Le ragioni della crisi, gli errori di tutti (anche Draghi) e il nodo delle regole

scritto da il 25 Luglio 2022

L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

Dopo la caduta del governo abbiamo visto sbocciare una fioritura di condanne degli altri e di assoluzioni di sé stessi. Era prevedibile, ma in un mondo migliore tutti avrebbero dovuto riconoscere i propri errori, piuttosto che rinfacciare quelli degli altri. Perché in questa crisi hanno sbagliato davvero tutti.

Hanno sbagliato i pentastellati, ovviamente, per aver commesso l’ingenuità di pensare che le loro ‘astuzie’ – volte a manifestare un dissenso senza far saltare il governo – non avrebbero offerto alle destre il pretesto per smarcarsi e dare la colpa a loro. Ma scaricare l’intera colpa sui pentastellati è ingeneroso. Anzi, bisogna riconoscere che questa loro mossa avventata è stata la conseguenza di una strategia di logoramento, esterno e interno, che ha provocato ciò che forse auspicavano le destre e, al tempo stesso, ciò che temeva Di Maio, a riprova del fatto che, sebbene molti sostengano che quest’ultimo sia diventato un politico navigato, la sua ‘astuzia’ appare oggi quella di un cervo, più che di una volpe, come direbbe il Conte Mascetti.

Ha sbagliato dunque (e ancor prima) Di Maio, provocando un terremoto che ha spostato gli equilibri interni del Movimento a favore degli irriducibili e, soprattutto, ha dato loro l’alibi di non essere più determinanti per la tenuta del governo.

Ha poi sbagliato Forza Italia, pensando che la sua scelta non avrebbe dissolto l’immagine (e, a questo punto, smascherato il bluff) di un’identità liberale, europeista e atlantista che aveva cercato di costruirsi negli ultimi anni.

Ha sbagliato, ancora, la Lega, nel tentativo di recupero di una leadership che appare oggi ancor più disperato, nella misura in cui ha trasformato la sua avversaria interna nel leader meno (s)fascista del centrodestra; non tanto per i suoi meriti, quanto per i demeriti degli altri.

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Meloni, Tajani e Salvini

Ha sbagliato, infine, persino Mario Draghi, che pur guidando il governo sostenuto dalla maggioranza più ampia della storia repubblicana, si è ostinato a volere il sostegno di tutti, e pure senza mediazioni. Personalmente provo per Draghi una venerazione totale e avrei approvato ogni sua scelta, anche quelle che non condividevo, ma devo riconoscere che il suo modo di procedere ‘ieratico’ non ha funzionato coi ‘miscredenti’. In una democrazia (ma forse anche in una autocrazia) non basta essere il migliore, non basta avere ragione: occorre anche avere la pazienza e la dedizione per ottenere il consenso di chi ti sostiene. In questo caso poi non serviva nemmeno quello di tutti, cosa assai rara.

Sul cosiddetto metodo Draghi mi ero forse lasciato suggestionare dalle parole di Sabino Cassese, che, nel podcast che ho condotto per questo gruppo con Matteo Erede, aveva elogiato il suo modo di procedere senza mediazioni e negoziazioni. Che però non è così difficile quando si dispone del novanta percento dei voti. Ma se la politica è l’arte del possibile, è ovvio che non ci si possa aspettare di procedere sempre così. Uno statista non può limitarsi alla sacra custodia della propria integrità e dignità: deve anche sapere giocare con le carte che ha. Che in fondo è ciò che deve fare un genitore nell’educare un figlio ribelle, o un imprenditore nel confrontarsi con chi ha obiettivi diversi dai suoi. In proposito mi vengono in mente le parole di Lucia Morselli, sempre nel nostro podcast: “Non è incompatibile avere progetti di lungo termine e anche qualche utile quick-win; il problema è non avere solo quick-win”. Dunque, se Draghi era chiamato a modernizzare il paese, qual era il problema nel fare qualche piccola concessione, magari discutibile, ma poco rilevante? Oppure anche nel tollerare un dissenso nella sua vastissima maggioranza? Per non parlare di rivendicazioni e appelli che possono solo irritare e basta.

