Ma l’italiano esiste ancora? (Do you speak Italian?)

scritto da il 25 Novembre 2021

L’autore del post, Silvano Joly, 55 anni, torinese, guida Syncron in Italia e Spagna. Manager per Innovation Leader come PTC, Reply, Sap, Dassault Systemes e Centric Software, ha lavorato anche con Aziende pre-IPO, start up e collabora con varie Università Italiane. Mentore pro-bono di start-up high-tech è da sempre amico della Piccola Casa della Provvidenza (Cottolengo), il più antico istituto dedicato all’assistenza di persone con gravi disabilità –

Do you speak Italian? L’italiano è una lingua in via di estinzione? In Italia e nel mondo il 2021 è l’anno delle celebrazioni dantesche: ricorrono i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta. Abbiamo visto iniziative e festeggiamenti in tutta Italia ed all’estero. Solo a Firenze, città natale di Dante Alighieri, ci sono stati più di 100 eventi. Studi e convegni, film, documentari, mostre, esposizioni, concerti, produzioni teatrali incontri, danze, balletti e letture integrali della Divina Commedia.

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Ma oggi in molte sale riunioni, riunioni telefoniche e probabilmente anche aule scolastiche il primo canto dell’Inferno della Divina Commedia, potrebbe recitare così:

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Ahinoi, “Il livello è basso” avrebbe detto Riccardo Pazzaglia, che nel suo ruolo tutto speciale di il filosofo di “Quelli della notte“ coniò il gesto, rimasto nella memoria, della mano “sotto il menisco” per indicare che la qualità della conversazione stava scendendo sotto il livello di guardia. Anzi il livello di guardia è stato superato se pensiamo a quanto inglese e non solo sia ormai parte del lessico quotidiano nonostante sia possibile dire le stesse cose usando la lingua di Dante!

La Treccani ci spiega che questo modo di parlare si chiama “Forestierismo” e non ha nulla a che fare con l’esterofilia e tanto meno con la cultura:

“Parola, locuzione o anche costrutto sintattico introdotti più o meno stabilmente in una lingua da una lingua straniera, sia nella forma originaria (per es., l’ingl. week-end) sia con adattamento alla struttura fonetica e morfologica della lingua d’arrivo (per es., bistecca)”

Come spiega la Treccani il “prestito linguistico” è un fenomeno ricorrente e naturale che fa parte della evoluzione di una lingua. Ed un tempo le parole forestiere erano poche. Forse perché l’inglese è diventato la lingua franca nelle scuole, nel mondo della ricerca e delle scienze, in politica ed economia. Anche le serie televisive, internet con tutta la comunicazione mediatica e la pubblicità, hanno aumentato drasticamente il fenomeno, fino a portare all’abuso di parole inglesi.

Sovente in modi che denunciano la grande creatività (e scarsa cultura, sia in Italiano che in inglese) di chi parla: c’è chi usa la parola “suggestione” – che è italianissima – al posto di “suggerimento” derivandola dall’inglese suggestion. O chi ha inventato il vocabolo smart working, (inesistente in inglese, dove si dice work from home), creatura lessicale nata nei mesi bui del confinamento.

Però ci sono pure dei Crociati della lingua Italiana. Eroine ed Eroi che combattono ogni giorno silenziose battaglie a casa, a scuola, in ufficio, usando le alternative italiane per definire i concetti espressi quasi sempre con parole inglesi. Moschettieri dell’ Italiano che indicono una riunione e non un meeting; che non ne parlano con il management ma con il dirigente o in direzione; che chiedono il permesso all’ufficio del personale e non ad HR; che terminano un progetto e non fanno un deployment, redigono una valutazione e non un assessment; inviano un allegato e non un attachment; sono stati a casa durante il confinamento mentre altri erano in lockdown; esibiscono il lasciapassare e non il greenpass; si accreditano in fila con chi fa il check-in

Un tempo la scelta di usare una parola straniera era un vezzo, a inizio secolo si parlava alla francese e si italianizzavano tanti termini: D’Annunzio cambiò il sandwich in tramezzino ed i Pompieri (dal Francese Pompiers) in Vigili del Fuoco. In seguito ed in certe occasioni usarlo è stato un obbligo, ad esempio con parole belliche come Gip (da Jeep) e revolver o le recenti hardware, software, mouse, che in Italia non sono state mai tradotte.

Da qualche anno siamo invece diventati molto pigri: scegliamo le parole straniere perché sono più brevi, (ad esempio parking assistant invece che sensori di posteggio, webcam invece telecamera per computer) per non stancarci a tradurre, per fare prima… ma così si rischia di perdere l’identità, la cultura e la tradizione che ci sono arrivate – bene ricordarlo quest’anno – direttamente dal Sommo Poeta e padre della nostra lingua, Dante Alighieri.

