Enea Tech, come disperdere fondi pubblici nelle startup (e come non farlo)

scritto da il 14 Luglio 2021

Ultimamente ha fatto molto discutere la decisione del Ministro dello Sviluppo Economico Giorgetti di rivoluzionare, a neanche un anno dal lancio, la Fondazione Enea Tech, a cui il governo Conte 2 aveva affidato un fondo per il trasferimento tecnologico di 500 milioni di euro per l’investimento in startup e PMI innovative.

Con l’articolo 31 del decreto Sostegni bis, il MiSE ha ristrutturato nome, obiettivi, statuto, interlocutori, organi direzionali e finanze della Fondazione, che dopo un anno di operatività non era riuscita a investire neanche un euro dei 500 milioni a disposizione. Ora, con il decreto Sostegni bis, Enea Tech si trasforma in Enea Biomedical Tech, specializzata nel settore biomedicale e della telemedicina, con un fondo di 200 milioni destinati al potenziamento delle iniziative di ricerca per sviluppo di farmaci e vaccini. Sin dall’origine, tanti sono dubbi che ruotano attorno alla mission e all’utilità di tale fondazione.

In primis, la discrezionalità dei contributi che possono essere assegnati attraverso il fondo: da 200 mila fino a 15 milioni di euro. Una forchetta singolare per investimenti legati al primo ciclo di vita di un’impresa, i quali sono solitamente di importo contenuto (in media in Europa non superiore al milione) a fronte di un’alea del rischio estremamente elevata. Inoltre, ci si chiede quanto è utile segmentare i veicoli statali e para-statali di investimento in capitale di rischio in più apparati. Ad esempio, la Fondazione Enea Tech e il Fondo Nazionale Innovazione di CDP (attivo anch’esso da un anno ma già con oltre 400 milioni di capitale allocato) hanno la stessa mission. Quando le risorse sono poche, sarebbe meglio non disperderle. Infatti, nonostante l’insieme delle iniziative statali per il supporto e promozione dell’innovazione sia ingente (alle due entità citate sopra, si aggiunge con i relativi fondi anche ItaTech), a scarseggiare è proprio il capitale di rischio. Nel 2020 l’ammontare investito totale in venture capital in Italia è stato di 595 milioni di euro, contro i 10,2 miliardi del Regno Unito, i 5,4 della Germania e i 4,4 della Francia.

In questo articolo non entreremo nel merito di quanto sia conveniente creare diversi “cloni” per efficientare gli investimenti in capitale di rischio. Di certo, c’è un effetto positivo sull’ottenimento di consenso politico immediato, il quale però può esser messo a rischio da quelle strutture – come Enea Tech – che essendo in parte private non forniscono la trasparenza necessaria per monitorare il processo di assegnazione dei contributi. Invece, cercheremo piuttosto di capire, seguendo le evidenze scientifiche a disposizione, come dovrebbero essere impiegati i fondi pubblici per massimizzare l’efficienza delle risorse investite.

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Le evidenze della ricerca

La letteratura economica sul tema del supporto pubblico alle startup è relativamente limitata. Il soggetto pubblico può intervenire essenzialmente tramite due modalità: allocando risorse finanziare a fondi di investimento gestiti direttamente dal soggetto pubblico – come nel caso di Enea Tech – oppure apportando capitale a fondi privati, tipicamente di venture capital. In entrambi i casi è fondamentale valutare l’efficacia delle risorse investite e comprendere perché l’intervento pubblico sia necessario.

Secondo la ricerca economica, l’impiego di capitali pubblici a supporto del venture capital è finalizzato alla riduzione degli effetti di due fallimenti di mercato. Il primo riguarda la carenza di risorse finanziarie. Come dimostrano alcune evidenze empiriche, le startup affrontano problemi sostanziali di asimmetria informativa e il loro finanziamento richiede competenze specifiche. Tali difficoltà possono generare una insufficienza di offerta di capitali privati che può essere colmata tramite fondi pubblici. Il secondo fallimento di mercato riguarda l’insufficiente generazione di innovazione. In assenza di forti e adeguate tutele alla proprietà intellettuale, le invenzioni delle startup potrebbero essere facilmente copiate dalla concorrenza, portando a un disincentivo a raggiungere un livello efficiente di innovazione nell’economia. Il supporto pubblico a imprese altamente innovative sarebbe quindi giustificato dalla creazione di “spillovers”, ossia effetti positivi della maggiore innovazione verso il sistema economico, tramite una riduzione del costo di finanziamento grazie all’impiego di capitali pubblici.