Sicché questa crisi è stata la conseguenza non intenzionale di tanti errori che si sono inanellati l’uno dietro l’altro. Se anche solo uno di essi non fosse stato fatto, forse non ci sarebbe stata.

Chissà quante volte sfioriamo tragedie e le evitiamo per una piccola deviazione del corso degli eventi. Ma poiché non ce ne accorgiamo, tendiamo a immaginare il futuro come fa il tacchino di Taleb, che non teme l’arrivo del Giorno di ringraziamento. Prima o poi, però, quel giorno arriva. Inevitabilmente e inesorabilmente.

Per questo più che imprecare gli uni contro gli altri sarebbe meglio attrezzarci per quel giorno. Chi pensa che sia necessario farlo tramite la selezione di una classe politica competente non coglie il nocciolo del problema, che non dipende dalla qualità (vera o presunta) della classe politica, ma dalle sue regole. Senza contare che vagheggiare politici competenti non è molto diverso dal vaneggiare di politici onesti. Non solo perché nella selezione della classe politica valgono le leggi di Cipolla sulla stupidità umana, ma anche perché esistono democrazie ben gestite che si fondano sugli indirizzi politici di cittadini comuni, a cominciare dalla Svizzera. Ciò che più conta, semmai, è distinguere fra gli indirizzi politici e ciò che serve per realizzarli, che ovviamente deve competere a chi è capace e competente. Dunque la soluzione è, ancora una volta, nelle regole, più che nelle persone.

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Mario Draghi

Di quelle funzionali alla stabilità dei governi ho già scritto nel mio ultimo post. Per migliorarne i risultati ci si potrebbe invece ispirare ai modelli delle imprese, che da decenni sperimentano regole per allineare gli incentivi (e i disincentivi) economici dei gestori e dei dipendenti all’interesse sociale.

Per scoraggiare il trasformismo, per esempio, una parte del compenso dei parlamentari potrebbe essere attribuita direttamente al gruppo in cui sono stati eletti, che avrebbe poi il compito di ripartirlo fra i suoi membri. Per migliorare invece l’efficienza e l’efficacia dei provvedimenti, oltre al vincolo di bilancio – senza il quale saremmo già falliti da tempo – si potrebbero fissare obiettivi quantitativi come nei dei budget e nei business plan. E così via. Ma ciò che più appare utile in politica è un sistema di disincentivi volto a far sì che i comportamenti disfunzionali si ripercuotano negativamente su chi li compie, cosa che non accade (quasi) mai.

Queste proposte non sono però sexy e trascinanti. Sicché sentiremo proporci altro, come sempre, ma soprattutto nei prossimi due mesi, ci toccherà sentir straparlare di quanto la guerra sia brutta, la povera gente stia male, le imprese non ce la facciano, i costi siano in aumento, la delinquenza dilaghi, e così via. Gran parte delle proposte delle forze politiche potrebbero pure andar bene, anche perché poche saranno quelle antagoniste fra loro, e lo saranno su questioni più ideologiche che rilevanti. A (quasi) nessuno importa dell’omotransfobia, di quanti anni servano per la cittadinanza o dell’uso delle armi in casa; ma soprattutto nessuna delle opzioni alternative su questi temi divisivi può incidere più di tanto sulla realtà che ci circonda. Viceversa, la qualità di molte cose che facciamo dipende dall’efficienza e dall’efficacia delle regole, dunque sarebbe assai meglio occuparsi di questi problemi.

Quale che sia l’esito delle prossime elezioni, la soluzione di questi problemi sarà nel comune interesse dei vincitori e dei vinti. Auguriamoci che accada, prima che ci si trovi a dover discutere della divisione dei sassi e dell’acqua salata.