La teoria economica di oggi è veramente la più corretta?

scritto da il 10 Marzo 2021

Articolo di Riccardo D’Orsiassegnista di ricerca in Economia presso la Divisione Economica dell’Università di Leeds, analista di Kritica Economica.

È atteggiamento tipico degli economisti convenzionali quello che vede la pretesa di qualificarsi come tecnici che si occupano di “ingegneria sociale”, sulla base di una teoria economica “vera”. Irrispettosi dei principi epistemologici (cioè dei metodi di ricerca) e financo ontologici (riguardanti la concezione del mondo) [1] consentiti dalla natura della propria disciplina [2], che ribadiamo essere una scienza sociale, essi rivendicano per l’economia lo stesso grado di autorità delle scienze sperimentali.

Uno scientismo sfrenato del tipo di cui sopra non può che scaturire da una visione positivista [3], o al più popperiana [4], del processo di evoluzione della scienza economica, per il quale questa è necessariamente destinata a progredire nel tempo attraverso processi di verifica e/o confutazione delle proprie ipotesi.

In questo contributo ci proponiamo di mettere al vaglio l’idea per cui la teoria economica oggi dominante sia necessariamente la più “vera”. Riprendendo le critiche della filosofia della scienza avanzate nella seconda metà del Novecento, mostreremo come il progresso scientifico, e segnatamente l’evoluzione della teoria economica, si sviluppi attraverso paradigmi reciprocamente inconciliabili la cui prevalenza in un determinato contesto storico è strettamente legata agli interessi materiali sottostanti che ciascuno di essi mira a preservare. In questo senso, rivendichiamo la necessità di un’indagine del pensiero economico storicamente fondata, non secondo una prospettiva fine a sé stessa, ma come condizione imprescindibile di verifica della validità di una data teoria economica.

 

La struttura delle rivoluzioni scientifiche

Già nel 1962, Thomas Kuhn aveva aspramente criticato l’idea positivista e popperiana di progresso scientifico [5]. Proponendo un approccio storico e sociologico, Kuhn analizza i processi di rivoluzione scientifica, segnatamente nella fisica, prestando particolare attenzione alle comunità sociali di scienziati, e ai loro indissolubili legami con interessi e valori del tempo – ovvero agli elementi che Gramsci avrebbe raccolto sotto l’espressione “egemonia culturale” [6].

Il quadro che ne emerge è lapidario. Secondo Kuhn, la scienza si evolve nel momento in cui un insieme di idee e pratiche – un “paradigma” – viene generalmente accettato dalla comunità scientifica. Il progresso “normale” della scienza non è altro che il costante tentativo di trovare nuovi sviluppi e applicazioni del medesimo paradigma, sulla base della fede dogmatica che questi sia corretto. Ne consegue che, ogni qualvolta emergesse un contro-argomento del paradigma dominante, questi verrebbe ricondotto nell’alveo della teoria egemonica, o ignorato dalla comunità scientifica.

Kuhn enfatizza inoltre il concetto di “incommensurabilità”, per il quale paradigmi successivi differiscono tra loro a un profondo livello concettuale. Ne consegue che i paradigmi scientifici più recenti non necessariamente restituiscono un grado di comprensione della realtà maggiore e che, come sottolinea lo stesso Kuhn, i motivi per cui una comunità scientifica adotta nuovi paradigmi possono essere tutt’altro che razionali e scientificamente fondati, ma piuttosto legati a fattori quali interessi, personalità, allocazione di finanziamenti e altri elementi di natura storico-sociale.

