Perché il conformismo è il lato oscuro del consenso

scritto da il 06 Novembre 2020

Nei miei post più recenti ho discusso di due temi:
qui ho cercato di dare una definizione del potere come una tipologia di relazione pervasiva all’interno delle organizzazioni e ne ho discusso le diverse forme (potere coercitivo, potere economico, leadership)
qui, invece, ho approfondito il tema della leadership. Ho definito, quindi, la leadership come “una forma di potere basata su uno scambio di beni simbolici, la cui misura è determinata dal consenso”.
Il consenso, quindi, rappresenta la “moneta” della leadership.
E, infatti, chi non vorrebbe, quando dirige un gruppo, che i suoi membri aderissero alle sue idee, ai suoi progetti e alla sua persona (nelle tre forme della leadership discusse, appunto, nel post a loro dedicato: ideologica, pragmatica e carismatica)?

Il consenso ha, però, un suo “lato oscuro”: il conformismo.
Nel senso in cui lo utilizzerò (e che illustrerò nel dettaglio più avanti), infatti, il termine conformismo rappresenta un contraltare del consenso ed una sua conseguenza quasi inevitabile: più un team leader è in grado di generare consenso, più è elevato il rischio che nel team si generi un eccesso di conformismo, con i pericoli che questo comporta.
Si tratta, quindi, di una sorta di cul-de-sac: una risorsa positiva come il consenso, inseguita e perseguita da qualsiasi leader, si porta appiccicato un potenziale effetto negativo: il conformismo. Come uscirne?

La risposta a questa domanda ha a che vedere con la capacità di alternare in maniera efficace strutture relazionali orientate alla costruzione del consenso con strutture relazionali che stimolino, al contrario, un pensiero positivamente critico e severo.

Per struttura relazionale intendo la tipologia di interazione che viene costruita e favorita dal team leader nella sua relazione con i membri del team e nella relazione tra i membri stessi.
Distinguo due possibili alternative nel settare questa interazione: un approccio imparziale ed un approccio parziale. Il primo si basa sul fatto che ciascuno dei soggetti della relazione è stimolato ad assumere un atteggiamento fondato su criteri di equanimità rispetto alle opzioni in gioco. Chiamo interazione naturale la struttura relazionale che si viene a creare, poiché non vi sono regole imposte esplicitamente sulle modalità di questa relazione, se non quelle dettate dal contesto, dalla distribuzione dei ruoli, dalle strutture di potere e dalla cultura del gruppo (regole implicite).

Nel caso opposto decade proprio il presupposto dell’imparzialità (e ci troviamo, quindi, in una situazione di parzialità che illustrerò in dettaglio più avanti).

Chiamerò interazione controllata la struttura relazionale che si instaura in questo secondo contesto, visto che le regole di ingaggio della relazione sono oggetto di decisione consapevole e campo di azione e presidio da parte del team leader durante tutto il processo.

Prendo, come esempi delle due strutture, altrettanti processi che si potrebbero definire di problem solving: un consulto medico per la condivisione di una diagnosi circa la patologia di un paziente e una udienza di un procedimento penale che porti ad un verdetto di colpevolezza o innocenza per un imputato.

Nel primo caso, un gruppo di medici specialisti viene convocato al fine di analizzare congiuntamente una certa sintomatologia e di arrivare ad una diagnosi. L’aspettativa riguardo l’apporto dato da ciascuno specialista in una determinata branca (un cardiologo, per esempio, o un ortopedico) è che questo parere sia imparziale, nel senso che derivi di un’analisi equanime rispetto alle opzioni in gioco, non “prenda parte” per nessuna delle soluzioni in maniera preconcetta o pregiudiziale, esponga tutti gli elementi in proprio possesso al fine di rendere la visione il più completa e oggettiva possibile.

Questo è un esempio di quella che definisco struttura relazionale imparziale.
L’obiettivo di questo approccio è quello di creare consenso attorno ad una visione, ad un’idea, ad un progetto, alla soluzione di un problema. Le modalità con cui la relazione si svolge sono normalmente volte a cercare convergenza di opinioni rispetto a quanto emerge dalla discussione e viene posta attenzione a minimizzare il potenziale conflitto.

Nel caso dell’avvocato difensore o del pubblico ministero di un processo penale, invece, l’aspettativa è che l’apporto di ciascuno dei partecipanti al dibattimento non sia imparziale. Piuttosto, il contrario.

È connaturato a quel tipo di struttura relazionale che entrambe le controparti “tirino l’acqua al proprio mulino”, facendo di tutto per indurre il giudice ad assumere una decisione che avvantaggi la propria “parte”. La definisco, quindi, una struttura relazionale parziale.
L’aggettivo parziale, in questo senso, ha un doppio, interessante significato: da un lato un avvocato o un pubblico ministero sono “di parte” (sostengono le ragioni di uno solo degli attori in gioco, argomentando a suo esclusivo vantaggio), dall’altro, questo implica che essi “recitino una parte” (tanto che un conflitto anche aspro in aula solitamente non porta conseguenze nella relazione tra gli attori, nella consapevolezza che in quel contesto quella è la parte assegnata a ciascuno di loro).

