Per salvare il capitalismo: tra Polanyi, Schumpeter e Keynes

scritto da il 08 Gennaio 2021

Articolo di Mattia Marasti, studente di matematica presso Unimore e collaboratore di Kritica Economica – 

Quando la crisi da Covid-19 ha investito il mondo occidentale, i più ottimisti ritennero che, dopo un fase di restrizioni, si sarebbe tornati a una sorta di normalità non solo nella nostra vita sociale ma anche economica. A marzo la speranza di molti era quella di una V Shaped Recovery. Il risparmio privato accumulato durante il lockdown avrebbe sostenuto i consumi, trainando un’economia in panne. Il perdurare della crisi, però, insieme ad altri fenomeni che questa crisi sanitaria ha innescato, stanno dimostrando che questa visione non era nient’altro che wishful thinking.

Allo stesso tempo, tuttavia, è necessario rifuggire da una fascinazione per la palingenesi. La crisi avrebbe aperto una frattura insanabile nella storia del mondo occidentale e, dalle ceneri, questo sarebbe rinato.

Entrambe queste visioni, che si prestano alle discussioni televisive, non sono conformi alla realtà dei fatti a cui assistiamo.

Il virus non aprirà una crepa nella storia occidentale, come ha fatto ad esempio la seconda guerra mondiale, ma agirà da catalizzatore. Come la caduta del Muro di Berlino, questo accelererà processi già in corso, come l’aumentare delle disuguaglianze in tutte le sue forme, la Cina che emerge come potenza mondiale in rapida espansione, una revisione della globalizzazione.

Questo articolo ha come intento di fornire, in qualche modo, un contributo al ripensamento del programma dei partiti di sinistra, in crisi da anni sia nel nostro paese che altrove, per il futuro prossimo.

Il primo spunto di riflessione, che vogliamo fornire, riguarda la comprensione dell’individuo e il suo posto nella società. Dagli anni ‘80, con la vittoria ideologica del Realismo Capitalista, portata avanti da Reagan e Thatcher, i problemi della società sono stati ridotti a problemi individuali. Usando le parole di Margaret Thatcher, “non esiste la società, ma solo individui e famiglie”. Questo cambio di paradigma radicale ha avuto indubbiamente dei meriti, forse nemmeno immaginati da Reagan e Thatcher. L’attenzione ai diritti civili, non più legati a trasformazioni radicali della società e dei suoi rapporti di forza, ha preso nuova linfa vitale portando a conquiste come il riconoscimento dei diritti della comunità LGBTQI+.

Ma i sempre più urgenti problemi, assieme ai risultati disastrosi sul lungo periodo delle politiche ispirate a quel principio, ci devono portare a un ripensamento. Questo ripensamento, è bene precisare, non può essere un ritorno a ideologie del secolo scorso.

Occorre ripensare l’azione politica non in funzione dell’individuo né in funzione dello Stato, come a voler assorbire in sé la moltitudine delle differenze individuali. Si rende quantomai necessario un approdo alla comunità, agglomerati di persone uniti da relazioni, debolezze, speranze, bisogni, urgenze. Andare oltre lo slogan della Thatcher e asserire che “esiste la società poiché esistono famiglie e individui”.

Per fare ciò è necessario riprendere il pensiero di Karl Polanyi che quasi cento anni fa parlava di “economia incorporata”. Distante dalla visione astratta dell’economia mainstream, bisogna innanzitutto ribadire che i sistemi economici non vengono calati dall’alto su un palcoscenico vuoto, ma si insinuano in società con determinate relazioni e valori. Lo stesso capitalismo realista ha basato la sua fortuna su questi valori, come dimostra il caso del capitalismo italiano incentrato sulla famiglia. Una crisi di questi valori, conseguenza inaspettata delle politiche sopra riportate, ha condotto il capitalismo verso uno stato di degenerazione. Ripiegato su se stesso, in questi anni il capitalismo, anche a fronte della crisi del decennio appena passato, non ha saputo riformarsi come aveva fatto nel ‘29. Le politiche messe in atto dai governi occidentali hanno acuito le disuguaglianze e dato terreno fertile a movimenti populisti e reazionari, come già aveva preannunciato Eric Hobsbawn.

Distanziandoci da una visione fin troppo individualista, che ha sempre di più legato le mani del cambiamento, per risolvere i problemi sociali che ci interessano- cambiamento climatico in primis- è necessario il cambiamento di prospettiva di cui abbiamo parlato.