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L’evoluzione della teoria economica: il ruolo degli interessi e l’importanza della storia del pensiero economico

Se le tendenze di cui sopra valgono per le scienze sperimentali, possiamo facilmente intuire quale sia la portata delle implicazioni della teoria di Kuhn per le scienze sociali, e in particolare per l’economia. Essendo le relazioni socio-economiche l’oggetto d’indagine di tale disciplina, non è possibile creare sistemi chiusi per condurre esperimenti [7], né isolare specifiche formulazioni teoriche dagli interessi materiali del tempo. In questo senso, al fine di verificare la correttezza di un paradigma teorico, mentre per le scienze sperimentali potrebbe apparire sufficiente controllare in che misura le ipotesi assunte nella teoria corrispondano alla realtà attraverso una verifica del processo di deduzione su cui esse si fondano, per l’economia, e per le scienze sociali più in generale, questo non è possibile. Ne consegue che mentre appare plausibile che nelle scienze sperimentali vi sia una tendenza al progresso scientifico secondo una dialettica tesi-antitesi-sintesi per la quale siamo portati a credere che l’ultima formulazione teorica sia tendenzialmente quella più corretta, un simile processo è lungi dal guidare i meccanismi di affermazione dei paradigmi teorici nella scienza economica. Non esiste dunque alcun elemento che lasci di per sé presupporre che la teoria economica ultima sia necessariamente quella più corretta.

Per condurre una verifica di questo tipo, è anzitutto necessario verificare i motivi che hanno determinato l’affermazione della teoria economica egemonica. A tal fine, non è possibile prescindere da un’analisi dei conflitti tra interessi presenti in un dato contesto storico, ed è per questo che è necessario fare riferimento alla storia del pensiero economico. Tale punto era pienamente colto da Piero Sraffa [8], uno dei maggiori economisti del XX secolo [9], nelle sue lezioni all’Università di Cambridge:

“Al fine di comprendere la moderna teoria del valore è necessario avere conoscenza della sua storia. E questo nel senso che la storia non solo è necessaria al fine di comprendere le origini della teoria come è ovvio, ma è anche necessaria per comprendere il suo significato, cioè la natura dei problemi che si propone di risolvere”.

Sraffa (1928-31)[10, traduzione dell’autore]

Ne consegue che la storia del pensiero economico non rappresenta un esercizio intellettuale di ricostruzione fine a sé stesso, ma elemento di indagine fondamentale, funzionale alla comprensione di quali forze abbiano portato all’affermazione di un determinato paradigma teorico in un dato contesto storico, sulla base dei problemi pratici che ci si proponeva di risolvere e dei conflitti tra interessi del tempo. Partendo da tale dato, è possibile tentare di ricostruire il processo che ha portato all’affermazione del paradigma teorico alla base dell’economia oggi dominante.

 

Dall’economia classica all’economia marginalista: genealogia del paradigma economico dominante

Adam Smith e David Ricardo, il cui pensiero è oggi tristemente sempre più distorto da “pugilatori a pagamento” [11, p. 40] sedicenti liberali, sono i padri dell’economia moderna e maggiori esponenti della scuola economica classica [12]. L’economia classica, come quella marxista, adotta un approccio teorico antitetico rispetto a quello oggi dominante [13]. Dividendo la società in tre classi (capitalisti, lavoratori e percettori della rendita), essa riconosce l’esistenza di gruppi di individui con interessi contrapposti che competono tra loro per accaparrarsi una fetta il più possibile ingente di prodotto sociale a scapito reciproco. Secondo l’impostazione teorica classica, la distribuzione del reddito prodotto dipende dunque essenzialmente dagli equilibri di forza tra le diverse classi in un dato contesto storico-sociale.

Il pensiero economico classico si consolida a partire dalla fine del XVIII secolo in un momento in cui l’Inghilterra vedeva gli interessi dei rentier, principalmente proprietari terrieri, contrapposti a quelli delle classi “produttrici”, costituite dalla borghesia capitalistica e dalla classe lavoratrice. Gli economisti classici si collocano dunque all’interno del dibattito politico del tempo e rispondono all’esigenza pratica di eliminare i dazi doganali che, limitando le importazioni e aumentando i prezzi dei prodotti agricoli, avvantaggiavano la classe dei rentier e danneggiavano la classe borghese e quella proletaria. Tale dato emerge chiaramente dalle parole di Ricardo:

“L’interesse dei proprietari terrieri è sempre opposto all’interesse di tutte le altre classi nella comunità. La loro condizione non è mai così prospera come quando il cibo è scarso e costoso; mentre tutte le altre persone sono molto avvantaggiate dal disporre di cibo a buon mercato.” 

