Dalle riforme ai sussidi cosa abbiamo imparato (e no) delle ultime crisi

scritto da il 20 Aprile 2022

Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –

Non eravamo ancora del tutto usciti dalla crisi pandemica (finanziariamente superata grazie anche al programma europeo SURE e soprattutto alla sospensione del patto di stabilità) che ci siamo ritrovati in mezzo a (indesiderati) venti di guerra. Non avevamo ancora compreso appieno la portata del PNRR (parte del programma europeo Next Generation) che abbiamo dovuto rifare i conti per le (inaspettate, in parte) tensioni inflattive, esplose già ben prima dello scoppio delle ostilità. Credevamo di aver risolto (rectius, ridotto) il problema degli NPL (non performing loans, ovvero crediti a privati e imprese divenuti inesigibili) e ora le previsioni finanziarie prossime venture (stando ad alcune stime) ci dicono che si ripresenterà. Avevamo superato, (solo) con l’appoggio esterno della BCE (con i suoi vari interventi “non ordinari” sui mercati, dal QE agli acquisti di titoli), la crisi finanziaria dei debiti sovrani che ha visto coinvolti i Paesi periferici dell’area Euro (in particolar modo la Grecia, prima, e – per quanto qui di interesse – l’Italia, dopo), ma non siamo riusciti a completare alcune riforme strutturali, (solo) avviate, in tempo per essere “pronti” a fronteggiare nuove crisi.

La crisi Lehman ci aveva solo “sfiorato”, colpendoci soprattutto dal versante finanziario, ma quelle successive testé richiamate hanno avuto intensità addirittura maggiore, vuoi per durata nel tempo, vuoi per impatto sugli indicatori macroeconomici (e sulla vita di persone e imprese). Il tutto mentre ancora ci si trastullava con sterili disquisizioni polemiche con chi – invece che guardare a riforme strutturali del sistema-Paese e agli sviluppi dell’innovation technology che incombeva, dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale alle criptovalute, dal fintech alla green economy, con il conseguente impatto in  taluni settori finanziari e produttivi tradizionali – ricordava i fasti delle (ingannevoli) “svalutazioni competitive”, vaticinando il prossimo tramonto della moneta unica (peraltro discretamente solida tuttora, a ben vedere) e con chi promuoveva dibattiti per l’uscita dall’Europa e per l’applicazione delle (ancor più ingannevoli) tesi MMT.

Cinque crisi (non solo) finanziarie in trent’anni, insomma; quattro negli ultimi quindici; due solo negli ultimi tre. Ma cosa abbiamo (davvero) imparato (e cosa no), da queste crisi? 

Cercando di mettere un po’ di ordine nelle cose che si sono susseguite, analizzando soprattutto i conseguenti aspetti tecnici, il percorso logico-razionale non può che seguire tre snodi principali: le caratteristiche distintive di queste crisi, le debolezze strutturali che dobbiamo (ancora) risolvere, una possibile “bussola” con cui orientarsi nel prossimo futuro.

Le crisi di cui stiamo parlando possono essere suddivise in due gruppi, quelle propriamente “finanziarie” in senso lato (crisi della lira nel 1992; crisi subprime/Lehman, 2007/2008; crisi dei Paesi periferici dell’Eurozona, 2011/2014) e quelle derivanti da “shock esogeni non finanziari” (gli effetti economici dovuti all’esplosione della pandemia, 2020/2021; quelli derivanti dalla guerra russo-ucraina nonché dalle sanzioni commerciali e finanziarie conseguenti). E, approfondendo siffatta elencazione, occorre altresì dire che le tre crisi “finanziarie” sono state una essenzialmente “domestica”, una essenzialmente di “debito privato” e una di “debito sovrano”, ovvero legata alla possibilità di default degli Stati meno solidi dell’Eurozona.

Quella del 1992 esplose per la speculazione contro alcune valute europee come la sterlina, la peseta, l’escudo e, appunto, la lira italiana (e le debolezze endogene della sua economia, che si accompagnavano ai punti di forza che pur c’erano), causandone la sua uscita dallo SME (una sorta di corridoio di oscillazione controllata dei cambi, precursore dell’euro), con una svalutazione immediata del cambio (dopo una strenua difesa da parte della Banca d’Italia e del Tesoro, che bruciò decine di migliaia di miliardi – in lire – di riserve valutarie) nell’ordine del venticinque/quaranta percento contro le altre valute (con le quali erano denominati moltissimi finanziamenti detenuti dalle imprese italiane, che preferivano indebitarsi al, se non meno del, cinque per cento in marchi o in yen, piuttosto che in lire a tassi ben saldamente a doppia cifra). Con il risultato, tra luglio e settembre di quell’anno, di una “manovra monstre” fiscale (quella, fra l’altro, del prelievo sui conti correnti dell’allora premier, Giuliano Amato) di circa novantaduemila miliardi di lire.

