Innovazione aperta, perché in Italia è tempo di un salto di scala

scritto da il 23 Dicembre 2021

Post di Michele Petrone, Senior Manager in Intellera Consulting, società di consulenza organizzativa, gestionale e tecnologica al servizio del settore pubblico e privato –

Sono lontani oramai gli inizi del 2000, quando in Italia iniziava a strutturarsi l’innovazione aperta ed il trasferimento tecnologico, nascevano i primi incubatori accademici, si definivano le regole di governance per la creazione di spin-off ed il deposito di brevetti da parte dei ricercatori. Prima di quegli anni il fenomeno c’era, ma era perlopiù spontaneo, magari di ricercatori che avevano avuto l’opportunità di contaminarsi con quanto già si faceva oltre oceano, nell’area di Boston piuttosto che sull’altra sponda di San Francisco.

I numeri sono cresciuti, e tanto. Oggi praticamente tutte le Università hanno un proprio Technology Transfer Office. Si contano intorno ai 4.000 brevetti negli Atenei ed il numero di spin-off viaggia sui 1.400, se non oltre. I numeri dell’ecosistema dell’ innovazione sono scalati nel loro insieme: se allarghiamo la vista alle startup innovative iscritte nei registri saliamo a circa 14.000 e tante altre dimostrano il fermento di tecnologie emergenti e di business model innovativi nel nostro Paese.

Ora serve un salto di scala nell’ecosistema italiano dell’ innovazione aperta. Occorre accelerare nella collaborazione tra il mondo delle startup, degli spin-off, l’ecosistema dell’innovazione tutto, che ha il presidio verticale su domini tecnologici, e le aziende consolidate che sono in grado di farli scalare, per struttura organizzativa, per rilevanza dell’esigenza, per capacità di erogazione di servizi e prodotti.

Tuttavia, ancora oggi questo tipo di innovazione – quella che viene dall’esterno – appare essere considerata perlopiù in una logica “progettuale”: le grandi organizzazioni ci credono, costruiscono progettualità, se ne apprezza tutto il potenziale, ma poi restano stand alone.

VERSO UN APPROCCIO STRATEGICO. Considerati i numeri oramai disponibili, è il momento per passare da una logica “progettuale” ad un approccio “strategico” all’innovazione aperta ed al trasferimento tecnologico. Questo significa pensare alla costruzione di unità e processi aziendali, che stabilmente si occupino di scouting, validazione, adozione delle opportunità che vengono dall’ecosistema dell’ innovazione. Significa investire ed impegnarsi nella definizione di nuovi processi, nella costruzione di network, nella formazione di nuove skills, nella gestione della knowledge con cui ci si interfaccia, nella capacità di utilizzare ed adottare sistemi informativi di supporto.

Tutto questo accade in un periodo storico, in cui si apriranno straordinarie opportunità legate al PNRR. La Missione 1 dedicata all’innovazione – soltanto per citarne una – investe oltre 40 miliardi di euro nell’innovazione tra pubblico e privato. Oltre un quarto dell’intero PNRR.

Non farlo potrebbe essere miope. E non è soltanto una questione di finanziamenti.

Da un lato, l’innovazione esterna costa meno rispetto a sviluppare dall’interno un nuovo prodotto. Nel caso di acquisizione di innovazione esterna, i rischi delle prime fasi di sviluppo – quelli a più alto tasso di fallimento – vengono assunti da altri operatori (ricerca, venture capital, ecc.) che lo fanno per mestiere. La grande organizzazione si approccia quando il prodotto ha già superato le prime validazioni di laboratorio.

Foto di  Ian Schneider su Unsplash

Foto di Ian Schneider su Unsplash

Dall’altro, ignorare questo tipo di innovazione può significare perdere i treni della futura competitività che passa – come ci dice la storia di tanti casi (chi ha qualche anno in più ricorderà che si scattavano le foto con la Kodak o mettevano le video cassette nel registratore) – per la capacità di adottare le nuove tecnologie e guardare a nuovi modelli di business.

