Vaccini e brevetti: quello che le holding e i governi non dicono

scritto da il 18 Febbraio 2021

Post di Tancredi Buscemi, dottorando in Economics all’università di Perugia; l’autore si  occupa di Storia Economica e principalmente di Questione Meridionale e disuguaglianze regionali – 

Il 12 dicembre 1997 è sicuramente una data che ai più non sortisce alcun effetto eppure è la pietra miliare di un’affermazione storica che in questi giorni dovrebbe essere più attuale che mai e invece non lo è per nulla.

Si discute molto del problema dei vaccini e del fatto che non ci siano dosi sufficienti da distribuire nei paesi dell’Unione Europea ma molto poco del perché i governi siano così timidi nel prendere in mano la situazione. Come sempre per capire dove stiamo andando bisogna tenere a mente da dove veniamo.

Ritorniamo alla data del 12 dicembre 1997, il Sud Africa è nella morsa dell’AIDS, i morti si contano a centinaia di migliaia e il paese governato da Nelson Mandela non può permettersi di comprare i farmaci antiretrovirali, il cui costo medio è nell’ordine dei diecimila dollari e che consentirebbero di salvare molte vite.

La produzione di questi farmaci è infatti tutta nelle mani delle grandi multinazionali, un accordo commerciale firmato tre anni prima comunemente noto come TRIPs (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) proibisce a tutti i membri del WTO (World Trade Organization) di violare i brevetti registrati. Neppure i farmaci sono esentati da questo accordo.

Il passaggio di questi accordi commerciali in seno alla WTO fu infuocato, spinto parecchio dagli Stati Uniti e soprattutto dalle aziende farmaceutiche (con in testa la ben nota Pfizer), era osteggiato dai paesi in via di sviluppo che vedevano, a ragione, nell’approvazione del TRIPs una seria minaccia all’accesso di cure e farmaci cui fino a quel momento avevano potuto provvedere con produzione propria.

L’accordo fu ratificato e nel 1997 la situazione del Sud Africa mostrò pesantemente i profondi aspetti etici che comportava questo tipo di regolamentazione della proprietà intellettuale. Il governo sudafricano messo con le spalle al muro dalla situazione sanitaria decise di passare il guado e con il Medical Act il 12 dicembre 1997 sospese la tutela della proprietà intellettuale sui farmaci antiretrovirali consentendo così la produzione domestica. La reazione delle aziende farmaceutiche fu veemente con un’azione legale massiva che di fatto bloccò l’applicazione della legge. Una grande impressione dell’opinione pubblica mondiale, con prese di posizione da più parti in favore di Mandela, indusse le multinazionali del farmaco a desistere dal proseguire l’azione legale.

Nel 2003 la WTO cercando di far fronte al problema ha approvato la Dichiarazione di Doha che prevede regimi derogatori per l’accesso ai farmaci ai paesi in via di sviluppo. La situazione è però rimasta piuttosto lacunosa, non cambiando sostanzialmente molto nel regime delle proprietà intellettuali.

Una storia del genere fino a 365 giorni fa poteva sembrare lontana anni luce rispetto a queste latitudini eppure ci siamo scoperti estremamente fragili anche sotto questo aspetto. Le notizie che prospettano tagli di dosi alle forniture dei vaccini contro il Covid-19 sono diventate quasi quotidiane. Al momento sul mercato sono presenti tre marchi che di fatto agiscono in un regime di cartello e, ne siamo sicuri, per una casualità aurea hanno segmentato il mercato, il trial clinico di Astrazeneca non ha dato infatti sicurezza sufficiente oltre una certa coorte di età e dunque le dosi di vaccini sono state messe, almeno fino a questo momento, su due binari differenti (Moderna e Pfizer per gli anziani, Astrazeneca per i più giovani) in quasi tutti i paesi che hanno avuto accesso al vaccino.

I tagli sono dovuti, sostengono le case farmaceutiche, a problemi legati alla produzione, in altre parole le aziende si sono accorte di non riuscire a garantire tramite i loro stabilimenti una produzione che sia in grado di soddisfare gli accordi che le stesse aziende hanno siglato. Un primo punto, strettamente etico, viene fuori: è giusto mantenere privato il brevetto di un farmaco che in questo momento potrebbe risolvere la più grande epidemia da un secolo a questa parte e non liberalizzarlo consentendo in questo modo ai paesi di provvedere al proprio fabbisogno tramite una produzione nazionale?

