso, dopo un primo smottamento, riesca a resistere molto di più e poi anche a riprendersi più velocemente.

Un altro elemento è il concetto di sostenibilità che sta diventando sempre più forte, perché ci siamo resi conto che vivere con lo smart working rende l’aria delle città decisamente migliore, è benefico anche a livello economico perché ci sono minori spese familiari, e così via. Quindi un concetto di sostenibilità a 360°.

In ultimo il digitale è diventato trasparente a tutti gli effetti, quindi acquistare un prodotto online o offline è ormai diventato praticamente la stessa cosa. Chiaro, nell’online non posso toccare il prodotto, ma se acquisto un certo marchio, lo sto acquistando sia online che offline e non percepisco assolutamente la differenza.

In periodi di crisi le spese di marketing sono spesso le prime a essere tagliate: secondo te che ruolo ha il marketing per le startup in questi momenti?

Paradossalmente, nonostante ci sia la tendenza a spendere di meno, in realtà sarebbe il momento di investire di più nel marketing, nella comunicazione, nel capire meglio il consumatore. Questo proprio perché bisogna continuare a restare in contatto con i clienti, attuali e potenziali.

Il fatto che ci sia un rallentamento, soprattutto in un momento come questo, non è dovuto al fatto che il consumatore o il nostro cliente non è più interessato al nostro prodotto o servizio, ma avviene perché c’è una destabilizzazione tale che frenano in generale i consumi. Quindi in questo momento si deve continuare a tener vivo l’interesse per riuscire poi a essere nella mente del proprio cliente nel momento in cui tutto riparte. È un po’ quello che abbiamo fatto noi con i webinar.

Abbiamo parlato di clienti, ma secondo te come andrebbe impostata la comunicazione in tempi di crisi con dipendenti e shareholder?

Ti racconto come lo abbiamo affrontato noi. In sostanza, abbiamo deciso di essere molto trasparenti con i nostri clienti e con i nostri soci raccontando esattamente quello che stava succedendo e quindi quello che stavamo implementando.

Per quanto riguarda i nostri dipendenti, la priorità era ovviamente la salute, ma in ogni caso noi abbiamo sempre lavorato in smart working, quindi dal punto di vista strettamente lavorativo non è cambiato nulla. Oltre a quello li abbiamo comunque resi partecipi della situazione, il che è stato per loro un po’ destabilizzante ma è anche vero che non ci si poteva nascondere dietro un dito: era palese che ci fossero dei problemi e il fatto di comunicarlo a noi sembrava la cosa più giusta.

Peraltro noi abbiamo trovato – e non avevamo dubbi – delle persone molto intelligenti che si sono date subito da fare. Del resto quando è successo tutto abbiamo cambiato strategia nel giro di una settimana e se non hai persone reattive e proattive questo ti rallenta. È anche vero che noi siamo piccoli: parlare a 2000 dipendenti è diverso da parlare a 6 dipendenti, ovviamente.

Visto che hai accennato allo smart working: cosa ne pensi e quale pensi sia l’equilibrio giusto?

Io parlo ovviamente da una posizione un po’ di parte perché come ti dicevo InTribe è nata dalla mente mia, di Marzia e di Marco, e noi lavoravamo da Milano, Faenza e Torino, quindi già da remoto. In pratica ci siamo conosciuti prima online e poi nella vita reale. Quindi ovviamente la mia visione è diversa rispetto a chi ha sempre avuto un ufficio dove tutte le persone lavorano nello stesso luogo.

Di sicuro avere un ufficio crea contaminazione. In mancanza, la contaminazione va creata facendo delle riunioni periodiche tutti insieme, altrimenti si rischia che poi ognuno lavori come se lavorasse per se stesso.

Al di là di quello, lo smart working richiede una grande programmazione: bisogna insegnare alle persone a lavorare per obiettivi, cosa che spesso non sono abituate a fare. Tutte le attività sono divise in task e poi si fanno degli incontri periodici virtuali nei quali si valuta il progresso. A volte si fanno le call per lavorare insieme, ma più che per lavorare insieme sul progetto è per fare brainstorming sul progetto, poi ognuno lavora per conto suo questo. Il limite è quello che ormai abbiamo visto tutti, ossia che stando sempre chiusi in casa rischi di lavorare ben più delle otto ore. Anche per questo noi consigliamo piccoli accorgimenti che sono però fondamentali perché altrimenti diventa veramente alienante.

Sei stata anche presidente di BusinessMum, piattaforma per la sensibilizzazione sull’equilibrio tra famiglia e lavoro. Da donna, mamma e imprenditrice pensi che la maggiore adozione dello smart working sia un passo verso la gender equality nel mondo del lavoro? E, più in generale, a che punto siamo con la gender equality in Italia?

Diciamo che al di là del ruolo di imprenditrice in senso stretto, essere donna nel mondo del lavoro qualche ostacolo in più te lo porta, ed è fondamentale l’equilibrio che tu riesci a raggiungere tra casa e lavoro. Un bilanciamento che a mio avviso non può prescindere dal tuo compagno o comunque da chi ti sta accanto.

Peraltro, credo che ci sia ancora molto da lavorare sulla mentalità non solo degli uomini ma anche delle donne che molto spesso ritengono che la mamma sia centrale e che quindi diventano pazze perché vogliono mantenere sia il ruolo professionale che il ruolo privato.

Dall’altra parte comunque obiettivamente nel mondo del lavoro le pari opportunità ancora non ci sono: se sei donna te ne rendi conto dagli atteggiamenti e dalle retribuzioni, quindi c’è tutta una serie di aspetti sui quali dobbiamo ancora lavorare.

