Il mercato della cosa pubblica: tra politica, pescivendoli e macellai

scritto da il 05 Marzo 2022

Si concepisca, anche solo idealmente e per pochi istanti, che le urla d’un pescivendolo o, del pari, quelle d’un fruttivendolo e d’un macellaio, che propongono ai viandanti la propria mercanzia, sovrastino nel tono e nell’intensità quelle d’un oratore che, rivolgendosi a un consesso politico, intenda trattare le urgenze della cosa pubblica. Per l’uomo della società contemporanea, lo sforzo d’immaginazione, molto probabilmente, risulta eccessivo; oggi, una sede di partito è bell’e separata dai luoghi del folklore e dell’essenziale scambio commerciale. Così, indubbiamente, è ancora più difficile sovrapporre ai suoni e alle voci di questa piazza della fantasia il verso grave e salmodiante di qualcuno che, nello stesso tempo, celebri una funzione religiosa.

Pur nella difficoltà di costruzione mentale di un simile luogo di accoglienza e compartecipazione, non possiamo fare a meno di rivedere in questo modo il mercato dell’antica Roma, ovverosia lo spazio di massima concentrazione dell’esperienza sociale dell’epoca. In altri termini, la piazza, patrimonio socio-economico nato nelle pòleis greche ed ereditato, talora anche indirettamente, cioè senza una vera e propria successione materiale, dai popoli di tutta l’area mediterranea, è, prima di tutto, un agglomerato urbano in cui incontro, mediazione e contrattazione erano i fondamenti d’un’esistenza di comunione.

Piazza e mercato, pertanto, in queste origini greco-romane, erano la stessa cosa, sebbene l’identificazione, adesso, possa configurarsi attraverso una consistente metonimia. I secoli di questa genesi sono il IV e il III a. C. Per la precisione, nelle origini greche, l’attività politica era ancora separata da quella commerciale e, soprattutto, da quella religiosa, ma l’idea secondo cui l’agorà era unicamente un ambiente di spiriti eletti che s’intrattenevano a speculare è del tutto infondata. A tal proposito, Ieranò scrive: “Intorno all’agorà di Atene si concentravano le botteghe degli artigiani e le bancarelle dei venditori (…) I contadini portano in piazza i loro prodotti: frutta, verdura, olio, formaggi. L’agorà offre tutti i servizi di cui un ateniese può avere bisogno, dal cambiavalute al barbiere. Ma i negozi sono anche luoghi di ritrovo (…) La piazza, così concepita, è un’invenzione dei Greci.” (IERANÒ, G., 2020, Le parole della nostra storia Perché il greco ci riguarda, Marsilio, Venezia, p. 134).

A Roma, era talmente naturale che la vita delle tabernae si svolgesse accanto a quella politica che Varrone, nel De Lingua latina, avanza l’ipotesi, oggi scartata dai filologi, che la parola forum potesse derivare da ferre, portare, giacché il foro era il luogo in cui, per l’appunto, si ‘portavano’ sia le controversie politiche sia le merci da vendere.

Quo conferrent suas controuersias et quae uenderentur uellent quo ferrent, forum appellarunt [Il luogo dove poter mettere a confronto – conferrent – le loro controversie e portare (ferrent) a vendere le loro merci chiamarono forum – foro – (VARRONE, De lingua latina, V, 32, 145, in Opere, a cura di A. Traglia, 1974, UTET, Torino, pp.146-147)]

La scena pubblica subì una netta metamorfosi nel III sec. a. C., quando, per preservare la dignità del foro, si ritenne di dover spostare le tabernae di generi alimentari e di mantenere solamente quelle dei cambiavalute. Infatti, per le botteghe alimentari nacquero dei fori dedicati, quali il forum piscatorium, mercato del pesce, e il forum cuppedinis, dove si vendeva merce varia. Tito Livio riferisce che, dopo un incendio verificatosi nel 210 a. C., in cui andò distrutto il forum piscatorium, esso fu immediatamente ricostruito, ma, questa volta, tenendo fede alla narrazione dell’autore della Storia di Roma (ab urbe condita), prese il nome di macellum. Non si comprende bene se l’edificio che recava questo nuovo nome fosse un semplice restauro del primo o se invece avesse caratteristiche nuove. Livio usa il verbo reficere, quindi si dovrebbe trattare di una semplice ricostruzione dell’edificio precedente.