Ricardo (1815, p. 21) [14, traduzione dell’autore]

L’elaborazione teorica di Smith e Ricardo fu dunque funzionale a fornire il supporto teorico affinché il mercantilismo venisse abbandonato a favore dell’apertura dei traffici commerciali in un momento in cui il conflitto sociale vedeva contrapposta la classe dei percettori della rendita alle classi produttrici. Sconfitto il mercantilismo, è però un altro conflitto a prendere piede: quello tra capitale e lavoro. È infatti in questi anni che si avvicendano due compagini teoriche che tentano di recuperare le implicazioni della teoria classica per portare avanti le rispettive istanze politiche.

Da un lato, i socialisti Ricardiani usano la teoria di Ricardo per sostenere che siccome il valore è determinato dal lavoro, tutto il prodotto spetta ai lavoratori e il capitalismo rappresenta un sistema ingiusto [15a, 15b]. Dall’altro, i Ricardiani conservatori cercano di difendere la teoria di Ricardo svuotandola delle implicazioni eversive ed anticapitaliste, nel tentativo riportare il capitale all’interno di una giustificazione del profitto basato sull’origine del valore [16a,16b].

La debolezza delle argomentazioni teoriche reazionarie [17, pp. 100-101], tuttavia, impedì il riassorbimento degli interessi della borghesia capitalista all’interno del paradigma classico e finì per prestare il fianco alla critica marxista dell’economia politica. Quest’ultima si fonda sulle intuizioni presenti nelle opere di Ricardo e Smith [18], che in un estratto della sua opera più famosa, che se non se ne conoscesse l’autore parrebbe formulato da un comunista eversivo, scrive:

“Nella situazione originaria che precede sia l’appropriazione della terra sia l’accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità cui dà luogo la divisione del lavoro.”

Smith (1776 [1975, p. 65]) [19, traduzione dell’autore].

Elaborando tale intuizione, Karl Marx formalizza la teoria del valore-lavoro, in base alla quale il valore di una merce è legata al tempo di lavoro necessario a produrla, ed evidenzia come il profitto sia determinato in modo residuale attraverso la sottrazione del costo del lavoro dal prodotto sociale, sottolineando dunque la relazione inversa tra salari e profitti [11]. È facile intuire come la centralità del lavoro nella riflessione di Marx e degli economisti classici portasse a conclusioni con una forte dose di elemento politico, e rischiasse di orientare il conflitto di classe a vantaggio dei lavoratori: un esito che voleva essere ad ogni costo scongiurato dalla retriva borghesia del tempo.

A rispondere a tale esigenza, è la teoria marginalista degli anni ‘70 del XIX secolo, che rappresenta il prodromo del paradigma economico oggi dominante. Gli economisti Jevons [20], Menger [21] e Walras [22], abbandonando infatti l’idea che sia il lavoro a conferire valore alle merci, elaborano una teoria soggettiva del valore-utilità per la quale il valore di una merce dipende dalla valutazione che ciascuno di noi attribuisce ad essa sulla base dei propri bisogni. Partendo da un’analisi micro-fondata sull’azione dell’individuo ed evitando il riferimento esplicito alle classi sociali, questi tre economisti forniscono l’espediente teorico per espungere il tema politico dall’economia, sterilizzare il conflitto di classe, e configurare la distribuzione delle risorse come regolata naturalmente dalle leggi di mercato.

Il ruolo determinante degli interessi politici nell’affermazione della teoria marginalista è evidenziato dal fatto che il concetto di utilità marginale fosse in realtà già stato elaborato con scarso successo nella prima metà dell’Ottocento da Cournot [23], Dupuit [24] e Gossen [25]. In quel momento, infatti, il conflitto di classe era ancora in una fase prematura, e la portata politica e teorica della critica marxista non era ancora pienamente colta.

