Criptovalute, l’appello della Banca d’Italia per una tassazione coerente

scritto da il 28 Giugno 2022

Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –

Con una recente nota la Banca d’Italia è intervenuta sul tema delle tecnologie decentralizzate c.d. distributed ledger technologies (DLT), e delle cripto-attività, suddivisibili nelle due categorie: 1) delle unbacked crypto-assets, ossia attività “prive di un meccanismo di stabilizzazione che ne ancori il valore a un’attività di riferimento” (come il Bitcoin), tra le quali rientrano anche le stablecoins algoritmiche “il cui meccanismo di stabilizzazione è basato su un algoritmo che ne condiziona la domanda e l’offerta sul mercato” [1]; 2) delle asset linked stablecoins che sono “cripto-attività garantite da attività sottostanti (valute, merci, crediti, etc.) che mirano a mantenere un valore stabile rispetto a una valuta fiat (es. euro o dollaro), un bene specifico o un pool o paniere di attività”.

Nel documento la Banca d’Italia ritiene che anche sotto il profilo fiscale “è avvertita la necessità di definire discipline ad hoc che conferiscano certezza agli operatori e agli investitori”, dal momento che ad oggi il nostro Paese non è dotato di una disciplina tributaria specifica ma basata “sull’applicazione, in via interpretativa, di norme dettate per altre tipologie di operazioni e attività”. In prospettiva, sottolinea il documento, “appare opportuno favorire un bilanciamento tra la considerazione delle peculiarità del settore e le esigenze di coerenza fra la disciplina fiscale delle cripto-attività e quella di altri cespiti, nonché con l’ordinamento giuridico in generale, anche per motivi di equità di trattamento”.

Bene ha fatto la Banca d’Italia a stimolare il legislatore su questo specifico tema che è particolarmente sentito dagli operatori del settore e dagli stessi investitori.

Come ho avuto modo di rilevare in un altro scritto [2], le maggiori criticità riguardano le persone fisiche e non tanto le imprese. Per queste ultime l’operatività in “criptovalute” trova riscontro nelle registrazioni contabili e la rilevanza fiscale passa attraverso il c.d. “principio di derivazione rafforzata” sancito dall’art. 83, del Tuir, sia per i soggetti che redigo no il bilancio secondo le regole del codice civile e dei principi contabili nazionali Oic, sia per coloro che applicano i principi contabili internazionali Ias/Ifrs. Per la verità, nessuno di tali principi dispone di regole specifiche per la rilevazione e valutazione in bilancio delle “cripto-attività” o “criptovalute”.

Per cui, oggi, ci si muove su un terreno piuttosto confuso: si va dall’inclusione tra le definizioni contabili  di “cassa” e di “disponibilità liquide equivalenti” – in quanto esse non svolgono le tradizionali funzioni della moneta e sono altamente volatili – a quella di “strumento finanziario” – poco corretta per l’assenza di un diritto o obbligo contrattuale – da quella di “attività immateriale” a quella di “rimanenza”, che non è esclusiva del concetto di “attività immateriale”, ben potendo le rimanenze avere a oggetto beni immateriali o materiali. L’assenza di regole precise non è indifferente perché la diversa qualificazione incide sulla valutazione di tali attività, che può essere effettuata al costo di acquisto  ovvero al valore di mercato (fair value), al lordo o al netto di oneri accessori, e sulla necessità di procedere o meno all’ammortamento.

In ogni caso, non pare possano esservi dubbi sul fatto che i guadagni e le perdite derivanti dall’impiego in “criptovalute” debbano avere rilevanza fiscale [3].

immagine da Unsplash

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Non è solo un problema fiscale

Il problema della tassazione, però, potrebbe anche non presentarsi affatto, oppure, laddove sia necessario affrontarlo, non può essere risolto in via generale, ossia definibile in modo astratto, in quanto strettamente dipendente dalla qualificazione giuridica dello strumento sottostante idoneo a generare il presupposto imponibile, espressione di quella capacità contributiva richiesta dall’art. 53 Cost.

Ma procediamo con ordine.

In primo luogo la Banca d’Italia evidenzia che “Le cripto-attività possono generare rischi di vario genere. Una rapida e ampia diffusione di questi strumenti potrebbe compromettere la stabilità del sistema finanziario a causa dell’interdipendenza dei soggetti che vi partecipano, regolamentati e non, nonché della mancanza di controlli e strumenti che possono limitare gli effetti di eventi sfavorevoli” [4].

Ai rischi per la stabilità finanziaria, si associano quelli legati alla facilità con la quale le “criptovalute” possono essere impiegate in attività di riciclaggio, di tipo criminoso o per  finanziare il terrorismo, sul cui controllo si sono espressi diversi documenti emessi dalla Banca d’Italia, Consob, Fatf e Uif.

