La transizione energetica: un clamoroso regalo a Mosca e Pechino?

scritto da il 15 Maggio 2021

L’autore del post è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Autore di “La decarbonizzazione felice” 

Negli ultimi anni abbiamo visto i leader occidentali assumere impegni sempre più ambiziosi e onerosi in materia ambientale. Al contrario, la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping sono riusciti a trasformare la transizione ecologica in un affare colossale, in cui i soldi ce li mettiamo noi. E, a ben vedere, si tratta di un gioco di prestigio di alta scuola, dato che Mosca è il maggior produttore di combustibili fossili al mondo e Pechino da sola emette più anidride carbonica degli USA e dell’Europa messi assieme.

Ma andiamo con ordine.

In concomitanza con l’ultimo summit sul clima la Russia ha annunciato di voler mettere sul mercato i crediti di carbonio delle foreste siberiane. Cosa sono i crediti di carbonio? I crediti di carbonio sono assorbimenti di anidride carbonica certificati che vengono impiegati per compensare emissioni difficili da abbattere (hard-to-abate). Esempio: nel corso di un anno 100 chilometri quadrati di foresta russa assorbono 100.000 tonnellate di anidride carbonica, che possono essere utilizzati per annullare le emissioni di un grosso cementificio (per quello da anni oramai si parla di “emissioni nette zero” e non più di “azzerare le emissioni”: si intende emissioni – assorbimenti = zero).

Questo significa che ci apprestiamo a pagare quello che prima era gratis, gli assorbimenti delle foreste siberiane. E non parliamo di spiccioli: alle quotazioni attuali sul mercato europeo dei crediti di carbonio per Mosca si tratterebbe di un business da almeno 80 miliardi di dollari l’anno. Tanto per offrire un punto di riferimento, nel 2020 la Russia ha esportato petrolio per un valore di 75 miliardi di dollari.

Tra l’altro, gli USA sembrano perfettamente consapevoli di qual è il gioco del Cremlino, tant’è che Biden all’indomani del summit ha elogiato più volte gli impegni di Putin sul fronte del “carbon removal” (gli assorbimenti), senza fare alcun riferimento a un eventuale programma russo di riduzione delle emissioni. La narrativa ambientalista mette con le spalle al muro persino il leader democratico più potente della Terra, costretto a fare buon viso a cattivo gioco nonostante le crescenti tensioni con il Cremlino.

schermata-2021-05-14-alle-18-43-05

Fonte: Reuters

Anche la Cina pianta alberi ma non ha intenzione di vendere crediti di carbonio. Pochi mesi fa un team di ricercatori coordinato dall’Accademia delle Scienze (sotto il controllo del governo) ha pubblicato uno studio su Nature in cui stima che già oggi le foreste cinesi annullano il 45% delle emissioni della Repubblica Popolare.

Il messaggio è chiaro: all’improvviso, tra qualche anno, la Cina comunicherà ufficialmente al mondo di aver abbattuto la metà o più delle emissioni di CO2 sulla base di stime arbitrarie e discutibili della capacità di cattura delle sue foreste. Con buona pace di credeva veramente che Pechino avesse intenzione di azzerare la sua industria del carbone.

Ma per la Cina l’affare vero non sono le foreste.

Da una parte, infatti, Pechino passa all’incasso sul fronte delle tecnologie verdi: le filiere delle due principali componenti della transizione ecologica, i pannelli solari e le batterie, sono saldamente in mano ai cinesi. Questo significa che le centinaia di miliardi di investimenti europei e statunitensi in rinnovabili e mobilità elettrica finiranno in tasca a Trina Solar o Camel Group, colossi industriali controllati direttamente dal governo cinese.

La Cina domina la catena del valore globale delle batterie (in alto) e controlla tre quarti della produzione mondiale di pannelli solari 

schermata-2021-05-14-alle-18-47-08

Fonte: Bloomberg, Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA)

Non solo. Due decenni di pratiche commerciali irregolari (dumping) e di politiche industriali “creative” hanno drogato il mercato, che si è assestato su prezzi irragionevolmente bassi. Di conseguenza, oramai non esiste alternativa alle forniture cinesi, a meno di non rassegnarsi a un balzo dei costi di produzione, che però congelerebbe la transizione energetica. Un cappio al collo, insomma.

Il 40% della materia prima di base dell’industria fotovoltaica mondiale proviene dai “campi di rieducazione” degli Uiguri, nella provincia cinese dello Xinjiang. L’impiego di lavoratori forzati ha garantito un impareggiabile ribasso dei costi di produzione cinesi

schermata-2021-05-14-alle-18-48-29

Fonte: Guardian

Dall’altra parte, la Cina passa all’incasso anche sul fronte delle tecnologie fossili: mentre le democrazie occidentali si imbarcano in una complicatissima e costosissima ristrutturazione dei rispettivi sistemi produttivi, la Cina continua indisturbata a installare centrali a carbone, con cui poi ci fa concorrenza sul prezzo dell’energia.