Nelle sue lezioni di Cambridge, è nuovamente Sraffa a domandarsi quali fattori abbiano determinato il successo politico del medesimo impianto teorico marginalista a pochi decenni di distanza. Come lui stesso ammette, la risposta non poteva ricercarsi nella “stupidità della gente del 1850, quando rigettarono la teoria proposta da Gossen”, e nella “loro intelligenza nel 1870, quando accettarono la stessa teoria proposta da Jevons” [10, traduzione dell’autore].

Richiamando Ashley [26] e Fetter [27], due economisti dell’epoca, Sraffa ricorda dunque come esista “una stretta relazione tra l’emergere del marxismo e l’accettazione straordinariamente pronta che la nozione dell’utilità marginale ebbe tra gli economisti ortodossi” [10]. Negli anni ‘70, le implicazioni anticapitaliste del valore lavoro erano infatti divenute non solo più evidenti grazie ai movimenti politici proletari, ma anche teoricamente molto più solide per via dell’uscita del primo volume del capitale nel 1867 [11].

Negli appunti preparatori alle sue lezioni, Sraffa infatti evidenzia che “quando si manifestarono l’attacco massiccio di Marx, la minaccia dell’Internazionale, la Comune di Parigi, una difesa molto più drastica fu necessaria. L’economia classica divenne nel suo complesso troppo pericolosa, era necessario buttarla via completamente. Era un palazzo in fiamme che minacciava di dar fuoco a tutta la struttura e alle fondamenta della società capitalista – e fu immediatamente rimossa” [28, traduzione dell’autore]. Nelle lezioni di Cambridge, Sraffa conclude poi osservando che “le persone con mentalità conservatrice furono estremamente felici di poter cogliere l’opportunità di liberarsi definitivamente del valore-lavoro nonostante l’enorme autorità che ad essa derivava dalla tradizione degli economisti classici” [10, traduzione dell’autore].

 

Conclusioni: la repressione culturale dell’economia moderna

Nel corso del secondo dopoguerra, corrispondente al periodo d’oro del capitalismo, la minaccia esercitata dal blocco comunista ha consentito alla classe proletaria di mantenere un relativo peso nei rapporti di forza con il capitale, permettendo il raggiungimento di una sintesi social-liberale in campo politico ed economico. Durante tale fase storica, il dibattito accademico in economia si è caratterizzato per un certo pluralismo, il che ha permesso alle teorie critiche di esercitare una significativa influenza decisionale. La critica sraffiana all’economia oggi dominante, in particolare, ha permeato il dibattito accademico negli anni ‘60/‘70 e non è mai stata confutata. La sua validità, e l’incoerenza analitica e teorica dell’economia convenzionale, è stata persino riconosciuta dagli autori marginalisti che tentavano di difenderla – si pensi a Paul Samuelson [29], che riconobbe la fondatezza della critica di Sraffa al termine della controversia tra le due Cambridge [30], salvo poi continuare a portare avanti gli stessi insegnamenti nella completa indifferenza di quanto avvenuto.

In modo analogo, sia la teoria economica di oggi che le istituzioni decisionali, paiono continuare ad ignorare le critiche di un paradigma teorico che è stato dimostrato essere fallace, e che in un qualunque contesto in cui una normale dialettica scientifica fosse operante, sarebbe stato abbandonato da tempo. Sopprimendo nella prassi ogni forma di approccio critico, e relegandone i proponenti ai margini del dibattito accademico e delle istituzioni, la sopravvivenza del paradigma economico dominante è garantita dallo stanziamento di fondi e risorse presso dipartimenti universitari e istituzioni allineate [31], affiancato dalla preclusione alla pubblicazione di contributi critici presso i giornali accademici più titolati [32]. Tali elementi furono già resi manifesti in un estratto di grande lucidità da Luigi Pasinetti, uno dei protagonisti della controversia delle due Cambridge:

Il tipico studente di economia che è entrato nelle università a partire dagli anni Ottanta in poi non ha più sentito parlare delle difficoltà dovute al re-switching, insite nella teoria neoclassica del capitale e della distribuzione del reddito. È come se il dibattito sulla scelta delle tecniche non si fosse mai svolto. Un fenomeno così esteso di diffusa amnesia può solo spiegarsi coi termini più appropriati di soppressioneo rimozione’. Si tratta forse di uno degli esempi più interessanti di quel processo descritto da Kuhn (1962), mediante il quale la scienza ‘normale’ dominante sopprime, e quindi ignora, i casi di contraddizione e di anomalia al suo Interno.”