Senza contare che una attività fondata su una tecnologia digitale è fortemente soggetta ad attacchi informatici che potrebbero mettere a repentaglio l’intero sistema. Inoltre, si legge che “Cripto-attività, prive di qualsiasi valore intrinseco, non riferite ad alcuna attività dell’economia reale o finanziaria, non assistite da alcun diritto in capo all’utilizzatore a ricevere indietro alcunché non possono, come tali, essere idonee a svolgere una funzione né di pagamento né di investimento (si tratta quindi di unbacked crypto-assets, (…)”. Limitatamente a queste ultime la Banca d’Italia afferma che “il loro utilizzo non dovrebbe essere in alcun modo incentivato”.

In realtà dovremmo chiederci se queste cripto-attività sono davvero utili e funzionali allo sviluppo dell’economia reale. Perché se la risposta fosse negativa la reazione del sistema non dovrebbe essere quella di procedere a una loro regolamentazione, magari accompagnata da un atteggiamento “non incentivante” l’utilizzo, ma di introdurre un divieto alla loro creazione e impiego.

Se, invece, la risposta fosse positiva, si aprirebbero davanti a noi due scenari, strettamente connessi o dipendenti dalla loro funzione.

Due scenari sistemici

Il primo scenario è descritto dalla stessa Banca d’Italia laddove afferma che alcune cripto-attività possono “essere utilizzate come strumento di pagamento”. Funzione che potrebbe appartenere a quelle attività “garantite da una riserva che possono essere ancorate ad una singola valuta fiat e associate a un <debito> di rimborso integrale a carico di un soggetto, normalmente l’emittente”.

Ma questa caratteristica non permetterebbe forse di qualificare tale attività come “moneta”? Se fosse regolamentata non sarebbero, conseguentemente, garantite le tre funzioni tipiche di una moneta, ossia di essere una unità di conto (numerario usato come metrica da tutti accettata); un mezzo di scambio (strumento volto a evitare le transazioni multiple del baratto); una riserva di valore costante  nel tempo e nello spazio (strumento non remunerato volto a preservare nel tempo  il potere di acquisto pur mantenendo le caratteristiche di massima liquidità e in grado di rappresentare valore in modo non corruttibile)?

Ma se così fosse, avremmo un sistema in cui accanto alle monete legali opererebbero monete concorrenti emesse da soggetti privati, seppure regolamentati.

Questa situazione, però, non sarebbe contraria alle regole previste dall’Eurosistema che presidiano il potere di emettere moneta legale attribuito alla BCE e alle BCN (Banche Centrali Nazionali)? E poi, possiamo essere certi che non vi saranno effetti sostitutivi delle monete tradizionali e che questi effetti non produrrebbero alcuna conseguenza sulla stabilità dei sistemi, sul valore delle monete tradizionali pubbliche  e sulla fiducia dei cittadini?

Le risposte possibili sono, in realtà, così cariche di estrema incertezza e indeterminatezza che dovrebbero indurre le Autorità regolatorie, le istituzioni comunitarie e i governi nazionali alla massima prudenza.

Se la stessa BCE è preoccupata che l’introduzione di una cripto-valuta sovranazionale emessa e gestita dalle Banche centrali nell’ambito dell’Eurosistema – il famoso euro digitale in fase di studio ai vari livelli di governo istituzionale (come ad es. BCE, Commissione Ue, OCSE, la stessa BdI) – possa produrre effetti negativi sull’implementazione e la trasmissione della politica monetaria, sulla stabilità dei prezzi, del sistema finanziario e quello dei pagamenti, figuriamoci cosa potrebbe accadere se valute virtuali private invadessero il mercato [5].

Il secondo scenario è quello che, parimenti, si trova delineato nel documento della Banca d’Italia, laddove si legge che certe cripto-attività, ancorate a strumenti potenzialmente volatili come strumenti finanziari, “potrebbero avere una funzione di investimento”.

Questa opzione, che dovrebbe escludere la funzione di pagamento, potrebbe essere più praticabile. Si tratterebbe di un cripto-asset paragonabile ad altri strumenti finanziari offerti sul mercato a investitori privati. In questo caso si tratterebbe di introdurre negli ordinamenti giuridici una definizione corrispondente e di approntare un adeguato e funzionale sistema regolatorio al fine di rendere trasparente il mercato (anche al fine di garantirne lo scambio), di controllare gli operatori e di evitare che le cripto-attività diventino la nuova lotteria del XXI secolo, o i nuovi confini del gioco d’azzardo di fatto legale ma senza controllo.