Non ci si aspetta, quindi, che questi attori del processo dicano tutta la verità, mettendo a disposizione la totalità delle informazioni in loro possesso, ma, piuttosto, quella quota di verità che può essere utile, rispettivamente, a scagionare (per l’avvocato difensore) o far condannare (per il pubblico ministero o per l’avvocato dell’accusa) l’imputato.
Il presupposto per l’accettazione di questo tipo di struttura relazionale, basata sulla parzialità, è che questo sia il modo migliore per arrivare il più possibile vicino, nella soluzione del dilemma tra colpevolezza e innocenza, alla verità dei fatti.
Un altro esempio, forse ancora più paradigmatico, di questa doppia accezione del concetto di parzialità è il significato della locuzione avvocato del diavolo. Questa espressione deriva dal processo di canonizzazione della Chiesa Cattolica, che prevedeva (non è più così dal 1983) la presenza di una persona o di un gruppo di persone incaricate di apportare nella discussione elementi che mettessero in dubbio le virtù morali ed i miracoli dei candidati alla canonizzazione.

Il termine ufficiale con cui veniva designata questa figura era promotore della Fede (in latino, Promotor Fidei), ma informalmente veniva da molti secoli indicato come avvocato del diavolo (Advocatus diaboli). Il motivo per il quale è stata istituita questa figura è proprio quello di introdurre un contraddittorio nel dibattito al fine di evitare un eccesso di conformismo. E il modo migliore è sembrato quello di assegnare ad una figura una “parte”, imponendole un ruolo “di parte” (avversa rispetto a chi era favorevole e quindi promuoveva la canonizzazione).

Il presupposto che sottostà a questa modalità di raccolta delle informazioni e di problem solving è proprio questo: il modo più efficace per evitare il conformismo è quello di stimolare pareri contrari rispetto alla tesi prevalente (sviluppare, quindi, delle antitesi), e il modo migliore per sviluppare delle antitesi è quello di investire una persona o più persone di un ruolo specifico che ha come obiettivi la raccolta di elementi critici e la costruzione di un contraddittorio: l’avvocato del diavolo, appunto. Così facendo egli si sentirà non solo autorizzato ad esprimere il proprio dissenso, ma addirittura stimolato a farlo: un avvocato del diavolo è tanto più capace ed efficace quanto più le sue antitesi sono argomentate, documentate e ficcanti.

Quello del conformismo, infatti, è uno dei problemi più rilevanti nelle dinamiche di gruppo, specie in presenza di leadership forti e autorevoli, e rappresenta, appunto, il “lato oscuro” della minimizzazione del potenziale di conflitto e della costruzione di consenso che abbiamo già visto essere, invece, l’obiettivo e l’output di un approccio imparziale.

Su questo punto hanno argomentato con efficacia William H. White, che ha coniato il termine groupthink, e Irving Janis, pioniere nella ricerca in questo campo.
Janis inizialmente definì il groupthink in questo modo:
Io uso il termine groupthink come un modo veloce e facile di riferirmi al modo di pensare che le persone adottano quando la ricerca del consenso diventa così dominante in un ingroup coesivo da tendere a sostituire la valutazione realistica di differenti corsi d’azione.

E ancora, lo stesso Janis ha definito il principio fondante del groupthink sinteticamente in questo modo:
Più compiacenza e spirito di corpo c’è tra i membri di un ingroup di policy-makers, maggiore è il rischio che il pensiero critico indipendente venga rimpiazzato dal groupthink, che rischia di tradursi in azioni irrazionali e disumanizzanti contro gli outgroup.

Sottolineo come il groupthink non sia (o, per lo meno, non sia soltanto) la conseguenza di una struttura gerarchica per cui il team leader possa, attraverso il suo stile di esercizio del potere, inibire il pensiero critico, generando degli yes-men incapaci di mettere in discussione il suo parere per timore delle conseguenze del dissenso. C’è un’altra e più interessante dimensione del groupthink, che lo descrive come un vero e proprio contraltare dell’autorevolezza. Infatti, più un leader è autorevole (è in grado, quindi, per competenza, capacità di persuasione, prestigio, di costruire un ampio consenso attorno alle sue idee, ai suoi progetti e alla sua figura), più è difficile per i membri del suo team sviluppare ed esporre un pensiero critico, che probabilmente, nella maggior parte dei casi, sarebbe smentito dalla competenza e dalle capacità del team leader. In questo senso, l’eccesso di conformismo è il portato negativo, come già detto, della capacità, di per sé positiva, di costruire consenso.

Concludendo: i processi di problem solving in un gruppo richiedono, in alcune fasi del loro sviluppo, costruzione e sviluppo del consenso, in altre, al contrario, voci libere di dissentire al fine di evitare il conformismo.

Compito del team leader è, allora, quello di alternare strutture relazionali imparziali con strutture relazionali parziali quando il processo è a rischio di eccesso di conformismo, stimolando la presenza di figure critiche, avvocati del diavolo e bastian contrari.

Peraltro, queste figure sono ben presenti in quasi tutte le tecniche di problem solving: il “cappello nero” nel metodo dei “Sei cappelli per pensare” di Edward de Bono, oppure la figura del “critico” nella “Strategia Disney”, codificata da Robert Dilts, solo per fare due esempi.

La responsabilità del team leader, dunque, ha a che vedere con la capacità di costruire e presidiare una struttura relazionale, più che con la capacità di intervenire sul contenuto del processo di problem solving. Deve essere in grado di sponsorizzare un pensiero critico, valorizzando il dissenso quando questo può portare a ridurre il potenziale eccesso di conformismo e proteggendo le fasi e le figure che possono fornire un apporto in questo senso.

Sottolineo, infine, come questa possa essere una risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio di questo post: come uscire dal cul-de-sac consenso / conformismo?
Il fatto che sia il team leader ad assegnare il ruolo di critico o di avvocato del diavolo, infatti, permette di generare pareri dissenzienti senza mettere eccessivamente a rischio il consenso, visto che è lui stesso a richiedere questa tipologia di apporti. Alternare in modo efficace e funzionale i due approcci, quindi, fa uscire il team leader da quello che è, apparentemente, un dilemma senza soluzione.

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