Locauerunt inde reficienda quae circa forum incendio consumpta erant, septem tabernas, macellum, atrium regium [Fu data quindi in appalto la ricostruzione di tutti quegli edifici che intorno al foro erano stati distrutti: sette botteghe, il macello e l’atrio della Reggia (TITO LIVIO, Storia di Roma dalla sua fondazione, XXVII, 11, vol. 8, a cura di B. Ceva e M. Scandola, 2001, Fabbri, Milano, pp. 386-387)].

Di fatto, il termine mercato, come scrivono Nocentini e Parenti (2010), è una formazione latina di origine indoeuropea: mercātŭ(m), commercio, traffico, fiera. Mercātŭs, sostantivo della quarta declinazione latina, deriva, a propria volta, dal verbo mercāri (comprare, commerciare), che è un denominale di merx. Sarebbe connesso con merx anche Mercurio, dio dei commerci, che pare provenga dall’etrusco, secondo gli studi di Pittau (2015).

Herus me Eretriam misit, domitos boves uti sibi mercare, dedit argentum: nam ibi mercatum dixit esse die septimi [Il padrone mi mandò a Eretria per comprargli dei buoi domati, mi diede del denaro: infatti disse che lì il settimo giorno c’era la fiera (PLAUTO, Comoediae, 1847, a cura di N. E. Angelio, G. Antonelli, Venezia, col. 1391)]

È chiaro che, se per mercato intendiamo invece la pretta attività del commerciare, allora essa ha origini lontanissime, tanto che possiamo fare riferimento alle prime società seminomadi che, attraverso il sistema del baratto, si scambiavano reciprocamente le rispettive eccedenze. Affascinante la riflessione di Michele di Jorio, che, nella Storia del commercio e della navigazione dal principio del mondo (1878, vol. 1, p. 57), osserva che la prima notizia di un’attività commerciale in un testo scritto compare nella Bibbia e, precisamente, nel capitolo 37 della Genesi, dov’è narrata la storia del figlio prediletto di Giacobbe, Giuseppe: venduto dai fratelli invidiosi a una carovana di Ismailiti, egli fu a propria volta venduto da questi, in Egitto, a Potifarre. Nel descrivere gli Ismailiti, così si esprime il redattore veterotestamentario: “Poi si sedettero per mangiare e, alzando gli occhi, videro una carovana d’Ismaeliti che veniva da Galaad, con i suoi cammelli carichi di aromi, di balsamo e di mirra, che scendeva in Egitto” (Gen 37, 25).

(foto di Mauricio Muñoz per Unsplash)

(foto di Mauricio Muñoz per Unsplash)

Le forme di mercato qui ricreate con l’ausilio delle necessarie e preziose testimonianze letterarie appaiono svincolate da regole o da una qualche disciplina messa per iscritto; di certo, non si può neppure immaginare che, all’inizio, gli accordi fossero strutturati, codificati e sottoscritti, almeno lato sensu. Gli studiosi di economia e di diritto c’insegnano, ormai da tempo, che il concetto di mercato non è affatto indipendente o incondizionato, quantunque se ne voglia ricavare un’ampia metafora sulla compravendita; anzi, esso è preceduto e istruito da un vero e proprio istituto di mercato, il contratto. Secondo la più importante tra le fonti normative del diritto privato italiano, il codice civile, “il contratto – definito con l’articolo 1321 – è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. È immediatamente evidente, oltre che comprensibile, che la nozione appena riportata genera un rapporto di obbligazione tra i contraenti, quale che ne sia il contenuto. Per quanto concerne la derivazione, possiamo affermare che si tratta di un termine romanzo d’origine latina (NOCENTINI, A., PARENTI, A., 2010): contractŭs, patto, contratto; letteralmente, contrazione, participio passato di contrăhĕre, radunare, restringere, irrigidire; procurarsi, cagionarsi. L’ambito semantico, come si può notare, è molto ampio e si estende da un’azione pratico-strategica a un bisogno; la qual cosa si concilia perfettamente con l’uso originario del termine.

Le obbligazioni dell’antica Roma potevano essere di quattro tipologie: obligationes contractae, obligationes ex contractu, obligationes da atto lecito e obligationes da atto illecito. Ai fini del nostro discorso, ci occupiamo delle prime due. Le obligationes contractae erano tutte derivanti da atto lecito, ma non tutte, per lo meno in origine, sancite o codificate da un atto convenzionale, cioè dal cosiddetto contratto. Esse avvenivano secondo tre modalità: verbis, cioè a parole, con giuramenti e promesse, per esempio; litteris, cioè per iscritto, attraverso dichiarazioni autografe; re, cioè attraverso la cessione di un bene, come nel caso dei mutui, nel comodato o nel pegno, che l’obbligato (debitor) era tenuto a restituire allo stipulante (creditor). Tali obbligazioni, per lo meno nelle forme verbis e litteris, si fondavano su una pratica formale solenne, rituale. Talora, bastava compiere una certa azione davanti a testimoni per essere obbligati. Anche se ciò può sembrare impressionante e illogico, bisogna contestualizzare questa pratica e pensare che, all’inizio, i Romani erano degli umili pastori e agricoltori che vivevano in comunità relativamente piccole, cosicché la reciproca conoscenza escludeva il timore dell’inganno.