Pasinetti (2000)[33]

Lo stesso punto è stato più recentemente riformulato da Alessandro Roncaglia:

“Le critiche sraffiane non sono mai state sottoposte a un processo di confutazione teorica, ma semplicemente di rimozione politica: nel clima culturale della rinascita del libero mercato con Reagan e Thatcher, esse furono ignorate assieme alle loro conclusioni riguardo la fallibilità della mano invisibile del mercato, incapace di ristabilire automaticamente la piena occupazione.”

Roncaglia (2017, p. 616) [34, traduzione dell’autore]

L’approccio di Sraffa, che è stato ripreso dal presente contributo e che enfatizza la necessità di ricorrere alla storia del pensiero economico per mettere al vaglio il paradigma economico dominante, permette di ricostruire le ragioni storiche della diffusione di quest’ultimo, oltre che inquadrare i motivi della soppressione sistematica di approcci alternativi, seppur scientificamente più solidi. Sulla scia di tale chiave analitica, non possiamo che individuare nella presa di coscienza collettiva, in particolare da parte delle più giovani generazioni, lo strumento principe per giungere alla deposizione del paradigma economico convenzionale a favore di approcci in politica economica più coerenti nella teoria e più sostenibili nella prassi. Le crescenti disuguaglianze, la compressione della quota salariale, la dilagante instabilità finanziaria: tutti processi in atto da ormai quarant’anni nella maggior parte del mondo occidentale, e ora affiancati dall’imminente catastrofe climatica, sembrano indicare che i tempi sono ormai maturi.

Di fronte a noi, a ostruire il cammino vi sono soltanto alcuni vecchi signori, rigidamente stringati nelle loro finanziere, che hanno bisogno nient’altro che di essere trattati con un pò di amichevole irriverenza e mandati all’aria come birilli. Molto probabilmente la cosa piacerà pure a loro, quando avranno superato il trauma.”

Keynes (1931, pp. 133-134) [35, traduzione dell’autore]

Una diffusa consapevolezza dei meccanismi alla base dei processi di cui sopra, e di come la teoria economica che li giustifica sia lungi dall’essere scientificamente incontestabile, rappresenta il primo passo in tale direzione.

 

Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare ad Attilio Trezzini, Professore Associato all’Università di Roma Tre, per gli utili commenti e per aver messo a disposizione molti degli estratti citati nella pubblicazione “Piero Sraffa’s use of the history of economic thought in the Cambridge lectures”, che ha guidato la stesura dell’articolo.

 

Twitter @osservatorio_ke

 

Riferimenti

[1] Lawson, T. (2010). Really Reorienting Modern Economics. Institute for New Economic Thinking (INET), 10 aprile.

[2] Lawson, T. (1997). Economics and Reality. Londra: Taylor & Francis.

[3] Comte, A. (2009 [1848]. A General View of Positivism. Cambridge: Cambridge University Press.

[4] Popper, K. R. (1970 [1934]). Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza. Torino: Einaudi.

[5] Kuhn, T. (1969 [1962]). La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche. Torino: Einaudi

[6] Gramsci, A. (1975 [1948-1951]). Quaderni del carcere. Torino: Einaudi.

[7] Bhaskar, R. (2008 [1975]). A Realist Theory of Science. Londra: Routledge.

[8] Roncaglia, A. (2012). ‘Piero Sraffa’. In Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Economia. Treccani.

[9] Trezzini, A. (2018). Piero Sraffa’s Use of the History of Economic Thought in the Cambridge Lectures. Italian Economic Journal, 4(1), pp. 189-209.

[10] Sraffa, P. (1928-31). Lectures on advanced theory of value given to students undertaking the economics tripos. Cambridge: Trinity College.