Certo, dopo la svalutazione, il Pil italiano – trainato dall’export – rimbalzò velocemente, ma lasciando sul campo imprese deboli finanziariamente (le perdite su cambi e i maggiori prezzi all’importazione delle materie prime e dell’energia, contribuirono al raggiungimento del maggior picco di “ingressi in sofferenza” – non si chiamavano ancora “default” e “Npl” – nel giugno del 1993, solo nove mesi dopo; per dire, il medesimo livello di picco è stato raggiunto in seguito solo a cavallo tra fine 2012 e metà 2013, quasi cinque anni dopo lo scoppio della crisi subprime/Lehman e con una regolamentazione bancaria più stringente, peraltro) e implicitamente disincentivate a fare ristrutturazioni industriali, ingannate dalla facilità di esportare con un cambio basso (che favoriva i volumi di vendite poiché diminuiva il costo per chi importava ovvero, rivalutando il prezzo di vendita pur a parità di costo per chi importava, consentiva maggiori margini senza costi aggiuntivi per l’esportatore).

Quella del 2007/2008, propagatasi dagli ormai famosi titoli immobiliari “subprime” – peraltro, strumenti “in sé” nemmeno poi così “rischiosi”, salvo che nei fatti vi fu la sostanziale impossibilità di prezzarne trasparentemente il rischio – fino al fallimento della banca d’affari Lehman Brothers (oltre ad altre meno famose, come le due banche ipotecarie americane Freddie Mac e Fannie Mae, non certo banche speculative), fu caratterizzata dalla crisi interbancaria derivante dalla concomitante riduzione sia delle quotazioni immobiliari (essenzialmente negli USA, all’inizio) e dei valori dati in garanzia con le ipoteche a questi connessi e sia dall’effetto domino dovuto al crollo di quei prodotti, nel frattempo inseriti in pancia a fondi di altre banche e poi sottoscritti da altre banche ancora (e dai loro risparmiatori), superando i confini americani e atterrando anche nella “vecchia Europa”. Con il risultato finale, fra l’altro, di un periodo caratterizzato da “recessione tecnica” e “asfissia” creditizia, (soprattutto) in Europa.

Quella dei debiti sovrani (la crisi greca, il “fate presto” a tutta pagina del Sole 24 Ore e il passaggio dal Governo Berlusconi a quello Monti, ad avviso di chi scrive, sono rimasti nell’immaginario collettivo) è stata contraddistinta da un (colpevole, in parte) ritardo di reazione delle Istituzioni internazionali ed europee (era il periodo in cui divenne uso comune il termine “trojka”, cioè FMI, BCE e UE, appunto), che ha evidenziato taluni limiti propri delle “regole d’ingaggio” di dette Istituzioni (modificate infatti, successivamente), sfociati nella (forse tardiva, appunto) “costruzione” del MES (meccanismo europeo di stabilità, o ESM; peraltro – ma ci porterebbe lontano approfondire qui, avendo già scritto sul tema in passato – niente affatto “mostruoso” o “non democratico” come qualcuno arbitrariamente racconta). Con il risultato finale di aver creato le condizioni (il “whatever it takes” di Mario Draghi) per una BCE sempre più interventista (con il cosiddetto QE europeo e i programmi di acquisto titoli) e di aver (ulteriormente) contribuito a ridurre i tassi di interesse a “quasi zero” (con l’interbancario in negativo), posto che già per noi il costo del debito era passato, con l’euro, da doppia cifra a circa il quattro per cento (ciò che alcuni chiamano il cosiddetto “dividendo” – largamente sprecato, purtroppo – dell’ingresso nella moneta unica). Ma, al contempo, generando tensioni nella gestione delle banche europee (la progressiva riduzione dello spread fra tassi attivi e passivi ha comportato minori margini di guadagno e l’innalzamento in parte della propensione al rischio – cioè la rischiosità media – dei prodotti finanziari gestiti) e una riduzione (ulteriore) della propensione ai finanziamenti (basti pensare che tra il 2011 e il 2019 si è passati, in Italia, da un volume di prestiti di circa ottocentonovanta miliardi di euro a uno di seicentoquaranta, cioè ben duecentocinquanta miliardi in meno di stock di finanziamenti in essere).