Prezzo dell’energia per usi industriali $/MWh

schermata-2021-05-14-alle-20-49-00

Fonte: OCSE, China Briefing

Si ripropone lo stesso schema che ha permesso l’exploit cinese agli inizi del millennio: sapevamo che esternalizzare la produzione di componentistica elettronica in Cina non era saggio, perché avremmo regalato a un regime autoritario con un’antica vocazione imperialistica delle tecnologie strategiche. Ma ci si guadagnavano così tanti soldi che nessuno è riuscito ad arginare le ambizioni della Silicon Valley e di Wall Street, assicurando a Pechino un balzo tecnologico di almeno vent’anni.

Oggi, di nuovo, siamo perfettamente consapevoli che mettere la nostra infrastruttura energetica in mano ai cinesi non è una scelta lungimirante ma nei mercati finanziari c’è troppa liquidità mentre i rendimenti scarseggiano, quindi nessuno riesce ad arginare l’esuberanza dei fondi e delle banche d’affari. Che, oltretutto, espongono il sistema finanziario a un crescente rischio di bolla.

Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli allarmi-bolla

schermata-2021-05-14-alle-20-49-19

Fonte: Bloomberg, Forbes

Ma stavolta il tessuto produttivo ribolle. Almeno in Europa, infatti, stiamo progettando un continente-museo, un ospizio per gli anziani più facoltosi del pianeta, un’oasi dove respirare aria profumata mentre il resto del mondo brucia. E anche questo è un altro gol per Putin e Xi Jinping: un simile disegno strategico è destinato ad alimentare le tensioni sociali, rendendo i nostri sistemi sociopolitici instabili e vulnerabili. Inutile elencare i motivi, basti ricordare che già oggi in Germania l’immigrato che vive in un monolocale finanzia con la sua bolletta il proprietario di una villa milionaria con l’impianto fotovoltaico sul tetto.

Il colpo grosso, però, Mosca e Pechino lo fanno dal punto di vista strategico.

Infatti, mentre con la Cina e con la Russia concordiamo politiche climatiche pericolose e svantaggiose, con i Paesi in via di sviluppo facciamo la voce grossa.

Non ci pensiamo, perché abbiamo difficoltà a metterci nei panni di chi guadagna meno di 100 euro al mese, ma quando bandiamo l’olio di palma mettiamo a rischio il 10% delle esportazioni indonesiane e il 7% di quelle malaysiane. Quando congeliamo l’accordo di libero scambio con Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay per il disboscamento dell’Amazzonia togliamo almeno un punto di PIL l’anno a 800 milioni di persone.

Le ragioni per cui adottiamo queste misure sono sacrosante: le foreste tropicali sono il vero tesoro del nostro pianeta, la biodiversità che caratterizza quegli ecosistemi è il distillato di quattro miliardi di anni di evoluzione biologica. Anche in un’ottica perfettamente egoistica non ci possiamo permettere di dilapidare quel patrimonio, mano a mano che progrediremo nella comprensione della genetica quei miliardi di “esperimenti naturali” si dimostreranno preziosi.

Ma i mezzi sono brutali, iniqui, controproducenti. Tanto per dirne una, ci dimentichiamo che i legnami pregiati che tagliano in Brasile e in Indonesia li compriamo noi, per rifare il parquet del salone.

Le accuse di neocolonialismo, da Brasilia a Giacarta, si moltiplicano ed è difficile dargli torto: stiamo cercando di imporre a decine di economie in via di sviluppo politiche che le penalizzeranno, sfruttando la nostra influenza economica.

6072759 13.11.2019 Chinese President Xi Jinping, right, shakes hands with Russia's President Vladimir Putin during a meeting on the sidelines of the 11th BRICS Summit, in Brasilia, Brazil. The leaders of Brazil, Russia, India, China, and South Africa will discuss the current state and prospects of cooperation within BRICS, including issues related to economic, financial and cultural cooperation. Topical international matters, the situation around armament control and joint efforts to counter terrorism will also be discussed. Ramil Sitdikov / Sputnik (Photo by Ramil Sitdikov / Sputnik / Sputnik via AFP)

Il presidente cinese Xi Jinping, a destra, stringe la mano al presidente russo Vladimir Putin durante l’undicesimo summit dei Brics, a Brasilia (foto Sputnik via AFP)

Cina e Russia, al contrario, stanno moltiplicando gli sforzi diplomatici ed economici per accreditarsi come potenze benevole, che rispettano la sovranità dei loro partner commerciali (anche se in realtà li avvinghiano in rapporti di crescente dipendenza che, prima o poi, ne strangolano l’autonomia).

Per la prima volta da molti decenni oramai il blocco atlantico è sempre più isolato a livello globale e la transizione ecologica rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso, spaccando il mondo in due: i Paesi ricchi da una parte, le economie emergenti e i Paesi in via di sviluppo dall’altra.

Oggi, infatti, progettiamo di imporre a Paesi in cui metà della popolazione non ha abbastanza cibo politiche agricole che ne ridurranno la produzione alimentare. Nel frattempo, però, ci premuriamo di mettere in sicurezza l’approvvigionamento di ortaggi e frutta dall’Africa e dal Sud America, così da essere sicuri di avere fragole fresche anche a dicembre.

Da fuori ci guardano come spietati predatori, non certo come eroi.

E questo, presto a tardi, si trasformerà in un gigantesco problema strategico per l’Occidente.

Twitter @enricomariutti