Si comprende, quindi, come la scelta dello scenario da adottare sia urgente.

Oggi le criptovalute sono globali, mentre i governi nazionali non sono riusciti nemmeno ad adottare una basilare regolamentazione di controllo del mercato. Per non parlare di quello comunitario (il minimo del regolamento MiCA, Markets in Crypto-Assets). Non possiamo restare in balia di operatori privati completamente liberi di muoversi in virtù del principio tanto caro al mercato della “democratizzazione della finanza”, né di essere soverchiati da lobby finanziarie che presto potrebbero diventare too big to stop.  Ciò che conta non può essere solo il fatto che tali attività esprimono valore per il mercato, se poi producono un disvalore per il sistema nel suo insieme, imponendo (alla collettività) dei costi per il ripristino delle condizioni di sicurezza e di riequilibrio.

immagine di André François McKenzie per Unsplash

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La disciplina fiscale specifica

Come già detto, il problema della tassazione non può essere risolto in via generale, ossia definibile in modo astratto, in quanto strettamente dipendente dalla qualificazione giuridica dello strumento sottostante idoneo a generare il presupposto imponibile, espressione di quella capacità contributiva richiesta dall’art. 53 Cost..

Oggi, le definizioni sono diverse – contenute nel D.Lgs. n. 90/2017 che ha recepito la direttiva Ue 2015/849 “antiriciclaggio”, nel D.Lgs. n. 125/2019 di recepimento della direttiva Ue 2018/843 nella stessa    materia, nel parere della Bce del 12.10.2016 (sempre sulla direttiva antiriciclaggio), in quello dell’ESMA del 9.1.2019, nella sentenza del Tribunale di Verona, del 24.1.2017, nell’art. 1, del D.lgs. n. 184/2021, in materia di frodi e falsificazioni di mezzi di pagamento, nel lodo arbitrale Marcianise del 14.4.2018, nella sentenza del Tribunale di Brescia del 25.7.2018, nella sentenza 21.1.2019 del Tribunale di Firenze, e nella sentenza Cass. 2.10.2020, n. 26807– e tutte insoddisfacenti ai fini di che trattasi.

Su queste basi l’Agenzia delle Entrate, assumendo come punto di riferimento la sentenza della Corte di Giustizia 22.10.2015, causa C-264/14, e non potendo lasciare il fenomeno irrisolto, ha correttamente applicato i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali, come chiarito nella Ris.n. 72/E, del 2.9.2016 e nella Risp. n. 788/2021 a un interpello di un contribuente, nei quali si è optato per una assimilazione delle criptovalute alle valute estere.

Pertanto, in virtù del combinato disposto del co. 1, lett. c-ter e del co. 1-ter, dell’art. 67, del Tuir, le cessioni a termine di valute virtuali rilevano sempre fiscalmente, mentre quelle a pronti “generalmente non danno origine a redditi imponibili mancando la finalità speculativa”, a meno che la valuta ceduta derivi da portafogli elettronici (wallet) per i quali la giacenza media superi un controvalore di 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta, considerando il prelievo dai wallet come una cessione a titolo oneroso. Da ciò ne consegue che la plusvalenza sarà soggetta all’imposta sostitutiva del 26% ai sensi dell’art. 5, del D.Lgs. n. 461/1997.

Ѐ evidente che l’ipotesi non soddisfa pienamente, perché le operazioni sono essenzialmente caratterizzate dalla finalità speculativa e le plusvalenze si generano proprio attraverso operazioni a pronti e non a termine. Risulta quindi necessario procedere preliminarmente alla qualificazione giuridica della fattispecie che vada oltre la riconducibilità nell’area dei beni giuridici immateriali quali “cose che possono formare oggetto di diritti” (ex art. 810 c.c.): quindi, o moneta virtuale [6] o strumento finanziario (come previsto dal Tuf). Tenendo conto che non tutte le cripto-valute sono accettate come mezzi di pagamento. Qualificazioni che però potrebbero convivere, in adozione di un approccio casistico, in relazione a fattispecie che esprimono un utilizzo e una funzionalità diversa.

In questo senso per entrambe le soluzioni dovrebbero essere modificati gli artt. 44 e/o 67,  del Tuir. Proprio il fatto che le norme de quibus appaiano abbastanza ampie sotto il profilo semantico, tanto che potrebbero essere ritenute esaustive ai fini di che trattasi (vista la possibilità di fare ricorso in ultima analisi anche al co. 1, lett. i) dell’art. 67), lascia margini di discrezionalità e di incertezza troppo ampi. Allo stesso modo si dovrebbe intervenire sulla qualificazione giuridica di wallet per garantire la loro riconducibilità ai depositi, regolari o irregolari, e ai conti correnti bancari, secondo l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate nella Risp. n. 956-39/2018 della DRE Lombardia (non pubblicata) e dell’Avvocatura dello Stato dinanzi al Tar del Lazio (sent. 27.1.2020, n. 1077).