Delle ultime due crisi non occorre, essendo ancora impresse nella memoria collettiva recente, ricordarne la genesi, ma piuttosto riflettere su alcune conseguenze. A seguito dei lockdown stringenti e delle conseguenze economiche del blocco delle attività economiche, si è reagito tramite una politica di bonus fiscali e sussidi (per circa centonovanta miliardi di euro complessivi), con le conseguenti (diffuse) polemiche sulla distribuzione a pioggia di importi pro-capite relativamente piccoli e la (meno frequente ma più puntuale) riflessione sulla differenza sostanziale fra sussidi (sostitutivi del reddito perso) e aiuti (al sostegno di una data attività economica); provvedimenti legati all’estensione della Cassa Integrazione e al blocco dei licenziamenti; un (consistente) intervento finanziario sulle moratorie delle rate in scadenza e sui finanziamenti straordinari controgarantiti dallo Stato (Fondo di Garanzia MCC per circa duecentotrentanove miliardi e Sace/CDP per circa trentaquattro miliardi), seppur di durata troppo esigua dei tempi di rimborso, a parere di chi scrive. Il ricorso al deficit straordinario (in tutti i sensi, per dimensione e per contingenza) di bilancio, pari al 9,6 percento nel 2020, permesso da una (finalmente) coesa Unione Europea che ha sospeso l’applicazione rigorosa dei parametri dei bilanci pubblici e ha introdotto sia un fondo comunitario di sostegno all’occupazione (SURE) che varato il programma Next Generation UE (da cui deriva il PNNR italiano), hanno consentito al sistema-Paese di reagire (se non in maniera ottimale, almeno riducendo i danni) e di intravedere uno scenario di ripartenza.

Con l’effetto, però, di proiettarci di fronte a dei bivi (economicamente) esistenziali. Quando e come gestire una “exit strategy” dai bonus e dalle norme sospensive (ad es. licenziamenti, moratorie, parametri Maastricht), poiché la “non gestione” dei tempi di recupero della normalità procedurale rischia di essere, essa stessa, causa del riacutizzarsi della crisi. E se insistere o meno sui progetti di innovazione del rapporto fra Istituzioni ed economia (ad es. sulla definitiva entrata in vigore del nuovo codice della crisi, scritto – sull’onda europea – per prevenire nuove crisi dopo la penultima e da allora più volte rinviato, rimaneggiato e modificato; sul rendere strutturali forme di finanziamento controgarantite dallo Stato a lunga scadenza, cd. “matusalem financing”; o sul modificare a regime i parametri di bilancio europei e sul far partire definitivamente dei meccanismi di euro-finanziamento, in stile euro-bond, già in nuce “affiorati” per finanziare i fondi legati ai nuovi programmi di aiuto europei), poiché la “ripartenza” attesa ha bisogno di accompagnamenti strutturali.

E con l’ulteriore notazione che proprio la fase di “ripartenza”, legata ai diversi momenti temporali di picchi della pandemia e alle diverse ampiezze dei lockdown imposti all’economia nelle varie regioni geografiche di riferimento, ha “surriscaldato” la catena dei prezzi nelle filiere produttive (chiudere/riaprire una fabbrica non è come spegnere/accendere la luce), generando già nella primavera del 2021 una crescita dei prezzi dei trasporti e delle materie prime (e ciò, nonostante – o forse anche per questo – le prime avvisaglie dei fenomeni di “reshoring” delle imprese che avevano spostato la produzione in Paesi lontani, cosa anche questa più facile a dirsi che a farsi) e, quindi, una prima spinta inflattiva. A cui si è sommato, a partire dall’autunno, l’incremento del costo delle fonti energetiche (con buona pace dei tempi lunghi della transizione green). Insomma, un “freno” alla spinta della ripresa economica.