Lo smart working può aiutare se in famiglia si collabora. Io ho parlato con altre donne imprenditrici ma anche professioniste che a casa non sapevano più come gestirsi, perché dovevano gestire il lavoro e anche i bambini mentre il marito lavorava chiuso nello studio. D’altro canto ce ne sono state altre che si sono gestite benissimo perché hanno trovato il giusto equilibrio con il proprio compagno. Penso che quella possa essere la chiave: l’essere genitori in due.

Sei a conoscenza di normative all’estero che andrebbero attuate in Italia per incentivare l’imprenditoria femminile?

Se parliamo di welfare, sicuramente in alcuni Stati ci sono più incentivi o sgravi per le famiglie. Al netto di quello, però, non mi sento un panda in via di estinzione, non ritengo di dover essere tutelata o di avere bisogno di programmi ad hoc per l’imprenditoria femminile. Servono piuttosto dei programmi ad hoc a tutela dell’imprenditoria, o più ancora del lavoro, quindi che consentano alle aziende di assumere e di sfruttare il capitale umano (sfruttarlo in senso positivo, quindi con la giusta retribuzione).

Comunque di opportunità ce ne sono. Molto spesso però l’Italia – e questo a mio avviso è un limite – fa bandi particolari, misure dedicate ad una determinata categoria o ad un determinato tipo di aziende. Forse servirebbero delle misure più trasversali perché tanto le necessità di base di un’impresa sono quelle, indipendentemente dal settore.

In tal senso, dobbiamo ricordarci che il 93% delle imprese italiane è costituito da piccole, medie ma anche soprattutto micro imprese, quindi è necessario aiutare quel target. Continuare a fare manovre che aiutano chi dà più garanzie è troppo facile, per così dire: questo è proprio il momento in realtà di aiutare chi ha voglia di innovare perché è l’innovazione che ci porterà fuori dalla crisi.

Dall’altra parte bisogna fare in modo che anche chi ha delle idee brillanti ma non ha i capitali riesca ad accedervi. In tal senso sarebbe fondamentale snellire, e di molto, la burocrazia.

Che vantaggi hai visto delle startup rispetto alle corporate in questo periodo di crisi?

Di sicuro la flessibilità. Quando hai una startup hai una mentalità come si dice oggi “agile”, in cui si va avanti per prove ed errori, ma sempre per piccoli passi. Quando arriva una crisi, l’impatto sulla startup è più limitato in termini di lavoro interno rispetto ad una multinazionale.

Inoltre la startup non solo è più flessibile nel reagire, ma è anche più propensa al cambiamento in generale. Questo perché capita spessissimo che si abbia un’idea e si inizi a svilupparla, poi ci si rende conto che non funziona o che servirebbe molto più budget, e allora si cambia strada. La tua startup parte in un modo e poi magari diventa qualcos’altro. Questa è la vera capacità delle startup e se si riesce anche a mantenere un minimo di stabilità economica, si riescono a superare questi momenti difficili in modo di sicuro più agile rispetto a una grande azienda, e magari a cogliere anche qualche opportunità.

Quali esperienze consiglieresti a una giovane che ha aspirazioni imprenditoriali?

Sembrerò di parte ma io le consiglierei di lavorare in una startup proprio perché la startup ha dinamiche diverse. Quando lavori in una grande azienda viene assunto con un determinato ruolo, mentre quando ti trovi in una startup devi essere molto flessibile, viene chiesto molto spesso di cambiare il lavoro che stai facendo in quel momento, o addirittura di cambiare le tue mansioni perché la startup potrebbe addirittura cambiare modello di business da un giorno all’altro.

È molto importante capire che bisogna essere proattivi e di sicuro la creatività viene premiata in una startup. Inoltre, specie nelle piccole realtà, ti rendi conto che non tutto è così stabile, perché una delle caratteristiche di una startup è che tra un anno potrebbe essere un unicorno o potrebbe essere un fallimento. Di conseguenza se uno vuole mettersi in proprio e ha la voglia di mettersi in gioco, in una startup ha la possibilità di vedere le dinamiche e di sicuro di rubare qualche trucco del mestiere.

Questo è un consiglio ricorrente nella nostra rubrica. Qualche anno fa si tendeva a consigliare di farsi le ossa in azienda o in consulenza, adesso la percezione sul mercato del lavoro sta cambiando. Sperando però che anche i recruiter apprezzino le esperienze in startup…

A mio avviso sì perché le aziende cominciano a essere sempre più interessate alle dinamiche delle startup. Molto spesso persone che hanno lavorato in startup vengono assunte in azienda, ad esempio come innovation manager, proprio perché hanno una capacità di gestire i processi innovativi che è connaturata.

Quindi sicuramente le cose stanno cambiando rispetto a qualche anno fa quando in effetti era come dicevi tu. Ora si è capito che tutti hanno qualcosa da dire. Di sicuro un giovane ha meno esperienza, però magari ha più entusiasmo, ha una visione più nuova, più innovativa, vede oltre il progetto.

E alla fine la diversità è anche questo: non è solo uomo-donna, non è solo accettare chi ha una disabilità ma è anche accettare il reverse mentoring. Quindi ad esempio è molto apprezzabile che una persona di 22 anni ci racconti come dovremmo fare una cosa che noi abbiamo sempre fatto in un altro modo, perché questo genera una commistione di idee. Mal che vada si capisce che non è il caso di seguire quella strada, però magari se ne apre un’altra, e alla fine il processo risulta comunque vincente.

 

Andrea Eugenio Ramella

Studi economici all’Università Cattolica di Milano, alla Maastricht University ed esperienze lavorative in startup. In Yezers è Public Affairs Associate e nel founding team di AdVelo.

Samuel Carrara

È scientific project officer presso la Commissione Europea dove si occupa prevalentemente di industrial value chains per le tecnologie low-carbon. In Yezers è membro del board e responsabile editoriale.