Un recente studio della Fondazione COTEC mette proprio in evidenza la correlazione tra livello di investimenti in asset intangibili (proprietà intellettuale, innovazione aperta, più in generale capitale organizzativo) e margini operativi registrati dalle aziende. La rilevanza dell’ innovazione aperta per la competitività delle aziende trova quindi ulteriore conferma negli economics registrati dalle aziende.

LE LEVE PER ACCELERARE QUESTI PROCESSI. C’è una fase, quella del proof of concept industriale, la più delicata di tutte, in cui è stato definito il perimetro di riferimento della tecnologia, si è giunti ad un risultato nei laboratori universitari, ma le aziende ancora non ne percepiscono il valore rispetto alle esigenze.

Giustamente. Perché di fatto la tecnologia in queste fasi è spesso una piattaforma tecnologica, general purpose, con n impieghi potenziali ancora non dimostrati. I casi d’uso sono spesso di laboratorio e limitati. Non è stato ancora validato l’impiego della tecnologia nel contesto della grande organizzazione, secondo i requisiti e le esigenze di questa. È evidente che l’azienda percepisce il potenziale, ma a fronte di operations da mandare avanti, di fronte alla carenza di evidenze di come potrà essere messa a valore quella nuova soluzione finisce per apprezzarla, ma non adottarla.

È in questa fase che c’è da rafforzare il lavoro di ecosistema.

La proposta di fondo è quella di lavorare a percorsi di validazione di tecnologie emergenti e nuovi modelli di business che nascono dalla ricerca e da startup innovative, secondo i requisiti di business definiti dalle organizzazioni consolidate. Mettere a punto strumenti che consentano di verificare la maggiore efficacia comparativa della soluzione proposta rispetto a quelle in essere, il vantaggio competitivo che si produrrebbe per la grande organizzazione.

In questi snodi chiave si possono implementare tutti i vantaggi della collaborazione pubblico-privato.

Tra le università, il mondo delle imprese, le amministrazioni pubbliche, costruendo progettualità comuni: da un lato le università e le startup innovative producono un patrimonio di tecnologie emergenti; dall’altro le grandi organizzazioni – forti di un nuovo approccio strategico all’innovazione aperta – attivano percorsi di validazione al loro interno di queste opportunità. Gli hub dedicati, in queste fasi seminali della collaborazione, favoriscono il lavoro comune.

A CHE PUNTO SIAMO NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI. Storicamente i Governi Pubblici sono i primi finanziatori dell’innovazione di frontiera. Quelle fasi talmente seminali, dove il cosiddetto Technology Readiness Level è molto basso e soltanto l’operatore pubblico, o poco più, è in grado di assumersi i rischi di quella che tipicamente si definisce ricerca sperimentale.

I progetti di ricerca e sviluppo della Commissione Europea, i noti progetti Horizon, ne sono un chiaro esempio ed hanno consentito di sperimentare in contesti applicativi tante tecnologie emergenti. La storia è ricca di questi esempi. Tutti noi che conosciamo il technology transfer oltre oceano, sappiamo che è nato dai forti investimenti del Governo pubblico nell’innovazione di frontiera.

Ora però siamo in una fase in cui i Governi – oltre ad essere finanziatori dell’innovazione – possono essi stessi adottare processi di sviluppo basati sull’innovazione aperta.

Le Amministrazioni hanno l’opportunità di dotarsi di Uffici di Innovazione, che lavorino a nuove logiche di sviluppo ed adozione delle tecnologie nelle organizzazioni pubbliche. Non ci troviamo più di fronte a soluzioni consolidate, ma le stesse Amministrazioni hanno l’opportunità di co-progettare e co-sviluppare le nuove soluzioni con l’ecosistema dell’innovazione che le circonda.

È evidente che tutto questo impatterà su processi e modalità già rodate: si pensi a come dover gestire la proprietà intellettuale di queste nuove tecnologie (brevetti, know-how pregresso, ecc.), piuttosto che alle forme innovative di procurement, più in generale all’evoluzione trasversale di approcci organizzativi e culturali che queste nuove logiche portano con sé.

Una sfida alta ma da cogliere, per le opportunità che ci offre oggi il PNRR, ma anche e soprattutto perché i cittadini – e certamente le nuove generazioni che sono nate con queste tecnologie – si attendono di usufruire di tutto questo potenziale nei nuovi modelli di servizio.