Tim e Open Fiber: aspettiamo a seppellire la concorrenza

scritto da il 22 Settembre 2020

Si è tornati a parlare di rete internet unica, della competizione tra Tim e Open Fiber e della nostalgia di alcuni esponenti del governo per la rete nazionale, modello rete elettrica. Il Cda di Tim ha infatti dato il via alla separazione della propria rete in una nuova azienda, FiberCop, predisponendo un piano per far fondere quest’ultima con Open Fiber nella futura azienda per la gestione della rete unica, AccesCO. Dai titoli di giornale sembra dato tutto per fatto con Tim che si appresta ad acquistare il concorrente.

Ma ha senso la rete unica per il consumatore?

In realtà molto dipende da una variabile fondamentale: l’identità del controllore della rete.  Innanzitutto, la rete unica di qualsiasi proprietà sarebbe per definizione un monopolio, ovvero una concentrazione dell’offerta nelle mani di un solo produttore. Tuttavia, nel caso di un’infrastruttura di telecomunicazione il monopolio può essere considerato “naturale” e, in alcuni casi, costituire l’opzione migliore se adeguatamente regolato. Da qui nasce la discussione, come avevamo spiegato in un precedente articolo. La regolamentazione però è ineludibile, qualunque sia la proprietà del monopolio.

Questa struttura di mercato non sarebbe una novità nell’ambito del settore delle telecomunicazioni (Tlc). Dalla sua liberalizzazione in Italia nel 1997, i due segmenti che caratterizzano questo settore hanno seguito dei percorsi molto diversi: se a valle il mercato di distribuzione di servizi (retail)  ha visto l’ingresso di nuovi attori e lo sviluppo di quella concorrenza fra operatori a cui siamo abituati, a monte quello della distribuzione all’ingrosso (wholesale) è stato a lungo appunto un monopolio di Telecom Italia (oggi Tim). Quest’ultima è infatti proprietaria della rete telefonica in rame, l’unica infrastruttura fisica di telecomunicazione che era presente nel nostro paese, ed è stata per questo soggetta da subito a un regime di controllo dei prezzi.

Il punto debole di questo impianto era però la presenza di Tim anche nel mercato retail: in assenza di regolazione, un player di un mercato competitivo che detiene anche il controllo esclusivo dell’input da cui tutti i suoi diretti concorrenti dipendono avrebbe gioco facile nel restringerne l’accesso, ostacolando il loro sviluppo. Gli obiettivi della non discriminazione fra operatori retail e della terzietà della rete sono quindi stati da subito al centro dell’approccio regolatorio verso Tim, ma ciò non ha impedito la nascita di numerose controversie con al centro il tema della parità di condizioni d’accesso alla rete.

Neppure la nascita di OpenAccess, una divisione aziendale interna che si occupa esclusivamente della gestione dell’infrastruttura allo scopo di garantirne il principio di neutralità, sembra portare a una svolta significativa.  Tim vara questa operazione nel 2008, sotto la crescente insofferenza dell’Agcom. Nonostante il nome eloquente e i buoni propositi, il nuovo assetto non sembra però correggere i vecchi vizi e nel 2013 Ti, viene nuovamente multata dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) per abuso di posizione dominante nei confronti dei suoi concorrenti nel mercato retail.

Solo dal 2015 il mercato di distribuzione di servizi Tlc all’ingrosso sembrava superare il monopolio e avviarsi lentamente verso dinamiche di concorrenza grazie alla nascita di Open Fiber (Of). Of ha operato fino ad oggi secondo una logica wholesale-only, costruendo una nuova rete in fibra ottica  alternativa a quella in rame di Tim e limitandosi a venderne l’accesso agli operatori del mercato retail, senza partecipare direttamente a quest’ultimo. Una struttura tale permette di superare le criticità che presenta il modello di un soggetto verticalmente integrato come Tim: non essendoci una partecipazione nel mercato della distribuzione di servizi Tlc, viene meno ogni incentivo alla discriminazione degli operatori in quel segmento.  Uno schema simile al settore delle utility (gas, energia, acqua,…), molto apprezzato dagli investitori e visto di buon occhio anche dalla legislazione europea.

L’ingresso di Open Fiber ha innescato dinamiche di concorrenza a livello infrastrutturale (basti pensare alla nascita di FlashFiber nel 2016, risposta di Tim e Fastweb a Of), dando un impulso notevole alla diffusione della fibra nel nostro paese. Secondo i dati Desi, le unità immobiliari raggiunte dalla fibra (modalità Ftth, Fiber to the home, cioè fibra fino a casa) in Italia sono passate dal 16% del 2016 al 30% del 2019, percentuale prossima alla media Ue (34%). Inoltre, questi numeri sono destinati a crescere nei prossimi anni, dal momento che in moltissimi comuni i lavori per l’allacciamento alla fibra appaltati a Open Fiber non sono ancora stati finalizzati o iniziati. Si stima un ritardo di circa 2-3 anni sui piani iniziali di Of, ma le responsabilità non vanno cercate soltanto nelle inefficienze interne a questa società o nella solita burocrazia. Secondo l’Agcm infatti, Tim avrebbe intrapreso una serie di iniziative volte a ostacolare il normale svolgimento delle gare per la realizzazione della rete in fibra, le stesse poi vinte da Open Fiber. Col fine ultimo di preservare il suo potere di mercato di fronte all’avanzata del concorrente, Tim ha quindi ritardato lo sviluppo della fibra nel nostro paese. Ancora una volta, la volontà di mantenere la sua posizione di vantaggio di operatore verticalmente integrato e monopolista della rete ha prevalso sulle logiche di concorrenza, il tutto a danno dei consumatori finali.