[11] Marx, K. (1980 [1967]). Il Capitale. Libro Primo. Roma: Editori Riuniti.

[12] Cerquitelli, A. (2020). Smith Ricardo Marx: l’origine del pensiero economico – Letture Kritiche. Kritica Economica, 12 ottobre.

[13] Cesaratto, S. (2019). ‘Prima lezione: La teoria del sovrappiù’. In Sei Lezioni di Economia. Reggio Emilia: Diarkos.

[14] Ricardo, D. (1815). An Essay on the Influence of a Low Price of Corn on the Profits of Stock. Londra: John Murray.

[15] Cf. Thompson, W. (1824). An inquiry into the principles of the distribution of wealth most conducive to human happiness. Londra: Longman; e Hodgskin, T. (1825). Labour Defended Against the Claims of Capital. Londra: The Labour Publishing Company Ltd.

[16] Cf. Torrens, R. (1821). An essay on the production of wealth. Londra: Longman, Hurst, Rees, Orme, Brown; e McCulloch J. R., (1828). An inquiry into the nature and causes of the wealth of Nations by Adam Smith. Edimburgo: Adam Black and William Tait.

[17] Cf. Malthus, T. R. (1827). Definitions in Political Economy. Londra: John Murray.

[18] Guerriero, A. (2021). Smith e Marx sono davvero così diversi?. Kritica Economica, 20 febbraio.

[19] Smith, A. (1975 [1776]). Indagine sulla Natura e le Cause della Ricchezza delle Nazioni. Milano: ISEDI.

[20] Jevons, W. S. (1871). The Theory of Political economy. Londra: Macmillan.

[21] Menger, C. (1981 [1871]). Principles of Economics. New York, NY: New York University Press.

[22] Walras, L. (1874). Éléments d’économie politique pure, ou théorie de la richesse sociale. Losanna: Imprimerie L. Corbaz & C.

[23] Cournot, A. A. (2015 [1838]). Ricerche sui principi matematici della teoria della ricchezza. Torino: UTET.

[24] Dupuit, A. J. E. (1952 [1844]). On the Measurement of the Utility of Public Works. International Economic Papers, 2(83), pp. 83-110.

[25] Gossen, H. H. (1983 [1854]). The Laws of Human Relations and the Rules of Action Derived Therefrom. Cambridge, MA: MIT Press.

[26] Ashley, W. J. (1907). The Present Position of Political Economy. The Economic Journal, 17(68), pp. 467-489.

[27] Fetter, F. A. (1915). Economic Principles. New York, NY: The Century Company.

[28] Cf. Fratini, S. M. (2016). Sraffa on the degeneration of the notion of cost. Centro Sraffa Working Papers, n. 21. Roma: Centro Ricerche e Documentazione Piero Sraffa.

[29] Samuelson, P. A. (1966). A summing up. The Quarterly Journal of Economics, 80(4), pp. 568-583.

[30] Kritica Economica (2021). Come il marginalismo ha risposto alle critiche di Piero Sraffa. Sraffa 60, episodio 5, 24 gennaio.

[31] Arnsperger, C. and Y. Varoufakis (2006). What Is Neoclassical Economics? The three axioms responsible for its theoretical oeuvre, practical irrelevance and, thus, discursive power. Panoeconomicus, 53(1), pp. 5-18.

[32] Stockhammer, E., Dammerer, Q., & Kapur, S. (2021). The Research Excellence Framework 2014, journal ratings and the marginalization of heterodox economics. Cambridge Journal of Economics, beaa054.

[33] Pasinetti, L. (2000). Critica della teoria neoclassica della crescita e della distribuzione. Moneta e Credito, 53(210), pp. 187-232.

[34] Roncaglia A (2017) ‘Piero Sraffa (1898-1983)’. In: Cord, R. A. (ed). The Palgrave companion to Cambridge economics (pp. 603-621). Houndmills: Palgrave Macmillan.

[35] Keynes, J. M. (1931). Essay in persuasion. Londra: Macmillan.