Del tutto diversa, invece, è la natura delle obligationes ex contractu, che si rivelarono necessarie con la crescita territoriale, politica ed economica di Roma e furono basate interamente su autentici atti convenzionali, veri e propri contratti riguardanti vendita, affitto, mandato o, addirittura, attività societarie. A questo punto, il traffico commerciale era ormai aumentato in modo considerevole e la stipulazione del contratto, di là dalla macchinosa pratica della consegna materiale del bene, rappresentava una certezza per ambedue le parti, che venivano legate ufficialmente da vincoli.

La fonte per la conoscenza delle obbligazioni è Gaio, un non meglio noto giurista del II sec. d. C., la cui opera, Institutiones, in quattro volumi, è venuta alla luce agl’inizi dell’Ottocento, rivelando, nella propria natura di testo didattico, preziose notizie sul diritto arcaico e su quello preclassico. Va ricordato, inoltre, che le Institutiones di Gaio sono state una delle fonti principali utilizzate dai redattori delle Istituzioni di Giustiniano, che, unitamente ai digesta, costituiscono il primo volume del Corpus iuris civilis. Gaio, nel parlare delle obbligazioni, sembra avere presente la lezione del giurista repubblicano Quinto Mucio Scevola, autore, a propria volta, di un’opera, Libri XVIII iuris civilis, che può essere definita il primo manuale di diritto civile organizzato in maniera sistematica secondo le categorie aristoteliche di genus e species.

Non si può fare a meno di rilevare che abbiamo usato parecchie volte il sostantivo plurale obbligazioni, quasi fosse un substrato semantico degli studi lessicali fatti finora. In sostanza, non c’è mercato senza contratto, ma non c’è contratto senza obbligazione. La cronaca recenziore, di fatto, ci rinvia di colpo ai titoli di Stato, come se non ci fosse altro da discutere. In effetti, il tema è stato dominante e, talora, pure inevitabile. Al centro della diatriba, che molto di frequente s’è mutata in baruffa, per così dire, s’è trovato lo spread, contestato aspramente da una fazione politica, accettato serenamente dall’altra. Di là dagli alterchi, in sintesi, è doveroso dire che, in caso di necessità, lo Stato – ma può farlo anche un’azienda – può materialmente rivolgersi al mercato, emettendo obbligazioni. Naturalmente, l’investitore che le acquista, alla scadenza e per il tramite di una cedola, ha diritto al risarcimento e a una percentuale d’interesse quale remunerazione. La vicenda dello spread, che – per dirla rapidamente – è la differenza di rendimento tra i titoli più sicuri e quelli meno sicuri, riguarda i Buoni Poliennali del Tesoro e, in particolare, i BTp a 10 anni. Non è difficile immaginare che il rapporto tra rendimento e affidabilità dell’emittente è inversamente proporzionale: quanto più alto è il rendimento di un titolo, tanto più inaffidabile è considerato uno Stato.

Anche obbligazione nasce in seno alla lingua latina. Oblĭgātĭo (vincolo, obbligo, impegno) deverbale proveniente da oblĭgāre (legare, vincolare e, in diritto, impegnare) che si compone della preposizione ob e del verbo lĭgāre, legare, stringere. Il suo significato giuridico è già attestato nel latino classico.

È interessante documentare, a tal proposito, le variabili semantiche lungo il processo di significazione. Cicerone ci parla di impegno con riferimento alla disposizione d’animo, mentre, nell’occorrenza volgare degli Statuti senesi, si indica esplicitamente un vincolo giuridico basato sull’obrigagione del contracto.

Est autem gravior et difficilior animi et sententiae, maximis praesertim in rebus, pro altero quam pecuniae obligatio [Ma è più pesante e difficile, soprattutto in una situazione di massimo rilievo, l’impegno della disposizione d’animo e delle opinioni (di un altro) piuttosto che quello dei (suoi) debiti (CICERONE, Epistole a Bruto, I, 18, in Epistole al fratello Quinto e altri epistolari minori, a cura di C. Di Spigno, 2002, UTET, Torino, pp. 338-341)].

