Smart working: le ore rubate e i molti rischi per il mondo del lavoro

scritto da il 25 Gennaio 2021

Post di Savino Balzano* – 

Lo scorso 22 gennaio la Banca d’Italia ha pubblicato uno studio intitolato Il lavoro da remoto in Italia durante la pandemia: i lavoratori del settore privato. L’elaborato è stato ampiamente citato dalla stampa, che ne ha risaltato le conclusioni: gli autori, tra le tante cose, sottolineano come in media i lavoratori in smart working abbiano visto incrementare la propria retribuzione durante la pandemia (di circa il 6%) e che il lavoro agile allontana le persone dal rischio di cassa integrazione.

La registrazione di questi dati ha indotto gli studiosi a ad affermare «che la possibilità di svolgere il lavoro agile ha avuto effetti positivi durante la pandemia di Covid-19, con benefici sia privati (…), sia, probabilmente, collettivi (ad es., il minore ricorso alla CIG, che riduce il costo implicito per le finanze pubbliche)».

È una conclusione che mi ha convinto poco perché parte da un presupposto a mio avviso errato, ovvero che a fronte di un incremento retributivo medio del 6%, l’incremento di ore lavorate sia stato della stessa percentuale (quella appunto riportata nello studio e che in termini assoluti è di sole 2 ore aggiuntive a settimana).

Chi si confronta quotidianamente con le lavoratrici e i lavoratori sa benissimo che la realtà è assai diversa da quella citata ed emerge assillante la lamentela circa l’impossibilità di delimitare nettamente il tempo da dedicare al lavoro e quello riservato alla cura di sé. Diversi studi inoltre certificano una situazione molto differente da quella presentata da Bankitalia: un’indagine condotta da Linkedin afferma che i lavoratori in smart working incrementano la propria attività di un’ora al giorno, mentre secondo uno studio della Harvard Business School e della New York University l’incremento sarebbe di 48,5 minuti al giorno. Questi sono soltanto due esempi.

Peraltro resto convinto del fatto che anche questi studi rischino di sottostimare il fenomeno: spesso le prestazioni supplementari non lasciano traccia e molti lavoratori, dato anche il contesto di precarietà che purtroppo caratterizza i contratti, sono disposti a trattenersi oltre l’orario e a farlo rinunciando alla propria retribuzione. Vale la pena ricordare uno studio realizzato precedentemente alla pandemia (lo sottolineo perché è semplice presumere come essa non possa che aver peggiorato la situazione) realizzato da Always Designing for People e intitolato Workforce View in Europe, che certifica come in Italia il 30% dei lavoratori dichiarino di lavorare dalle 6 alle 10 ore alla settimana senza retribuzione (c’è chi arriva a dichiararne dalle 11 alle 15).

In effetti nulla di originale: il fenomeno dello straordinario non retribuito o in nero è notoriamente diffuso nel mondo del lavoro e appare assolutamente intuitivo come certe dinamiche non possano che risultare enfatizzate nella prestazione di lavoro da remoto.

Working From Home Setup. Two Laptops And Tea Coffee Mugs On Wooden Rustic Desk. Remote Working Or St

Stando così le cose, dunque, quelle due ore settimanali medie finiscono col rappresentare solo la punta di un iceberg. La restante parte costituirebbe un’enorme massa di lavoro sommerso (appunto) e pertanto diviene difficile intendere il fenomeno nel suo insieme come un’opportunità di incremento retributivo. Supponendo che l’aumento delle ore lavorative sia di gran lunga maggiore (supposizione a mio avviso per nulla azzardata e assolutamente ragionevole) lo smart working rappresenterebbe una circostanza di impoverimento in termini retributivi.

Certo, non si fatica a condividere come il minor ricorso agli ammortizzatori sociali per questi lavoratori (e qui vengo alla seconda conclusione dello studio che mi interessa approfondire) possa di per sé rappresentare un risparmio per le finanze pubbliche e dunque un vantaggio per la collettività. Sul punto però vorrei evidenziare almeno tre aspetti.

Il primo è che tale risparmio deve essere messo a confronto con la menzionata erosione salariale dei lavoratori e, pertanto, bisogna confrontarsi su cosa si intenda per collettività, dal momento che il lavoro non retribuito deve necessariamente essere interpretato come un gravissimo danno sociale: primo perché viene meno il reddito delle persone (con conseguenze individuali ed economiche legate al calo dei consumi); secondo perché il lavoro in nero e non retribuito finisce col sottrarre il gettito fiscale che ne sarebbe derivato.

Il secondo aspetto riguarda ciò che a mio avviso costituisce un errore di approccio complessivo applicato ai ragionamenti di finanza pubblica: come evidenzia brillantemente Stephanie Kelton in Il mito del deficit (Fazi Editore, 2020), la politica è così focalizzata sul tema del deficit di bilancio pubblico, da trascurare completamente i “deficit che contano”: il deficit di buoni posti di lavoro, il deficit di risparmio, il deficit di cure sanitarie, il deficit di istruzione, il deficit di infrastrutture, il deficit climatico, il deficit democratico.

