Occupazione femminile, Pnrr e buone pratiche per superare il passato

scritto da il 13 Maggio 2022

Post di Miro Scariot, consulente politico presso la Camera dei deputati – 

Il tema del women empowerment rappresenta una vera priorità per il nostro Paese che non può più permettersi di emarginare, a causa di deficit strutturali, un’ampia fetta della popolazione. Le patologie che affliggono la vita lavorativa delle donne sono: l’instabilità dell’impiego, la bassa remunerazione e l’irregolarità dei contratti. Delle criticità che impoveriscono il nostro mercato del lavoro alterandone profondamente il funzionamento, limitando l’espressione del nostro capitale umano. Ora più che mai, dopo anni di crescita asfittica e il biennio pandemico, è necessario imprimere un vero cambio di passo capace di incidere in concreto sui numeri – alquanto miseri – dell’occupazione femminile.

Il Pnrr rappresenta certamente una possibilità, un’occasione di emancipazione per un Paese come il nostro che, pur essendo un gigante della manifattura, vede ancora troppo ampio il divario con il resto dell’Europa in materia di donne occupate. Nel 2021 – rileva l’Eurostat – erano occupate il 49,4% delle donne tra i 15 e i 64 anni a fronte del 63,4% della media Ue con un divario di 14 punti. Un risultato non eccellente, frutto anche dell’emergenza pandemica che ha inciso in modo rilevante colpendo principalmente giovani e donne. A favorire questo fenomeno, però, contribuisce anche la cronica assenza di servizi all’infanzia che obbliga molte neomamme a licenziarsi o a scegliere il part-time involontario contribuendo così all’impoverimento delle famiglie alla loro monoredditualità. La conseguenza diretta di questo fenomeno sono minori entrate e pesanti conseguenze sulla possibilità di autorealizzarsi. Gli ultimi dati disponibili sulle dimissioni volontarie delle lavoratrici madri e lavoratori padri di bambini/e di 0-3 anni coinvolgono complessivamente 42.377 persone. Di queste, il 77,4% si riferiscono alle madri e solamente il 22,6% ai papà.

Questa scelta non è un vezzo da parte di quella che il sociologo Ricolfi ha definito come “società signorile di massa”, ma la certificazione dell’inadeguatezza delle forme di welfare familiare. Negare la drammaticità di questi dati, o evitare di affrontarne la portata scegliendo un approccio miope, non fa bene al Paese. Investire nella crescita del benessere sociale significa puntare sulla diminuzione di tutti quei divari che non hanno giustificazione tecnica poiché fondati solo sul genere.

Rendere la donna pienamente partecipe alla società, ridurre la logica binaria secondo la quale si deve scegliere se essere madri, sacrificando la carriera, o crescere professionalmente, rinunciando alla maternità, è fondamentale. Questa missione passa dal potenziamento dei servizi all’infanzia il quale è un tema centrale anche all’interno del Pnrr dato che per il “Piano asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia”  sono allocati 4,6 miliardi. Risorse importanti che, nonostante le prime difficoltà relative ai bandi, non possono in alcun modo mancare il bersaglio in un Paese in cui negli asili nido c’è posto per solo il 27% dei bambini tra 0 e 2 anni. Le risorse frutto del Next Generation EU devono essere sostenute da una visione di futuro capace di andare ben oltre le voci di spesa e il mero rispetto – cosa peraltro non scontata – della tabella di marcia. La realizzazione dei progetti dedicati a questa missione passa attraverso interventi sistemici e non per “silos” il cui contenuto non si integra nella complessa macchina del mercato del lavoro, la quale è influenzata dalle macro-dinamiche economiche e dalle peculiarità sociali e territoriali.

Lenire le disparità territoriali è indispensabile. Sarà fondamentale intervenire considerando anche le peculiarità del tessuto socio-economico attraverso una maggiore capillarità dei servizi all’infanzia e la loro integrazione con i distretti produttivi. In questo modo si andrebbe verso una rete di welfare familiare capace di coniugare al meglio i tempi della genitorialità con quello che è il tempo dedicato al lavoro, producendo – in linea teorica – una più che probabile riduzione dei part-time involontari da parte delle neomamme.

immagine di Hannah Busing per Unsplash

immagine di Hannah Busing per Unsplash

Un migliore dialogo tra Stato, Enti Locali e corpi intermedi risulta quindi fondamentale per far sì che le politiche incluse nella logica del Pnrr producano un benessere quanto più possibile condiviso. Il Piano italiano deve essere un patrimonio la cui messa a terra, su tematiche multifattoriali come quelle che intrecciano lo sviluppo sociale ed economico del Paese, deve essere oggetto di dialogo multilaterale secondo la logica della sussidiarietà. Perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile significa anche mettere al centro il capitale umano, la sua valorizzazione senza vederlo solo come un fattore che concorre alla produzione. Lo Stato deve fare delle scelte capaci di abilitare l’espressione del potenziale del nostro Paese, il quale non può essere vittima di sé stesso, vincolato dalle sue inefficienze a una crescita asfittica e a un benessere sociale inferiore rispetto a quello a cui può ambire.

Abbattere le barriere che tengono le donne fuori dal lavoro, che ne riducono il contributo lavorativo e intellettuale alla crescita dell’Italia è interesse di tutti e pone, in seconda battuta, le condizioni per frenare la denatalità. Parallelamente, la cultura imprenditoriale deve guardare con fiducia a quelli che sono i cambiamenti in atto e, perché no, ispirarsi anche a coloro che hanno reso grande l’Italia nel mondo coniugando il fare impresa con l’agire responsabile, proprio come Olivetti. Se i nostri imprenditori, tenuto conto delle condizioni in cui sono costretti a operare a causa della pressione fiscale e dell’inflazione, riescono comunque a fare impresa, significa che la maggior parte di essi rappresenta un esempio. Le imprese sono un anello importantissimo della spina dorsale del nostro Paese, ne determinano la postura internazionale, il prestigio e il benessere interno. Sul tema della parità di genere – quindi – non si possono addossare tutte le responsabilità a chi fa impresa. Farlo significa cedere il passo a una dialettica stantia che punta a fare leva sulla retorica vetusta del “padre padrone” attento solo al profitto.

Un punto di vista fuori dal tempo, proprio come pensare che una donna che diventa madre sia un limite per l’azienda e non un segnale di benessere, di una realtà che permette a chi ne fa parte di essere ciò che vuole, di realizzarsi. Il cambio di passo non può quindi prescindere dal combinato disposto che vede da una parte il ruolo attivo dello Stato, attraverso una corretta allocazione delle risorse del Pnrr, e – dall’altro – una cultura d’impresa in cui la sostenibilità incida ben oltre i dati sulle emissioni. Gli esempi positivi non mancano. Lo dimostra quanto accaduto in Toscana poche settimane fa dove un imprenditore, Simone Terreni – CEO VoipVoice, pmi nel settore TLC – ha deciso di assumere una donna in procinto di essere madre dopo che quest’ultima – risultata migliore tra i candidati al posto di lavoro – aveva temuto che la sua condizione potesse essere un ostacolo, una zavorra per l’azienda. L’obiettivo che l’Italia si deve porre è quello del raggiungimento di determinati parametri, ma anche di arrivare al 2026 con un’opinione pubblica che veda la scelta fatta dall’imprenditore toscano come cronaca ordinaria.