A fronte di quanto detto, la riduzione di concorrenza data da una fusione dei soli due attori non è di per sé un problema insormontabile, ma è probabile che lo diventi nel caso la rete unica sia controllata da Tim. La regolamentazione standard che garantirebbe parità di condizioni e accesso a tutti gli operatori retail e le limitazioni al prezzo risolverebbero alcuni problemi ma non tutti. In primo luogo, tale operazione renderebbe nuovamente più semplici condotte anti-competitive per cui Tim è già stata indagata, come l’utilizzo dei dati raccolti sulla propria rete per avvantaggiarsi sul mercato retail. In secondo luogo, le decisioni di investimento stesse sarebbero viziate da considerazioni strategiche per il mercato finale. E ciò vorrebbe dire evitare investimenti laddove i concorrenti (retail) trarrebbero più benefici di Tim, un risultato peraltro previsto dalla teoria economica. Infine l’assenza di una pressione competitiva renderebbe particolarmente spinoso il problema dell’innovazione, poiché l’incumbent sarebbe incentivato a ritardare il più possibile la dismissione della propria rete in rame per far spazio alla Ftth. Un nuovo danno per i consumatori.

Per questi motivi è molto difficile che una tale operazione passi il vaglio dell’antitrust. Non da ultimo perché l’Italia è l’unico paese europeo (insieme alla Grecia) a non avere un’infrastruttura di TV cable, che costituendo una valida alternativa per la connessione, ridurrebbe il potere di mercato di Tim. Secondo il regolamento EC No 139/2004 la decisione spetterebbe all’antitrust italiano (Agcm) in quanto le due aziende producono più dei 2/3 del proprio fatturato combinato in un unico paese, ma la Commissione Europea ha gli strumenti per avocare a sé la decisione, anche utilizzando i regolamenti relativi agli aiuti di stato.

Diversa sarebbe la situazione se la rete unica non fosse verticalmente integrata, ovvero un operatore wholesale-only. In questa eventualità, l’Agcm e l’Agcom si erano già espressi favorevolmente con un documento del 2014 su un progetto di questo tipo. Questa non dovrebbe essere necessariamente di proprietà pubblica, ma è sufficiente che sia “terza” o neutrale rispetto ai concorrenti retail. La forma proprietaria più verosimile sarebbe un azionariato frammentato e diviso tra vari attori tra cui Tim e Cassa Depositi e Prestiti.

Rimane tutt’altro che chiaro se ci si debba aspettare un’accelerazione negli investimenti in Ftth al formarsi di una rete unica e terza, come sostenuto dal presidente di Open Fiber Bassanini. Una rete unica dovrebbe in teoria evitare la duplicazione di investimenti e rendere più facile la transizione dei clienti (imprese e famiglie) servite dal rame alla fibra. Far confluire però la rete in rame nel soggetto incaricato di stendere la fibra potrebbe non aver senso economico dal momento che l’integrazione tra le reti non è immediata e si riproporrebbe l’incentivo di ritardare la transizione per valorizzare la vecchia infrastruttura.

Un controllo integrale (100%) della rete da parte dello stato costituirebbe di fatto la prima ri-nazionalizzazione europea in un settore profondamente cambiato dalle liberalizzazioni degli anni ‘90. Un’operazione che presenterebbe molte incertezze e sarebbe un’operazione motivata più da fini ideologici che da razionalità economica. A che prezzo lo stato dovrebbe acquistare la vecchia fibra in rame da Tim e perché dovrebbe precludere la possibilità di investimento ai privati che generalmente vedono di buon occhio i ritorni attesi di un operatore wholesale-only?

In conclusione, la rete unica data già per fatta presenta molti grattacapi. Sarebbe bene chiarificare dati alla mano come essa intende raggiungere gli obiettivi paventati, prima di seppellire la neonata concorrenza infrastrutturale, da poco riconquistata. L’auspicio è che la strategia del paese non sia dettata dalla scarsa sostenibilità aziendale dell’incumbent.

*Ha contribuito alla scrittura dell’articolo Andrea Chiantello

Andrea Chiantello ha lavorato a DG competition della Commissione Europea, ed è ora analyst per una consulenza economica. È inoltre senior fellow di Tortuga tramite il quale pubblica questo contributo

Twitter @Tortugaecon