Non ce ne siamo accorti, ma ormai le parole inglesi usate correntemente in italiano sono centinaia. Ed aumentano rapidamente, sebbene quasi tutte abbiano un sinonimo, anche breve, in Italiano. Sono certo molte di più, ma eccone alcune:

Background: sfondo; Backstage: dietro le quinte; Badge: tesserino personale; Cash: contante; Check-up: visita di controllo; Deadline: scadenza; Decoder: decodificatore; Default: impostazione predefinita; Designer: stilista; Editor: redattore; Email: posta elettronica; Fake: falso; Follower: emulatore; Fan: tifoso/sostenitore; Fashion: moda; Feedback: opinione; Fitness: forma fisica; Flyer: volantino; Font: carattere (tipografico); Gangster: criminale/bianconero; Gap: lacuna; Gossip: pettegolezzo; Hall: ingresso; Intelligence: servizi segreti; Know-how: competenze; Location: posto/luogo; Merchandising: materiale promozionale; Mission: missione/obiettivo; News: notizie/novità; Nickname: soprannome; Nomination: candidatura; Outlet: spaccio aziendale; Part-time: a mezza giornata/interinale; Partner: socio; Preview: anteprima; Problem-solving: capacità di risolvere i problemi; Random: casuale; Reception: segreteria/ricevimento; Relax: riposo; Report: resoconto/verbale; Self-control: autocontrollo; Selfie: autoscatto; Sexy: sensuale/attraente; Shopping: acquisti; Staff: personale; Stress: tensione; Store: negozio; Target: obiettivo/traguardo; Team: squadra/gruppo; Test: prova/esame; Trend: tendenza/moda; Wireless: senza fili; Workshop: laboratorio, esperienza diretta.

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Ma questa tendenza porterà alla corruzione irreversibile della lingua italiana?

Ho pensato di chiederlo agli amici di Una Parola al Giorno, che con la loro rassegna quotidiana inviano ogni mattina una parola ai tanti abbonati e ne arricchiscono il vocabolario e probabilmente il cervello, aiutandoli a usare meglio le parole per migliorare la qualità della comunicazione con noi stessi e con gli altri.

Mi ha risposto Giorgio Moretti, scrittore e autore: “Il discorso è complesso. Da un lato è essenziale non lanciarsi in ‘O tempora o mores’ frutto di impressioni di pancia; dall’altro l’acquisizione non adattata di termini inglesi non necessari nella lingua italiana è effettivamente senza precedenti. Tentando di essere persone sagge, e non è facile per nessuno, possiamo provare a capire che cosa ci può dire questa tendenza.

Restando su una riflessione semplice ma solida, questi sono fenomeni che avvengono perché l’uso dell’inglese è percepito come prestigioso — e questo è un dato che va compreso, non si sistema a mazzuolate e geremiadi. Il fatto che ‘sfondo’ o ‘retroterra’ siano spesso considerate opzioni meno preferibili rispetto a ‘background’ è un fatto interessante. Implica che le espressioni italiane siano in una certa misura considerate meno capaci di veicolare significati giusti nel modo appropriato: una varietà provinciale, dappoco.

In linguistica il concetto di ‘varietà’ riguarda le diverse forme di una stessa lingua — ad esempio possiamo parlare delle varietà regionali dell’italiano. Ecco, questo particolare ricorso al lessico inglese esercita il proprio ascendente sulla lingua standard a partire da una varietà impiegata in luoghi di mondo, di potere e ricchezza. Una varietà in cui la manifestazione dell’inglese non è sempre e solo riconducibile alla lingua inglese propriamente detta. Infatti spesso i termini inglesi che farciscono i discorsi della gente d’Italia hanno poco a che vedere con usi internazionali, americani o britannici: molti anglismi non sono mutuati dall’inglese, ma trovate italiane (dal trolley allo smart working).

A una certa sfiducia nei confronti dell’italiano (sintomo di una sfiducia radicata in parti importanti del nostro vivere comune), si accompagna una conoscenza sufficientemente superficiale dell’inglese da renderlo un bacino ideale a cui attingere a piene mani per dare una verniciata arbitraria ai propri discorsi. Come notava De Mauro, probabilmente la raccomandazione migliore contro l’abuso degli anglismi è quella di studiare meglio l’inglese: una migliore conoscenza delle lingue straniere è un ottimo presidio contro i prestiti più goffi e impertinenti.

