Lo scontro sociale (e immobiliare) che deciderà il futuro della grande città

scritto da il 16 Giugno 2021

L’ultima relazione di Bankitalia contiene, come di consueto, un breve approfondimento dedicato all’andamento del mercato immobiliare che nell’anno orribile del Covid è andato peggio di prima ma meglio di quanto si potesse immaginare. Le compravendite sono diminuite, in gran parte nella prima metà dell’anno, quando il lockdown in pratica impediva l’attività degli agenti immobiliari, ma nel secondo semestre c’è stata una certa ripresa che ha riportato un po’ di sereno in un settore strategico della nostra economia.

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Le prospettive non sono ancora entusiasmanti, come si può osservare dal grafico in alto a destra. Dalle varie indagini campionarie si deduce che gli operatori vedono ancora diversi mesi in chiaroscuro prima che la domanda e l’offerta tornino a incontrarsi riportando i prezzi su un trend di crescita duraturo.

Ma aldilà del dato economico, è la tendenza sociale emersa a meritare un approfondimento. Sia nel secondo semestre 2020 che dalle rilevazioni dei primi mesi del 2021 emerge con chiarezza la preferenza degli acquirenti per i centri minori, dove la domanda di abitazione è stata elevata, a differenza di quella nelle grandi città. “Il recupero delle transazioni negli ultimi due trimestri del 2020 ha riguardato soprattutto le abitazioni indipendenti e quelle di maggiore dimensione, in prevalenza collocate nelle aree a bassa densità abitativa”.

Ovviamente è prematuro trasformare una preferenza in una tendenza, tantomeno in una tendenza di lungo periodo. Ma sarebbe un errore sottovalutarla. Come nota opportunamente la Banca, “poiché l’acquisto di un immobile è una delle scelte economiche più importanti (e meno frequenti) delle famiglie, e riflette dunque anche considerazioni di lungo termine, le variazioni già osservate delle preferenze suggeriscono che almeno una parte dei nuclei valuti le nuove modalità lavorative come non transitorie”.

Alla base di questa ricomposizione ci stanno i cambiamenti indotti dalla pandemia, smart working in testa. Che evidentemente molti nuclei familiari giudicano come definitivo, al punto da orientare le proprie scelte di investimento verso i centri che, con minore spesa, possono garantire un miglioramento: una casa più grande, o magari indipendente; un giardino o magari un garage che liberi dall’incubo del parcheggio. E tali orientamenti “potrebbero mantenersi anche in futuro, soprattutto se le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro divenissero o fossero ritenute in prospettiva permanenti”.

Il problema è che questa possibile trasformazione si compie ai danni della grande città. Nel 2020, sottolinea la Banca “la distribuzione della domanda nel contesto geografico dei sistemi locali del lavoro ha registrato una netta ricomposizione dalle zone più centrali a favore di quelle periferiche”. Si è invertito insomma un trend che andava avanti da lungo tempo. Su questa scelta probabilmente incide anche il vincolo di portafogli: non tutti possono permettersi di comprare una casa nella grande città e tantomeno nella zona centrale. Però è un fatto che fino a prima del Covid questo vincolo veniva eluso o con un maggiore indebitamento, o con pretese più basse per l’immobile.

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La pandemia, invece, ha cambiato proprio questo orientamento. È evidente che se questa tendenza divenisse persistente, per le economie delle grandi città si potrebbe preparare un periodo molto difficile. La metropoli, come scriveva Lewis Mumford negli anni ’30 del XX secolo, vive soprattutto dei profitti della congestione, che, fra le altre cose, implica una costante rivalutazione della rendita immobiliare. I frutti di questa rendita, scriveva l’urbanista-sociologo, vengono in gran parte raccolti dai ceti più ricchi, che anche grazie ai vantaggi offerti dalla metropoli hanno costruito la loro fortuna.

Seguendo la linea di questo ragionamento, l’esodo dalla grande città rischia di far scoppiare una bolla che si gonfia da decenni, per non dire da secoli, ossia da quando si è imposto il modello delle metro-megalopoli, delle quali l’esempio più lampante è quello delle capitali, che attraggono masse crescenti di cittadini con la promessa di opportunità che poi si sostanziano in notevoli oneri, a cominciare da quelli immobiliari, e faticose transumanze quotidiane nel tragitto casa-lavoro che rubano ore di vita e generano costi economici (e quindi ricavi per qualcuno) ed esternalità ambientali.

Il fatto che Mumford ne scrivesse un secolo fa non vuol dire che il problema sia stato risolto: al contrario. Gli interessi costituiti attorno alla capacità delle grandi città di generare ricchezza, in sostanza per quelli che sono già ricchi – un aspetto della diseguaglianza raramente sotto i riflettori –, hanno costantemente impedito che si generassero nuovi modelli di convivenza. L’esperienza Covid, semmai, ha solo permesso di ricordare a molte persone che la qualità della vita significa anche poter disporre di spazio, aria e acqua buona e città più a misura d’uomo nelle quali, come hanno scritto in molti, in un quarto d’ora si riesce ad arrivare dovunque. Le città giardino dei primi del XX secolo, per fare un esempio.

Per la grande città, quindi, e insieme per i ceti che devono a lei la loro fortuna, la tendenza a decentrarsi di molti che, grazie al lavoro agile, neanche dovranno più sottoporsi alla corvée del pendolarismo, è una autentica minaccia esistenziale. Lo smart working, infatti, oltre a spostare le famiglie fuori dai grandi centri urbani, diminuisce anche la domanda di immobili direzionali e commerciali, oltre alla domanda di servizi che prosperano nell’affollamento cittadino: si pensi ai bar popolati dai pendolari nelle pause pranzo. Il tutto implica una costante erosione delle base fiscale della metropoli che ne rende insostenibile l’amministrazione e quindi, in sostanza, la stessa sopravvivenza. La cronache di qualche anno fa raccontavano la desertificazione di Detroit e gli effetti deleteri vissuti dalla municipalità. Di recente qualcosa del genere si è visto anche a New York.

Compans Caffarelli

Insomma l’esodo dalla grande città, in nome di una maggiore vivibilità, significa innanzitutto l’impoverimento della grande città a vantaggio dei centri più periferici. Significa il miglioramento della vita di alcuni a svantaggio di altri che finora hanno approfittato delle varie rendite, a partire da quella immobiliare, generate dalla metropoli.

Il problema è capire se le esigenze di chi vuole vivere meglio avranno la meglio su chi vuole mantenere lo status quo. Lo scontro politico ormai è in atto. Si tratta di capire se la classe media e medio-alta che può fare smart working – abbiamo visto che questo “privilegio” è limitato solo a una minoranza di chi lavora – avrà forza sufficiente per trasformare la preferenza in una tendenza. O se magari i pochi che vivono già una condizione abitativa soddisfacente nella grandi città, perché magari possono permettersi una villa in centro, basteranno a frenare l’esodo che mina il valore dei loro asset.

Il fatto che gli aspiranti smart worker siano probabilmente più numerosi dei pochi che lucrano sul modello della grande città non garantisce che avranno la meglio. Anzi, la storia, solitamente scritta dalle élite, suggerisce il contrario.

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