L’obiettivo, quindi, è di articolare con maggiore precisione le fattispecie e di prevedere la tassazione delle plusvalenze realizzate (e la rilevanza delle minusvalenze), sia nell’ipotesi di moneta virtuale che di strumento finanziario, senza alcuna esimente laddove le criptovalute fossero qualificate come moneta e assimilate alle valute estere [7].

  

NOTE

[1] Sono asset assimilati ai titoli hi-tech che sono venduti a piene mani, ancora di più di questi ultimi, quando la politica monetaria si fa restrittiva. Abbiamo letto numerosi articoli pubblicati su Il Sole 24 Ore nei quali è stato messo in evidenza l’andamento del mercato di tali attività e il forte rischio per gli investitori. Per esempio, V. Carlini, Bitcoin&co pronti a resistere ma la finanza decentralizzata non può correre alla cieca, del 15.5.22, ha evidenziato come a inizio 2021 il numero dei cripto-asset era pari a circa 8.100 con il Bitcoin che quotava 32.100 $, per poi raggiungere il massimo a novembre 2021 a 67.566 $, mentre a inizio 2022 il numero era salito a 16.300 e la quotazione della cripto regina era sceso a 47.700 $, e oggi ancora un incremento in quantità a 19.400 e una discesa di valore a 30.000 $.

[2] F. Ghiselli, Giù le tasse ma con stile!, Franco Angeli, 2019.

[3] L’Agenzia delle Entrate ha chiarito il proprio pensiero con  la Risp. n. 72/E, del 2.9.2016, a un interpello presentato da una società (di capitali) che esegue, per conto della propria clientela, operazioni di acquisto e vendita di bitcoin, per le quali il guadagno o la perdita di competenza della società rappresentato dalla differenza tra quanto anticipato dal cliente e quanto speso dalla società per l’acquisto dei bitcoin, o tra quanto incassato dalla società per la vendita sul mercato e quanto riversato al cliente, secondo le pattuizioni contrattuali, è ascrivibile ai ricavi o ai costi caratteristici di esercizio dell’attività di intermediazione e come tali soggetti a Ires e Irap. La tesi dell’Agenzia delle entrate si fonda su quanto affermato dalla Corte di giustizia UE nella sentenza 22.10.2015, causa C-264/14, secondo la quale le operazioni in esame rientrerebbero tra quelle «relati ve a divise, banconote e monete con valore liberatorio», di cui all’art. 135 par. 1, lett. e) della direttiva 2006/112/CE, in materia di Iva.

[4] Naturalmente la stessa Banca d’Italia evidenzia l’elevato rischio per gli investitori, derivante dall’estrema volatilità delle quotazioni e dai ricorrenti episodi di crisi di operatori e schemi operativi, dovuti a truffe, a incidenti informatici o a difetti di fondo che hanno comportato l’insorgenza di rilevanti perdite per i soggetti coinvolti. Questo pericolo, tuttavia, potrebbe essere gestito da una adeguata regolamentazione e controllo sugli operatori e da una informazione rafforzata a favore degli investitori, fermo restando la volatilità che caratterizza le criptovalute non è molto diversa da quella implicita in altri strumenti finanziari, anche derivati, presenti sul mercato.

[5] Sul tema si veda L. Fantacci, Euro digitale, pro e contro, lavoce.info, 8.10.2020, e P. Soldavini, Banche centrali pronte alla guerra sulle monete digitali di Stato, Il Sole 24 Ore, 13.9.2020.

[6] Se fosse così, dovremmo abbandonare la negazione elementare della Presidente BCE C. Lagarde, secondo cui “le criptovalute non sono valute, punto e basta”.

[7] L’unica fattispecie non imponibile dovrebbe essere la semplice conversione di una cripto-valuta in un’altra cripto-valuta, dal momento che, in assenza di conversione in una valuta tradizionale, non si manifesterebbe alcuna capacità contributiva. Inoltre, potrebbe essere superato anche il legame con un territorio definito, nazionale o estero, che ha dato luogo a discussioni sulla legittimità dell’obbligo di compilazione del quadro RW, attraverso una specifica indicazione nella dichiarazione dei redditi, oppure tramite l’accesso ai dati dall’Anagrafe tributaria.