Il reddito di cittadinanza come strumento per il digital reskilling

scritto da il 22 Aprile 2021

Gli autori del post sono Mario Lorenzo Janiri, policy analyst presso DG Employment, Country reforms unit, della Commissione Europea, e Marco Buzzonetti, investment analyst presso Entrepreniston 

In attesa di osservare gli sviluppi della campagna di vaccinazione, l’impatto economico del Covid19 in Italia (più che in altri paesi Europei) è stato impressionante. I dati più recenti hanno purtroppo confermato le aspettative di un forte calo del Pil per il 2020 (quasi il 9%), e le attese per il 2021 sembrano indicare una ripresa solamente parziale (intorno al 3,4%). In questo contesto, saranno cruciali gli oltre 200 miliardi destinati per i prossimi anni alla ripresa dell’economia Italiana attraverso il cosiddetto Recovery Plan. Fra le tante aree di investimento che saranno finanziate da questo strumento, promosso dall’Unione Europea, alla transizione digitale dovrebbe andare circa il 20% delle risorse, intorno ai 40 miliardi.

Periodi di lockdown prolungati, per evitare la diffusione del virus, hanno evidenziato il bisogno di accelerare la trasformazione digitale per rendere le attività economiche più resilienti e flessibili. Il lavoro a distanza si è trasformato da espediente per la diminuzione dei costi di ufficio e l’aumento di produttività in una necessità per il mantenimento dell’operatività aziendale. Insomma, ci si è trovati proiettati nel futuro nel giro di poche settimane. Un futuro che vedrà affermarsi una digitalizzazione crescente, dalle attività produttive ai mercati stessi.

Osservando alcuni trend degli ultimi anni, il mondo del lavoro sta già risentendo della forte spinta della digitalizzazione. Secondo l’OCSE, tra il 2005 e il 2016, il 40% dei posti di lavoro creati erano in settori ad alta intensità digitale, mentre circa la metà dei posti di lavoro nei paesi OCSE sono a elevato rischio di automazione (o profonda trasformazione). Di conseguenza, in Europa, il 52% dei lavoratori dovrà aggiornare le proprie competenze lavorative (considerando poi che più del 40% di questi manca delle skill digitali considerate basiche), mentre la domanda di lavoro ad alta intensità tecnologica da parte delle aziende crescerà di oltre il 50%, secondo le stime di McKinsey.

L’Italia fanalino di coda

Nel vortice di questo enorme cambiamento, l’Italia si trova ancora indietro rispetto alle sue controparti in Europa. Nel 2020, si trova al 37esimo posto nella classifica ONU riguardante lo sviluppo dell’e-government, dietro alla maggior parte dei paesi europei. E sempre nello stesso anno, è al quartultimo posto del Digital Economy and Society Index (DESI), l’indice che misura il livello di sviluppo digitale all’interno dell’UE.

 

Gran parte di questo divario è proprio dovuto alla generale mancanza di una forza lavoro attraverso cui affrontare un contesto competitivo sempre più esigente. Prendendo il fattore Capitale Umano all’interno del DESI, infatti, l’Italia si posiziona all’ultimo posto con un punteggio di 32.4 su 100 a fronte di una media europea di 49.3. Questo a causa sia di un basso numero di specialisti ICT e minori laureati in discipline scientifico-tecnologiche, ma anche per una minore conoscenza informatica generalizzata dei propri cittadini (dalla comprensione di dati e informazioni, alla sicurezza fino alla capacità di comunicare online). Senza tra l’altro mostrare segnali di sostanziale crescita negli ultimi cinque anni.

Le iniziative a supporto del digital reskilling

Se la questione delle competenze digitali è cruciale per lo sviluppo digitale del paese, negli ultimi anni sono state prese alcune iniziative per colmare questo gap, sia a livello Europeo che nazionale.