Se forme inglesi penetreranno sempre più profondamente l’italiano, è difficile a dirsi. Non parlerei comunque di ‘corruzione’. L’Italia è un pontile allungato nel Mediterraneo, e le sue lingue sono tutte meravigliosamente bastarde — non c’è da preoccuparsi del pedigree. Piuttosto: la profumeria fieramente parigina parla francese, perché la moda fieramente milanese parlucchia inglese? C’è da preoccuparsi delle capacità espressive e comunicative delle persone, e se la questione dell’inglese può dirci qualcosa, è che ci manca una certa sicurezza in noi stessi”.

Molto vero quanto dice Giorgio Moretti. E verissimo quanto sia facile incorrere in clamorosi errori: ad esempio quello capitato a questo ristoratore anglofilo ed al suo affamato e determinato cliente. Un fraintendimento che ha dato luogo a questa esilarante conversazione popolare sui social.

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In questo inizio di novembre anche l’Accademia della Crusca ha bocciato, dopo vairus e lockdown, l’anglofono booster – con il significato di una dose di vaccino che accresce e rinnova gli effetti di una inoculazione precedente – suggerendo al posto “richiamo”. Inappellabile il il verdetto espresso dal presidente della Crusca, Claudio Marazzini, professore emerito di Storia della lingua italiana nell’Università del Piemonte Orientale: “Inutile e incomprensibile l’uso di ‘booster’ se rivolto al grande pubblico”. Marazzini ha anche ammonito: “La diffusione indiscriminata e acritica, tramite i media e non solo, della parola ‘booster’ senza l’equivalente italiano, che pure esiste, mostra che ancora una volta si è persa l’occasione di aiutare gli italiani a capire meglio, forse per ‘educarli’ all’abbandono della loro lingua, o per dimostrare che l’italiano non ha parole adatte. E questo non è vero, perché richiamo esiste dal primo Novecento e lo abbiamo sempre usato, per esempio per l’antitetanica, senza che nessuno abbia mai contestato questo termine”.

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Ma visto che tanto l’ Italiano che l’Inglese si imparano a scuola e considerato il rapporto che ha la Scuola con la lingua inglese tra corsi e ricorsi, tra materia minore o prevalente, con la polemica che vide nel 2012 TAR e Corte Costituzionale negare al Politecnico di Milano la possibilità di erogare corsi solo in Inglese, ho voluto anche fare qualche domanda anche a un “Prof”: Rinaldo Rinaldi, professore di Ingegneria Gestionale e Meccanica all’Università degli Studi di Firenze. Ecco le sue riflessioni.

“Le mia materie di insegnamento sono Gestione della Produzione Industriale, Logistica Industriale e Gestione integrata della produzione e logistica, che in inglese sarebbe Supply Chain Management. Ecco forse questa è già una prima risposta alla domanda… Per certi ambiti inglese e acronimi a 3 lettere sono in effetti quasi d’obbligo! Questo è maggiormente vero se penso agli studenti dei corsi magistrali, dal terz’anno in poi, per non citare quelli stranieri che in facoltà come la nostra sono molti e, ancora, immaginando l’esito occupazionale, che spesso è in contesti internazionali. Personalmente ho scelto di adottare diverse interfacce e lessici a seconda dell’interlocutore con cui mi relaziono: ritengo infatti che con alcune aziende l’uso di termini stranieri vada ridotto mentre con altre è necessario. Mi ritrovo un po’ a fare come gli ampelografi, che studiavano i vari vitigni uniformandone la nomenclatura: mi ritrovo così a spiegare di cross docking in aula e di gestione dei flussi in un’azienda che mi chiede aiuto per ottimizzare la gestione della logistica distributiva. In effetti l’uso – anche tecnico – di lingue diverse richiede prima di tutto una cultura della materia che si tratta e poi la scelta dell’idioma per spiegarla. Si diventa così un po’ camaleonti del dizionario ma con un solido vocabolario, usando cum grano salis le parole nazionali o straniere ed anche il buon vecchio Latino!”.

Avendo iniziato con il Sommo Dante e già citato l’Accademia della Crusca in conclusione voglio citare il suggerimento del suo presidente onorario Francesco Sabatini, che vengono riportate dalla Dante Alighieri Society: “Sei veramente padrone del significato di quel termine? Lo sai pronunciare correttamente? Lo sai anche scrivere correttamente? Sei sicuro che il tuo interlocutore lo comprenda?”. Se non siamo sicuri di rispettare tutte queste condizioni certo stiamo facendo una brutta figura oppure usiamo un termine a sproposito o per pigrizia non vogliamo elaborare una frase, ma preferiamo un termine straniero o magari una emoticon!

Twitter @sjoly_ita