Gli strenui sostenitori del libero mercato probabilmente risponderanno di sì anche se qui i meccanismi in atto non sembrano linearmente coerenti con le dinamiche di concorrenza perfetta, facciamo cadere questa importante implicazione etica e fingiamo che non ce ne importi.

Il secondo punto è un po’ più tecnico ed è legato alla ricerca e sviluppo dei vaccini che sono stati implementati con mastodontici investimenti pubblici, sia tramite fondi per la ricerca che tramite accordi di acquisto di dosi a sperimentazioni ancora in corso. In altre parole molti paesi hanno acquistato dosi a scatola chiusa, durante la sperimentazione, scommettendo su determinati vaccini e quindi prendendosi proverbialmente il rischio imprenditoriale alla stregua di aziende private. Soffermiamoci solamente sull’ Unione Europea: l’erogazione di fondi di questa è facilmente reperibile sul sito della Commissione; la BEI (Banca Europea degli Investimenti) ha erogato durante la sperimentazione del siero Pfizer-Biontech 100 milioni per la ricerca. La Commissione ha invece acquistato, a sperimentazione in corso e quindi assumendosi il rischio di investimento, 200 milioni di dosi, sempre di Pfizer-Biontech, 80 milioni di dosi di Moderna più circa 336 milioni di euro per ricerca e sviluppo e rifornimento di dosi, sempre a scatola chiusa, per le forniture di Astrazeneca.

Coronavirus covid-19 experimental vaccine in a laboratory, conceptual image.

La domanda che sorge spontanea è una: il rischio del finanziamento di questi vaccini è stato socializzato utilizzando i soldi dei contribuenti europei per svilupparlo: se il rischio è stato socializzato perché, in un tema così delicato di salute pubblica, il profitto deve essere privato? O meglio, se è socializzato il rischio non deve essere garantito il ritorno delle dosi per cui, in un certo senso a fondo perduto, i contribuenti dell’UE hanno partecipato?

Moderna è l’unico dei tre marchi ad avere autorizzato l’utilizzo del suo brevetto, una comunicazione che è tuttavia una sorta di campo minato: l’azienda americana infatti si è riservata soltanto di non citare in giudizio le aziende che svilupperanno vaccini simili fino alla fine della pandemia. Insomma, un elegantissimo giro di parole della multinazionale il cui sottinteso è che finita l’emergenza sarebbe comunque pronta a fare la guerra legale, un’operazione che sembra più di facciata.

Si è sollevata negli ultimi giorni una critica verso la liberalizzazione dei brevetti, motivata dal fatto che questi non sarebbero comunque possibili da produrre su larga scala. I vaccini a mRNA sono effettivamente più difficoltosi da produrre ma ci sono comunque le strutture nel continente per farlo (ad esempio l’azienda Fidia di Abano Terme in provincia di Padova si è detta capace ed eventualmente disponibile a produrre i sieri di Pfizer e Moderna) e sarebbero sicuramente in grado di fornire più dosi di quelle ora disponibili. Diverso il discorso per il vaccino Astrazeneca, la cui tecnica di produzione è meno innovativa: una sospensione di questo brevetto consentirebbe sicuramente una produzione su più vasta scala.

Il tema è strettamente legato al mantra del collegamento tra salute ed economia. La liberalizzazione dei brevetti e il loro utilizzo come bene pubblico comporterebbe una produzione su larga scala in tempi molto più rapidi mettendo i paesi in sicurezza e garantendo l’accesso anche ai paesi in via di sviluppo. Il vicolo in cui il mondo si trova è abbastanza stretto e indugiare su questo tema potrebbe anche essere fatale, visto il sorgere di nuove varianti. Probabilmente invece di insistere su argomenti come i lockdown si dovrebbe iniziare ad aprire una seria questione sui brevetti dei vaccini, quello che si percepisce nel dibattito è la timidezza e in certi casi quasi la remissività nel parlare di questo argomento che in realtà dovrebbe essere preminente. Bisognerebbe forse avere più coraggio e cogliere il grande messaggio che il 12 dicembre 1997 ci ha lasciato Nelson Mandela, la salute è un bene pubblico.