L’Unione Europea, alla luce delle stime che indicano al 52% il numero dei lavoratori europei con la necessità di riqualificarsi, ha messo in campo una serie di iniziative, finanziamenti e programmi di cui l’Italia potrà beneficiare nei prossimi anni. Partendo dall’educazione, ad esempio, il Digital Education Action Plan (2021-2027), promosso dalla Commissione Europea, si prefigge lo scopo di potenziare le skill digitali delle generazioni a venire, attraverso una migliore regolamentazione della didattica a distanza, maggiore cooperazione fra scuole grazie alla rete, formazione digitale per i docenti e utilizzo di certificati comunemente riconosciuti, fra le altre cose. Ci sono poi varie iniziative dedicate alla formazione in età adulta e lavorativa. È il caso della Digital Skills and Job Coalition, dove un numero crescente di organizzazioni (pubbliche o private che siano) si impegnano, oltre al loro normale scopo di azione, a fornire lavoratori, dipendenti e cittadini delle skills digitali necessarie a colmare i propri gap digitali. Oppure del Digital Europe Programme, grazie al quale oltre 600 milioni per i prossimi 6 anni saranno dedicati a finanziare programmi di formazione in tecnologie digitali avanzate per disoccupati e PMI. Altre iniziative da menzionare sono la European Digital Skills and Jobs Platform, il Digital Opportunity Traineeship, che ha finanzia programmi di apprendistato nei settori hi-tech fra diversi paesi europei, e la Women in Digital Initiative.

Ma anche in Italia si sta già muovendo qualcosa, come anche riconosciuto dal recente rapporto DESI 2020. Repubblica Digitale, sotto il dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio, è la strategia per combattere il divario digitale e l’educazione tecnologica in Italia. Coinvolgendo diversi Ministeri attraverso una strategia nazionale per le competenze digitali, si propone di raddoppiare la popolazione con competenze digitali avanzate, triplicare i laureati ICT e azzerare il relativo divario di genere, fra le altre cose. È da qui che nel Luglio 2020 nasce la Strategia Nazionale per le Competenze Digitali, coordinata da Repubblica Digitale stessa, che prevede un ventaglio di oltre 100 azioni che vanno dal potenziamento dell’istruzione e formazione superiore alla trasformazione della Pubblica Amministrazione, favorendo il reskilling della propria forza lavoro. Altri soggetti coinvolti, infine, comprendono associazioni (come l’AICA), il settore privato (vedi per esempio l’iniziativa Binario F from Facebook) e agenzie pubbliche (AGID).

Reddito di Cittadinanza: un’opportunità per il digital reskilling?

Se le iniziative volte a colmare il gap di cui abbiamo parlato possono essere utili in un’ottica più generale, ci sono altre considerazioni da fare. Quando si parla di skill digitali, non si può non tenere in considerazione le differenze fra le classi sociali. Come confermato dall’Istat, per esempio, la sola presenza sul web è dell’86% per chi ha un diploma superiore, contro il 36% di chi è in possesso al massimo della licenza elementare. E lo stesso vale per classi di lavoratori diverse. Altre differenze cruciali si riflettono per classi di età, sesso e livello di salario, ma anche la dimensione geografica è importante. La percentuale di persone che utilizzano il computer tutti i giorni è del 34% nel Nord Italia contro il 25% al Sud e Isole e accade lo stesso per l’utilizzo di internet (57% contro 49 e 53%). Ma non solo. Il progresso tecnologico porterà nei decenni una maggiore automazione e polarizzazione del lavoro (come illustrato da economisti come Acemoglu e Autor). E questo rischia di esacerbare ulteriormente disuguaglianze economiche e sociali. Insomma, considerando quanto detto, il pericolo è che la stessa corsa al digital reskilling possa essere un’opportunità solo per chi corre già veloce, mentre le fasce più deboli della popolazione restano indietro, frenando la crescita inclusiva del paese.