Un ulteriore elemento da considerare, nondimeno importante, consiste poi nell’incidenza che il lavoro supplementare (soprattutto se non retribuito) riesce ad avere sulle politiche occupazionali nelle singole aziende e nel Paese: è evidente che un imprenditore troverà assai più conveniente, ça va sans dire, ricorrere a tale espediente piuttosto che assumere ulteriore personale. Anche questo rappresenterebbe un danno alla collettività non da poco.

Che lo smart working in fase emergenziale abbia contribuito alla salvaguardia di alcuni posti di lavoro credo sia necessario riconoscerlo: consentire a molte aziende di mantenere attiva la produzione anche nei mesi più drammatici del lockdown ha aiutato certamente il sistema a reggere l’urto. Non a caso è però anche bene considerare che molte sono state le deroghe alla normativa in materia del 2017: porre i lavoratori in modalità agile anche senza un accordo individuale ne rappresenta una, ad esempio, come pure tenere i lavoratori fissi a casa non risponde certamente alla vocazione della legge, la quale prevede la possibilità di prestare la propria opera da qualsiasi luogo eletto dalla persona.

Difatti, a mio avviso è opportuno mantenere una visione lucida circa quanto abbiamo vissuto nel recente passato e ahimè quanto stiamo vivendo ancora oggi, considerando questa esperienza quale modalità alternativa al lavoro tradizionale, ma allo stesso tempo alternativa allo smart working così come inteso dalla legge: sarebbe a tal proposito forse più pertinente definire quello attuale quale emergency working o qualcosa del genere.

Questo perché la ratio originaria rispondeva a una logica inversa rispetto al ricorso circostanziato al Covid-19 per cui lo smart working dovesse essere inteso quale modalità assolutamente marginale e residuale di prestazione lavorativa: vale la pena ricordare infatti che molti accordi collettivi prevedono un ricorso massimo settimanale allo smart working (in genere pochi giorni al mese) e non minimo (come più comprensibilmente è avvenuto durante la pandemia).

Tali limiti trovavano fondamento nel fatto che lo smart working presta il fianco a numerose criticità, che è evidentemente complicato approfondire in questa sede, e provo a citarne alcune: è necessario riflettere circa la possibilità di socializzarne i risparmi con i lavoratori (ad esempio introducendo indennità per quelli in lavoro agile, come in alcuni e troppo pochi casi già avviene); è importante ragionare sui rischi in materia di salute e sicurezza, dal momento che la normativa è assai più light rispetto alle previsioni in materia di lavoro in azienda e di telelavoro (spesso gravemente confuso con lo smart working) e peraltro c’è chi sottolinea (a mio avviso a ragione) come lo stress da lavoro correlato e il rischio burnout aumentino nella prestazione smart; è imprescindibile una riflessione in materia di disconnessione, con la necessità di introdurre strumenti cogenti che impediscano al tempo di lavoro di invadere violentemente il tempo libero, facendo venir meno l’invece auspicata migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; è centrale un approfondimento sul tema del controllo a distanza dell’attività del lavoratore, che in regime di smart working rischia di diventare davvero invasivo e ancora più dannoso; è improcrastinabile un ragionamento, a mio avviso il più importante di tutti, in materia di socialità sui luoghi di lavoro, dal momento che l’isolamento rischia di finire col destrutturare completamente la comunità del lavoro e la sua capacità di rivendicare solidaristicamente migliori condizioni ed equi riconoscimenti.

L’esperienza della pandemia, e concludo, potrebbe indurci a normalizzare lo smart working per come lo abbiamo vissuto durante la fase emergenziale e a trasformare quest’ultimo nella nuova modalità ordinaria di prestazione lavorativa, stravolgendo completamente l’approccio originario alla materia. A mio avviso, peraltro, uno dei danni maggiori per il mondo del lavoro potrebbe essere rappresentato dall’ipotesi di superamento del rapporto tra retribuzione e ore lavorate, introducendo una sorta di lavoro dipendente a cottimo e vale la pena ricordare come già il c.d. Piano Colao definisse il tempo impiegato quale «meno misurabile e non rilevante nel lavoro agile».

Resto assolutamente convinto che sia fondamentale una legge puntuale che intervenga al fine di sciogliere i nodi irrisolti e al fine di garantire protezioni forti e reali universalmente garantite. Pertanto considero sul punto errata la conclusione di Tiziano Treu, secondo cui «sarebbe sbagliato e certo prematuro approvare una nuova normativa, tanto più se fortemente prescrittiva» e che aggiunge come «un nuovo oggetto di regolazione dovrà riguardare le piattaforme che gestiranno questo tipo di lavoro, come altri aspetti del lavoro nelle fabbriche del futuro; perché la configurazione e le regole di tali piattaforme saranno decisive per la valutazione e il controllo del lavoro a distanza».

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* Classe ’87, Savino Balzano è nato a Cerignola, orgogliosamente ricorda sia stata la città di Giuseppe Di Vittorio. Laurea in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Perugia e Master in Relazioni Industriali. È un sindacalista Unisin e studia da tempo il mondo del lavoro, con particolare attenzione alle dinamiche collettive e sindacali. Collabora con diverse riviste, tra le quali La Fionda, e nel 2019 ha esordito col suo primo saggio “Pretendi il lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi” GOG Edizioni.