Infine, lo scoppio delle ostilità belliche (con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e delle conseguenti, necessarie, sanzioni internazionali adottate) che, ai fini che qui interessano, stanno generando ulteriori spinte inflattive sul gas (circa il 40% dei consumi europei arriva dalla Russia), una contrazione dell’offerta disponibile (per effetto delle sanzioni commerciali) di acciaio e di talune altre materie prime, nonché dell’offerta di derrate agricole ad uso alimentare (ambedue i Paesi coinvolti sono fra i principali esportatori di entrambe le cose), un effetto indiretto di contrazione parziale delle nostre esportazioni verso l’area del conflitto (anche tramite effimere triangolazioni), un picco di volatilità sui mercati finanziari (per via delle sanzioni alle controparti di quei Paesi, con specifico riguardo a gran parte delle banche russe e delle emissioni di titoli russi già negoziati sui mercati internazionali), nonché infine l’emergere di enormi incertezze sul futuro geopolitico (rischio escalation del conflitto, rischio durata dei blocchi sanzionatori) ed economico (contrazione delle previsioni di crescita del PIL 2022 e 2023, inflazione elevata per un periodo più lungo delle previsioni, spettro della stagflazione). Insomma, se la situazione non si sbloccasse in fretta, un “freno a mano” tirato sulla strada della ripresa economica.

Immagine da Unsplash

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Nonostante le evidenti (e qui richiamate) differenze tra le varie crisi e le loro diverse intensità con cui l’economia del nostro Paese (e del resto del mondo) è stata colpita, resta di tutta evidenza che “sotto il tappeto” rimangono le nostre debolezze strutturali endogene, che ci condizionano tanto nell’essere più esposti di altri ad attacchi speculativi e al vento di (potenziali) nuove crisi, quanto nel non farci competere con gli altri Paesi ad armi pari. Eccessivo peso della burocrazia e tempi della giustizia (non solo penale; anche – e soprattutto – civile) eccessivamente lunga; spesa pubblica non efficiente e sovraesposta in spesa corrente più che in investimenti strutturali, peraltro con eccessiva incidenza percentuale della spesa per pensioni (poco sostenibile nel tempo, visto l’andamento demografico), la cui correzione, però, costringe a confrontarci sulla tenuta del sistema sociale, oltre che alla convenienza economica; eccesso oggettivo di pressione tributaria (e di disuguaglianze nella sua composizione, con buona pace dei principi di equità verticale ed orizzontale enunciati dalla nostra Costituzione) e contestuale patologico livello di evasione (il cui contrasto non può più gravare anche sui contribuenti onesti, in termini di livello del prelievo e di costo degli adempimenti richiesti); sono questi – ad avviso di chi qui scrive – i maggiori problemi “sistemici” che ci portiamo dietro da (quasi) sempre. A ciò si aggiunga il tema più recente della transizione alla “green economy” e alla “information technology society” nonché quello contingente della diversificazione (a tappe forzate) delle tipologie (e dei Paesi di provenienza) delle fonti energetiche.

Per concludere (per quanto si possa, ad oggi), quel che abbiamo (rectius, dovremmo avere) imparato dalle crisi sono quattro cose: diversificazione (delle fonti energetiche e dei settori economici, così come, peraltro, delle fonti di informazione); concorrenza (da incentivare nel nostro sistema economico, per competere come Paese), anche attraverso regole certe, giuridiche e fiscali (da garantire, per far “maturare” la consapevolezza e per incentivarne il rispetto; certo, da controllare meglio, anche, ma senza eccessi di invasività sui cittadini e sulle imprese già responsabilmente “in regola”); riforme (strutturali, giuridiche ed economiche, anche semplificando il peso della burocrazia, ma soprattutto in relazione alla qualità ed efficienza delle spese nel bilancio pubblico); coesione (fra Paesi, a maggior ragione europei; fra parti sociali, al nostro interno, disinnescando contrapposizioni passate tra soggetti economicamente “garantiti” e “non”).

Quel che, invece, non abbiamo (sicuramente) imparato è il lasciarci alle spalle altre quattro cose: concentrazioni (di potere e di interessi, tanto privati che pubblici); eccesso di sussidi ed agevolazioni (affinché servano come “risposta” a situazioni contingenti di crisi, non dovrebbero essere “abusate” in condizioni ordinarie); off-shoring (il patologico ricorso a pratiche distorsive economiche e fiscali, abusando di strutture estere in spregio agli sforzi OCSE e GAFI in tema di trasparenza e scambio di informazioni – anche finanziarie – tra Paesi); nazionalismi (economici, dazi compresi, e – di tutta evidenza, vista l’attualità – geopolitici).