 

Statuimo   et   ordiniamo   ch’el   compagno   per   lo   compagno e  per  lo  contracto  del  compagno  facto  per  la  compagnia, di   sino   che   sarà   sodisfatto   del   devito   e   dell’obrigagione del   detto   contracto   al   creditore,   si   possa   convenire   e   di lui   essare   facto   richiamo   sopra   a   quelle  cose   e   denari   e pecunie   sopra   le   quali   saranno   comparai (Statuto dell’Università e Arte della lana di Siena, 1292, XXII, in Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV, a cura di F. L. Polidori, vol. 1, 1863, G. Romagnoli, Bologna, p. 215)

Dunque, quando si parla di obbligazione, bisogna distinguere il pretto significato giuridico da quello finanziario. L’obbligazione, nel diritto d’estrazione latina, è un vincolo tra due soggetti, di cui uno è detto debitore e l’altro creditore. In questo rapporto, il primo deve assumere verso il secondo l’impegno di una determinata prestazione, che può essere anche suscettibile di valutazione economica. In tal senso intesa, l’obbligazione ha la propria origine nel diritto romano, come si è detto più volte, quando, dopo un lungo percorso, essa fu ulteriormente formalizzata nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, di cui s’è detto in precedenza, e precisamente nelle Institutiones, dove, mediante la trattazione del titolo 13 del libro III, viene così definita:

Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius rei solvendae secundum iura nostrae civitatis [L’obbligazione è un vincolo di legge, in base a cui costringiamo qualcuno ad assolvere una prestazione, secondo le leggi del nostro Stato (Corpus iuris civilis, vol. 1, Institutiones, Digesta, a cura di P. Krueger e T. Mommsen, 1928, Weidmannos, Berlino, p. 35)]

In quanto alla resa finanziaria del termine, non si può certo pensare che la pratica obbligazionaria sia recente. Già poco dopo l’anno Mille e, in particolare, dopo il 1200, con la nascita e lo sviluppo delle banche e delle grandi compagnie, si riuscì ad attrarre parecchio capitale proveniente da terzi, proprio grazie al sistema delle obbligazioni, ovvero con la corresponsione di interessi fissi e dei relativi stacchi di cedole semestrali o annuali. La fiducia degli acquirenti era determinata da quello che oggi chiameremmo rating della compagnia, che offriva, a titolo di garanzia, la responsabilità illimitata dei soci. La sicurezza d’investimento contribuì a creare, in particolare per le compagnie toscane, possibilità di manovra che nessun’altra compagnia europea aveva, ovviamente in cambio di un altissimo rischio. Sono clamorosi, infatti, i casi di mancato risarcimento delle cedole e della paurosa svalutazione monetaria che ne conseguì. Possiamo citare, per esempio, il caso degli assegnati francesi, col conseguente salto temporale che ne consegue, titoli di credito cartacei emessi dal Tesoro durante la rivoluzione francese e che, una volta convertiti in moneta, perdettero addirittura il 60% del proprio valore. Non è questo, tuttavia, il contesto idoneo per un approfondimento del genere.

Nell’accingerci a conferire una forma definitiva a questo contributo, non possiamo affatto tacere del sostantivo consumo. Tale scelta si rende doverosa per due motivi: sia perché costituisce una voce determinante dell’identità contabile nazionale (Y = C + I + G + X) sia perché non è concepibile lo studio del gruppo semantico rappresentato da mercato, contratto e obbligazioni, se escludiamo proprio l’uso dei beni e dei servizi prodotti e offerti all’interno del sistema economico-sociale fin qui descritto. Qui, naturalmente, non tratteremo le varie suddivisioni didattico-epistemologiche (individuale, aggregato et similia), giacché ci occupiamo, com’è noto, dell’analisi del linguaggio dell’economia, ma, in modo elementare, diciamo che esso è pienamente espresso dalla domanda, la quale, a propria volta, determina il corso di crescita o recessione d’un intero sistema. Consumo è un deverbale, deriva dal verbo consūre (esaurire, divorare) e ha subito il passaggio di coniugazione (ĕre > -are) a causa della confusione con consummāre (portare a termine). Di conseguenza, il termine, anche dal punto di vista semantico, risente della sovrapposizione dei due verbi e dei rispettivi significati.

A Francesco nostro fratello mando un fardetto di grofani, perché lo riparta tra voi e certi altri: fatevi dare la vostra parte, e tenetevegli pel consumo di casa (FILIPPO SASSETTI, Lettere, LXXXVII, A Maria Sassetti ne’ Bortoli, in Firenze, 1874, Sonzogno, Milano, p. 232)

 

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