Reshoring post Covid: cos’è e come può essere utile al sistema Italia

scritto da il 30 Novembre 2020

Post di Eleonora Maglia, giornalista. Eleonora svolge attività di ricerca e pubblicazione per il Centro di documentazione Luigi Einaudi di Torino –

L’internazionalizzazione produttiva (o investimento diretto all’estero da parte di un’impresa con obiettivi di market-seeking e efficiency-seeking) è un fenomeno che, in epoca pre-pandemica, ha realizzato una rapida espansione: secondo le rilevazioni di Banca d’Italia, infatti, in un ventennio lo stock di IDE (investimenti diretti esteri) è decuplicato, soprattutto per l’espansione economica dei paesi emergenti e per l’aumento di trattati e accordi commerciali volti al contenimento o alla riduzione di barriere all’ingresso, fino a realizzare forme di divisione del lavoro internazionali e catene globali del valore.

Tutto ciò comporta effetti molteplici per i Paesi d’origine, soprattutto in termini di ripercussioni sull’occupazione e sulla produttività, perché l’attività delocalizzata può essere più o meno complementare o sostitutiva dell’equivalente interno e perché possono essere necessari riorganizzazioni complessive dei processi di produzione. In proposito, “le evidenze empiriche sembrano indicare che le imprese che investono all’estero tendono a trarne benefici [..]; gli effetti dell’internazionalizzazione sull’occupazione della casa madre sono eterogenei e variano secondo la qualifica dei lavoratori e le motivazioni dell’investimento, perché l’attività svolta dall’impresa nel paese d’origine può anche espandersi, se si potenziano i servizi di coordinamento o di headquarter o se l’investimento necessita di produzioni interne complementari a quelle estere; [..] tuttavia emergono anche casi di parziale sostituzione tra l’attività estera e quella nel paese d’origine, inoltre si possono avere ripercussioni particolarmente negative sulla filiera di fornitori nazionali“ (Crisadoro e Federico, 2015, p.29).

In Italia gli IDE sono meno degli omologhi europei, per motivi storicamente imputabili alla consistente presenza sul territorio nazionale di PMI che possono non disporre dei mezzi necessari per sostenere i costi e i rischi di un insediamento produttivo estero (in percentuale, secondo i dati Istat-Ice, delocalizza il 5,6 per cento delle grandi imprese, il 4,6 per cento delle imprese appartenenti a gruppi, il 3 per cento delle medie imprese e lo 0,6 per cento delle imprese indipendenti). La quota di imprese che delocalizzano è infatti positivamente correlata alla dimensione aziendale e alla produzione all’estero, in qualsiasi forma venga effettuata, richiede comunque una dimensione minima (Costa e Luchetti, 2014). Secondo il Censimento permanente delle imprese Istat, così, in media in Italia solo il 2,8 per cento delle imprese realizza all’estero almeno una parte della produzione sostanzialmente per accedere a nuovi mercati (29,1 per cento dei casi) e contenere il costo del lavoro (20,1 per cento dei casi).

Ora, è interessante sapere che, in oltre tre casi di delocalizzazione su quattro (dati Istat), la produzione realizzata all’estero torna in Italia, perché reimportata per usi finali o intermedi (rispettivamente 31,7 per cento e 23,5 per cento dei casi) oppure perché destinata ad una successiva riesportazione (25,5 per cento dei casi). In più, nel panorama descritto, durante la massima diffusione dell’epidemia per Covid-19 (marzo e aprile 2020), i flussi commerciali italiani con l’estero hanno registrato una brusca contrazione che, rispetto a febbraio 2020, è stata pari a valori compresi tra il 32,2 e il 45,8 per cento (dati Istat).

Per i motivi indicati, una strategia emergente per il futuro potrebbe allora configurarsi con il reshoring, ovvero la ri-localizzazione delle imprese, che conterrebbe il rischio di incertezza tuttora attuale e consentire un maggior controllo sulla supply chain. In proposito, le prospettive di contenimento delle catene globali a livello generalizzato sono già alte, se si pensa che l’80 per cento delle multinazionali ha già redatto dei piani di rimpatrio delle produzioni (dati Bank of America) in risposta ad un impatto sulle catene di approvvigionamento che, a causa del Covid-19, ha interessato il 75 per cento delle aziende (dati Institute for Supply Management).

In Italia, questo orientamento è già in parte stato attivato in epoca pre-pandemica, posto che le rilevazioni di Eurofound registrano per l’Italia 39 casi simili, già nel triennio 2015/18, sostanzialmente per tornare ad investire sul fattore qualità e sul concetto di Made in Italy nel settore del lusso, attraverso logiche distrettuali che avvicinano i punti di approvvigionamento, produzione e consumo. Ora una strategia di rientro potrebbe essere applicata anche ad altri settori chiave, forti anche delle rilevazioni empiriche già presenti nella letteratura scientifica che mostrano come le strategie di back-reshoring, quando sono sostenute da opportune scelte di politica industriale, generano ricadute positive sia a livello Paese che di singola azienda (Ricciardi et al., 2015).

L’emergenza pandemica ha assunto aspetti ed entità che portano certamente a riscrivere le traiettorie di crescita e di sviluppo, ma tutto ciò può avvenire anche in modo migliorativo: già Taleb, nel Cigno Nero (2008), ha argomentato su come sia possibile sfruttare a favore le circostanze create dal verificarsi dell’altamente improbabile.