Al fine di comprendere quanto può essere effettivamente utile l’attività diretta di investimento pubblico in capitale di rischio, è interessante confrontare la performance delle “exit” – ossia della vendita o acquisizione – effettuate dalle imprese che hanno ottenuto almeno una parte dei loro finanziamenti da venture capitalist governativi con quelle che hanno ricevuto finanziamenti solo da venture capitalist privati. Secondo Brander et al. (2010), solo una modesta quantità di risorse finanziarie pubbliche sembra migliorare le prestazioni delle iniziative imprenditoriali rispetto alle iniziative supportate esclusivamente da venture capitalist privati, se comparate rispetto al successo nella exit. Invece, alti livelli di investimento da parte dei venture capitalist governativi sono associati a prestazioni più deboli. In definitiva, un po’ di sostegno pubblico nel capitale di rischio sembra essere una buona cosa, ma un sostegno statale eccessivo su attività soggette ad elevata asimmetria informativa e alti costi di monitoraggio porta ad avere un effetto opposto. Questo risultato non dipende dal paese in analisi e nemmeno dal volume di fondi pubblici disponibili. Inoltre, quando l’investimento pubblico è contenuto, le startup hanno maggiore probabilità di raccogliere maggiori fondi durante la propria vita.

Lo stesso studio riscontra una migliore performance dei fondo di venture capital direttamente gestiti dal soggetto pubblico (“government-owned venture capital”) rispetto ai fondi di capitale di rischio privati supportati dal governo con politiche come crediti d’imposta o fondi integrativi (“government supported venture capital”). Un risultato che potrebbe dipendere dalla tendenza dei fondi direttamente gestiti di assumere posizioni maggioritarie rispetto ai venture capitalist privati, ostacolando la collaborazione e in definitiva la performance dell’azienda.

Inoltre, ulteriori recenti evidenze empiriche, mostrano che più l’intervento pubblico diretto nel capitale di rischio è circoscritto su determinati settori tecnologici (quindi maggiore verticalizzazione dell’operatività del fondo) più aumenta il grado di innovazione generato. In tal caso, bene ha fatto il governo a verticalizzare la mission di Fondazione Enea sul settore biotech. In più, l’evidenza scientifica mostra che in media i miglioramenti nelle innovazioni sono particolarmente concentrati nell’insieme di programmi che mirano a finanziare iniziative in fase iniziale del ciclo di vita con la collaborazione dei mercati dei capitali privati. Quindi, sulla base di uno schema di collaborazione tra pubblico e privato, nel caso di Enea Biomedical Tech, la discrezionalità dei contributi erogabili dovrebbe essere rapportata con la dimensione tipica di investimenti in seed financing- durante i primissimi istanti di vita della startup – in modo tale da non investire eccessive risorse su attività ancora in fase di avviamento, considerando anche l’apporto di capitale del partner privato. Inoltre, lo studio di Brander et al. (2010) evidenzia che gli investimenti in venture capital governativi possono giocare un ruolo importante nello stabilizzare i volumi. Infatti,  i settori con un volume di investimenti  minori rispetto alla media del paese – i “mercati freddi” – ricevono una maggiore quota di fondi pubblici rispetto a quelli con volumi maggiori alla media – “mercati caldi” – e si contraddistinguono per un più elevato successo nella fase di exit.

Infine, l’intervento pubblico è solitamente associato, oltre alla performance della startup, anche alla creazione di un sistema economico maggiormente innovativo e concorrenziale, nonché all’aumento dell’occupazione. Eppure, uno studio evidenzia come venture capital pubblici sottoperformino in tutti questi obiettivi rispetto a venture capital completamente privati.

Una piccola proposta per il futuro

Riassumendo: la ricerca evidenzia che l’investimento pubblico nelle startup può essere benefico se il volume dell’investimento è contenuto, se avviene preferibilmente attraverso misure di supporto a venture capital privati, e se vi è una maggiore verticalizzazione nell’investimento. Viceversa, un investimento cospicuo con risorse pubbliche è associato a una minore performance in termini di exit. Un risultato che trova riscontro anche in uno studio canadese: un investimento pubblico significativo può infatti ridurre l’impiego di capitale privato. Per tale motivo, noi di Tortuga (come dettagliatamente esposto nel Capitolo 11 del nostro libro “Ci Pensiamo Noi”) riteniamo utile intervenire con una forma di co-matching pubblico per sostenere gli incubatori e i venture capital, che a loro volta supportano i primi passi di una startup. In sostanza, tale sistema farebbe sì che per ogni euro investito dal privato, il pubblico aggiunge un euro al finanziamento dell’azienda. In tal modo, lo stato scommetterebbe su imprese che hanno già ricevuto la validazione da un fondo di venture capital o da un incubatore, aggirando di fatto l’elevata asimmetria informativa e facilitando il processo di monitoraggio dell’investimento, che di fatto è un arduo compito per un operatore pubblico. Tale misura deve essere accostata dalla garanzia di indipendenza dei gestori del fondo dalla politica nel lungo termine (Lerner, 2020). Infine, la valutazione dell’efficacia della politica di investimento richiede dati che spesso sono mancanti. Per esempio, la raccolta per un periodo di tempo prolungato di dati relativi anche alle startup che non vengono selezionate per l’investimento permetterebbero di capire l’efficacia del programma comparandole ai beneficiari. L’obbligo di monitorare tutte le imprese che richiedono forme di supporto ai programmi pubblici permetterebbe di valutare al meglio l’efficacia di politiche di supporto all’innovazione.