Il secondo punto riguarda una vera e propria critica a certe fascinazione che la sinistra ha avuto in questi anni. Ci riferiamo in particolare alla fascinazione per la decrescita o all’idea che la redistribuzione della ricchezza non passi, anche, dalla creazione di questa. La crescita economica che abbiamo visto nel secolo scorso ci ha garantito più alti standard di vita. La sinistra non può abbracciare una visione pauperista, ma indirizzare questa crescita attraverso la politica industriale, riscoprendo un ruolo che lo Stato ha in questi anni abdicato.

Il motore della crescita economica, come ci insegna Joseph Schumpeter, è l’innovazione tecnologica: questo fu chiaro anche agli economisti neoclassici, che considerando in un primo momento soltanto il capitale e il capitale umano come variabile della funzione produzione, non furono in grado di spiegare i dati empirici.

L’innovazione tecnologica, come ci ha insegnato Schumpeter, procede attraverso un processo di distruzione creativa. Il capitalismo, lungi dall’essere un processo tendente all’equilibrio, è un processo dinamico, che muta forma, imprevedibile.

Ma non possiamo lasciarci trascinare dall’ottimismo.

Come sostiene Harari, questa rivoluzione tecnologica porta con sé una caratteristica che la distingue dalle altre. Se al tempo della rivoluzione industriale, i contadini si trasferivano nelle città per diventare operai, durante la rivoluzione digitale a cui assistiamo in questi anni non sarà così semplice il dinamismo. Non si può chiedere a una cassiera, uno dei lavori che è più a rischio, di reinventarsi da un giorno all’altro analista dei dati.

L'economista John Maynard Keynes (1883-1946)

L’economista John Maynard Keynes (1883-1946)

Questo ci porta all’ultimo punto della nostra proposta. Come già intuito prima della crisi sanitaria e durante questa, il ruolo dello Stato, per molto tempo relegato nelle retroguardie, dovrà tornare centrale. Il ruolo dello Stato, secondo noi, deve riprendere le parole di Keynes: non deve, cioè, fare ciò che gli individui già fanno ma fare ciò che questi non fanno. In particolare deve indirizzare la crescita economica: sostenere gli investimenti e l’innovazione, attraverso i Mission Oriented Project, in una prospettiva comunitaria, per ricollegarci a quanto detto in precedenza. Queste missioni, infatti, devono avere obiettivi ambiziosi, come il contrasto al cambiamento climatico, la cura dei tumori, lo sviluppo pieno dell’individuo.

Per fare ciò ci sembra opportuno abbandonare certe fascinazione della teoria neoclassica, che ha sempre avuto problemi nel trattare l’innovazione tecnologica, e rivolgere lo sguardo alle moderne teorie evoluzioniste. Un esempio paradigmatico è lo sviluppo della Silicon Valley. Non si può, come fa notare Harayama, sostenere che la costruzione della Silicon Valley sia avvenuta grazie, soltanto, agli investimenti privati. Il suo successo è da attribuire alla creazione di un ecosistema formato da privati, governo federale e università di Stanford.

Questo, è bene ribadirlo, non è l’unico ruolo dello Stato. Come evidenziato in precedenza la questione sociale, soprattutto dopo l’emergenza sanitaria, prenderà il sopravvento. La costante sfiducia nei confronti dello Stato ha portato in questi anni a uno smantellamento dello Stato Sociale o, quantomeno, a una sua revisione profonda. Questi cambiamenti, innescati dalla sempre minor sostenibilità delle procedure di cura dello Stato nei confronti dei cittadini, pongono un’importante sfida. Se, da una parte, i costi dello Stato Sociale gravano sui bilanci statali, con una prospettiva non di certo rosea visto il problema demografico, i costi del mancato stato sociale hanno peso anch’esse. L’inasprirsi delle disuguaglianze, la mobilità sociale ormai ferma, i problemi di salute mentale, derivanti da un depauperamento dello Stato Sociale, hanno risvolti disastrosi sulla crescita economica, che come dicevamo prima è il nostro obiettivo primario.

Di certo questo articolo non può pretendere di essere esaustivo. Riteniamo tuttavia che la discussione sui temi affrontati sia necessaria e impellente.

Se, infatti, non ci sarà un deciso cambio di rotta, le problematiche legate alla crisi sanitaria renderanno il sistema sempre più debole. Vogliamo infatti ribadire che il nostro intento non è quello di smantellare il sistema capitalista per approdare a un’economia pianificata. Una riforma, quindi, del capitalismo come struttura portante di un programma economico di sinistra non può più essere rimandata.

Twitter @MarastiMattia