Geopolitica centrale per le scelte aziendali. I casi Myanmar e Xinjiang

scritto da il 07 Marzo 2021

Post di Daniele Grassi, amministratore delegato di IFI Security ed esperto di relazioni internazionali e sicurezza aziendale – 

Il 1° febbraio, le Forze Armate del Myanmar (Tamtadaw) hanno destituito e messo in arresto il presidente Win Myint e la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, sciolto il neo-eletto parlamento e dichiarato lo stato di emergenza.

L’azione compiuta dai militari non ha colto del tutto di sorpresa la comunità internazionale. Nelle settimane precedenti, infatti, le accuse di brogli da parte dei vertici delle Forze Armate avevano alimentato i timori di un’azione volta a neutralizzare la componente civile del governo, uscita rafforzata dalle elezioni svoltesi a novembre 2020, nonostante i fallimenti registrati nel precedente mandato sotto il profilo delle riforme, della gestione del malcontento nutrito dalle minoranze etnico-religiose presenti nel Paese e delle politiche economiche.

La netta affermazione della Lega Nazionale della Democrazia avrebbe, dunque, spinto i militari a compiere un’azione di forza, allo scopo di preservare i propri interessi politici ed economici da ulteriori e più decisi tentativi di riforma da parte del nuovo esecutivo.

D’altronde, nonostante la transizione avviata nel 2011 dalle stesse Forze Armate, il peso degli investimenti stranieri è ancora relativamente contenuto (circa 5,7 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2019-20), in ragione degli ostacoli burocratici, dei rischi reputazionali e delle deboli tutele legali tuttora garantite dall’attuale legislazione. Cina, Singapore e Giappone rappresentano i principali investitori stranieri nel Paese, mentre la presenza di aziende occidentali è ancora molto limitata.

La nota società svedese di abbigliamento H&M, presente in Myanmar da alcuni anni, ha reagito al colpo di stato con un comunicato nel quale ha dichiarato di seguire attentamente l’evolversi della situazione, prima di optare per un’eventuale uscita dal Paese. Sebbene l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale per le vicende politiche di Myanmar appaia, al momento, contenuta, non è escluso che tale situazione possa mutare anche repentinamente, soprattutto nel caso di un ulteriore aumento delle vittime della repressione da parte delle Forze Armate.

I timori di eventuali contraccolpi reputazionali hanno già spinto la società giapponese Kirin Holdings (produttrice di birra) a porre fine alla propria joint-venture con la Myanmar Economic Holdings Public Company Limited, conglomerato economico direttamente controllato dalle Forze Armate. Altre società hanno dichiarato la sospensione dei propri piani di investimento nel Paese, prevedendo l’adozione di nuove sanzioni a livello internazionale.

Stando ai dati pubblicati dall’organizzazione austriaca Center for Systemic Peace, dal 1946 al 2018 sarebbero stati almeno 851 i colpi di stato compiuti, tentati o pianificati nel mondo, ovvero quasi 12 l’anno. Sebbene negli ultimi anni tali eventi siano divenuti più rari, quanto accaduto in Myanmar e, pochi anni prima (2014), nella vicina Thailandia, evidenzia la necessità per chi opera a livello internazionale di monitorare in maniera sistematica i cosiddetti ‘rischi politici’.

I colpi di stato rappresentano una delle declinazioni più eclatanti di tale tipologia di rischi. Tuttavia, altre tipologie di eventi, spesso meno visibili ma comunque suscettibili di produrre impatti rilevanti sul business rientrano in questa categoria.

Da alcuni mesi, il settore dell’energia solare è interessato da controversie di carattere etico, riconducibili a una remota regione della Cina: lo Xinjiang. Situato a ovest, al confine con i Paesi dell’Asia centrale, lo Xinjiang è abitato da un’ampia comunità musulmana che da anni denuncia discriminazioni e abusi da parte del governo centrale. Sebbene si tratti tuttora di una delle regioni più povere del Paese, lo Xinjiang è al centro delle politiche di sviluppo condotte da Pechino, sia per la sua strategica collocazione geografica sia per la ricchezza di materie prime.

È proprio nello Xinjiang che viene prodotta gran parte del silicio utilizzato per la realizzazione dei pannelli fotovoltaici; secondo le stime di Bloomberg, circa il 45% delle catene di approvvigionamento globali di silicio policristallino proverrebbe proprio da tale regione della Cina.

Sebbene le autorità cinesi abbiano sempre respinto le accuse di sfruttamento di manodopera a basso costo, attraverso la creazione di campi di lavoro forzato che conterebbero circa un milione di persone, si sta assistendo a una crescente pressione da parte del Congresso Americano e del Parlamento Europeo. La nuova maggioranza democratica del Congresso si appresterebbe, infatti, a varare una legge che vieti l’importazione di beni dalla regione dello Xinjiang, a meno che non venga dimostrato il mancato sfruttamento del lavoro forzato. Analogamente, i membri del comitato per gli Affari Legali del Parlamento Europeo hanno chiesto alla Commissione di introdurre un divieto di importazione per prodotti collegati a “gravi violazioni dei diritti umani”.