Le problematiche sopra descritte sono le stesse che, in parte, si è posto uno strumento tanto ambizioso, quanto dibattuto in questi anni: il Reddito di Cittadinanza (RdC). Introdotto nel 2019, è un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari, generalmente associato ad un percorso di reinserimento lavorativo. Non solo lotta alla povertà, quindi, ma anche un’opportunità contro la disoccupazione. Ed è proprio in questo contesto che si inserisce la digitalizzazione. I dati Istat raccontano che il 61% dei disoccupati in Italia usa Internet tutti i giorni, e di questi solo il 26% usa il pc, proprio mentre ¾ delle imprese non trovano laureati con le skill digitali che necessitano. Se i programmi di training e riconversione digitale sono destinati a chi già ha la fortuna di essere inserito nel proprio contesto lavorativo, si rischia di tralasciare chi subisce maggiormente questo divario di competenze, ossia i disoccupati. Bisogna poi tenere conto che chi non possiede determinate skills digitali potrebbe avere una visione distorta delle proprie competenze (o del mercato del lavoro), oltre che non avere interesse nei confronti delle opportunità digitali. Il 25,5% delle famiglie italiane, infatti, non considera Internet uno strumento utile e interessante, e solo il 16% degli italiani ha cercato lavoro tramite internet, mentre l’8% ha svolto un corso online nel 2019. Una ricerca di Oliver Wyman e FutureDotNow ci mostra che generalmente le persone senza competenze digitali chiave non vedono questo “gap” e quindi non hanno incentivo a formarsi per conto proprio.

È in quest’ottica che il RdC dovrebbe essere utilizzato non solo come un sostegno, ma anche come “spintarella” (nudge) per ottenere risultati di più larga scala. Si potrebbe immaginare, ad esempio, di rendere obbligatori o incentivare maggiormente corsi volti ad aumentare le competenze digitali dei beneficiari, diversificando per diversi profili (un giovane disoccupato potrebbe maggiormente beneficiare di corsi di programmazione, ad esempio, mentre un disoccupato con esperienza pregressa di corsi per affinare l’utilizzo di alcuni programmi basici). Magari proprio grazie all’esperienza che stiamo vivendo in questo periodo con la formazione a distanza. Tutto ciò potrebbe essere garantito dai Comuni, dai Centri per l’Impiego, anche attraverso incentivi e partnership con aziende e organismi non-profit del settore (sul modello degli assegni per il lavoro della Regione Veneto).

Il Reddito di Cittadinanza, al momento, non prevede ancora niente di tutto ciò. I corsi di formazione attraverso il c.d. Patto di formazione, infatti, sono forniti dai CPI tramite l’ausilio di enti bilaterali e fondi interprofessionali, ma non c’è una strategia specificatamente rivolta alla riconversione digitale. Ci sono delle eccezioni, tuttavia sono ancora iniziative locali. Come “Riparti con l’Export”, un corso di export e comunicazione digitale offerto ai percettori del Reddito in Abruzzo. Se consideriamo che la maggiore criticità riscontrata nel Reddito di Cittadinanza sta proprio nelle politiche attive del lavoro, pensare a una sistematizzazione della formazione digitale che sia condizionale al sostegno può risultare ancora più importante. Per citare solo alcuni dati, solamente il 65% dei CPI italiani offre servizi di rinvio alla formazione professionale e tra di essi il 58% segnala criticità nel fare ciò. Tuttavia, a ciò si deve aggiungere che solo il 7,7% dei percettori del reddito ha come obiettivo l’intraprendere un corso di formazione, in quanto reputano di avere già le competenze necessarie.

In considerazione del gap digitale italiano, focalizzarsi sulla riconversione e il reskilling di una parte della forza lavoro può essere un’enorme opportunità. Il Reddito di Cittadinanza può, anche se parzialmente, porre rimedio a questo fenomeno, per di più aiutando chi ne avrebbe maggiormente bisogno per la propria condizione socio-economica. Estendere e rendere obbligatori percorsi formativi ad hoc cambierebbe la condizione di una buona parte di chi percepisce il sussidio. Questi ultimi, resi partecipi di un reale progetto formativo in cui possano scegliere i corsi a loro più adatti dopo un’attenta valutazione degli sbocchi lavorativi a breve e a medio-lungo termine, potrebbero vedere ridotto il proprio svantaggio competitivo in un mondo sempre più dinamico. E così il RdC inizierebbe ad assumere una forma più simile a l’ambizione che lo ha fatto nascere, con benefici per tutti.

Twitter @MJaniri