Proteste contro il regime militare in Myanmar

Proteste contro il regime militare in Myanmar

A livello internazionale, si registra, dunque, una crescente tendenza a introdurre sempre più stringenti verifiche sotto il profilo etico e reputazionale in relazione all’intera catena di produzione dei beni. A titolo di esempio, già nel 2017, la Francia ha adottato una legge che impone alle imprese l’obbligo legale di intraprendere una due diligence sui diritti umani nelle loro operazioni e nella loro catena di approvvigionamento. Di conseguenza, le aziende francesi che impiegano almeno 5.000 dipendenti in Francia, o almeno 10.000 dipendenti in tutto il mondo, hanno il triplice obbligo di mettere in atto, divulgare e attuare un piano di vigilanza. Secondo la legislazione francese, la due diligence sui diritti umani si estende alle attività dell’azienda, così come alle attività delle sue filiali e delle società che controlla direttamente o indirettamente, ma anche alle attività dei subappaltatori e dei fornitori con i quali l’azienda mantiene un “rapporto commerciale stabilito”. In caso di mancata applicazione della legge, le parti interessate possono chiedere un’ingiunzione per ordinare all’azienda di stabilire, attuare e pubblicare un piano di vigilanza, accompagnato da sanzioni in caso di persistente inosservanza.

Le pressioni internazionali sul rispetto dei diritti umani da parte della Cina sarebbero determinate, almeno in parte, anche da una generale tendenza al ricollocamento di determinati processi produttivi entro i confini nazionali. Nel caso delle energie solari, l’obiettivo delle istituzioni europee sarebbe quello di ovviare progressivamente alle conseguenze provocate dalla rimozione, nel 2012, delle tariffe applicate nei confronti della Cina, favorendo un incremento delle produzioni nazionali.

Complici le conseguenze economiche prodotte dalla pandemia da Covid-19, si sta assistendo, non solo a livello europeo, a una ripresa delle istanze riconducibili al fenomeno del cosiddetto “protezionismo/nazionalismo economico”, spesso motivate da ragioni che attengono all’ambito della sicurezza nazionale (come nel caso del “golden power”), della salute (con riferimento, ad esempio, alla produzione dei vaccini anti-Covid), ecc.

Si tratta di una tendenza destinata a consolidarsi ulteriormente nei prossimi mesi e che produrrà inevitabili conseguenze sull’ambiente economico internazionale, rendendo necessaria un’attività di sistematico e capillare monitoraggio da parte degli operatori privati, volto a minimizzare i rischi o, perlomeno, a limitare eventuali impatti.

Il progressivo superamento dell’emergenza sanitaria provocherà, inoltre, possibili strascichi in ambito sociale, favorendo una generale recrudescenza dei movimenti di protesta (alimentati da condizioni economiche in complessivo deterioramento), con potenziali conseguenze negative sulla stabilità politico-istituzionale, non solo di Stati tradizionalmente caratterizzati da scarse capacità di governance (si pensi, a questo riguardo, a Paesi come Libano e Pakistan), ma anche di nazioni economicamente più avanzate e con una più consolidata tradizione democratica.

I rischi politici appaiono, dunque, destinati a influenzare in misura crescente le dinamiche di business. Occorrerà, tuttavia, un deciso cambio di rotta, anzitutto sotto il profilo culturale, affinché venga definitivamente superata una generalizzata tendenza, specialmente nei Paesi di tradizione non-anglosassone, a relegare tali fenomeni a una dimensione di sostanziale marginalità nei processi di risk management aziendale, complice spesso l’apparente imperscrutabilità degli stessi.

Nell’antica Grecia, i decisori politici erano soliti rivolgersi alle sacerdotesse del tempio di Delfi per ottenere profezie utili a definire azioni e strategie da adottare per far fronte a sfide talvolta di carattere esistenziale. In ambito aziendale, tale ruolo dovrebbe oggi essere ricoperto da un Chief Geopolitical Officer, ossia una figura in grado di orientare le scelte di business, districandosi tra le numerose variabili che caratterizzano il contesto internazionale. Non un oracolo in senso stretto, bensì un professionista dotato di competenze trasversali e della necessaria elasticità mentale, auspicabilmente a diretto riporto dei vertici aziendali.
La capacità di mettere i rischi politici al centro dei processi decisionali avrà una crescente importanza nel determinare il successo delle future strategie aziendali, dunque sarà bene farsi trovare preparati.