Nella campagna elettorale il senso delle anime morte di Gogol’

scritto da il 26 Agosto 2022

Il nome di Pàvel Ivànovic Čičikov, per alcuni, potrebbe rappresentare un bel mistero. Per di più, di questi tempi, un suono siffatto, almeno in un ambito popolare, genererebbe pure un certo imbarazzo: richiamando alla memoria d’un qualsivoglia lettore ‘immagini acustiche’ di provenienza russa, costituirebbe quasi sicuramente, pur se in modo grottesco, per lo meno il timore del putinismo funzionale o di ritorno. Nella realtà, non abbiamo alcunché da temere. Il riconoscimento di Čičikov implica certamente un effetto sonoro slavo orientale, ma, nello stesso tempo, ci conduce unicamente e direttamente all’interno della più nota tra le opere di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Anime morte, un romanzo pubblicato nel 1842, anno in cui l’impero russo era guidato da Nicola I Romanov. Si spera, pertanto, che letteratura e storia ci rendano immuni da sterili considerazioni di carattere politico, sebbene, a spese della nostra disponibilità umana e intellettuale, abbiamo imparato che taluni ‘istitutori’, pur di ammantarsi di convenienza e irreprensibilità, sarebbero pronti a vendere l’anima al diavolo.

Quest’ultima metafora ci è assai utile, più di quanto si possa immaginare. Infatti, Pàvel Ivànovic Čičikov, protagonista gogoliano, era un compratore proprio di anime morte. A questo punto, chi non ha letto l’opera si starà già chiedendo se non sia una contraddizione acquistare le anime dei defunti e se sia mai possibile. In qualche modo e in quel contesto socio-economico, lo era. In pratica, i contadini che morivano poco dopo il censimento risultavano vivi fino al censimento successivo. Ogni proprietario terriero, naturalmente, pagava una tassa il cui ammontare era direttamente proporzionale al numero di contadini posseduti. Avere un elevato numero di contadini, tuttavia, significava anche potere ottenere in concessione gratuita vasti appezzamenti di terreno: insomma, politica fiscale e incentivi di tutte le economie e, nel caso in specie, di quella zarista. Čičikov, da abile truffatore, in pratica, non faceva altro che rilevare a prezzi bassissimi i contadini morti non ancora censiti: i venditori erano felici di privarsene, così da pagare meno tasse, mentre l’acquirente raggiungeva, a poco a poco, il proprio obiettivo.

È lecito chiedersi, adesso, quale sia il legame tra l’aneddoto letterario e la campagna elettorale in corso. A dire il vero, non si dovrebbe fare molta fatica a scoprirlo, ma un’analisi esplicita dei principali messaggi mediante i quali i partiti tentano di catturare i consensi può aiutarci ad andare oltre la semplice percezione. Di fatto, la ‘pubblicità’ elettorale è sempre stata caratterizzata dal vuoto linguistico; non ci vuole un semanticista per sancire la disfatta di sensi e significati politici! Però, in ultimo, s’è determinata la totale assenza dell’oggetto, ovverosia d’un referente del discorso che proietti nella realtà extralinguistica uno spazio di comunione tra candidato ed elettore: tutto nasce e muore nelle parole dello spot. Il paradosso, tuttavia, è il seguente: quanto più indistinto si fa il messaggio, tanto più consistente si fa l’adesione acritica e incondizionata della gente, quale che sia l’emittente.

In sostanza, l’unica elementare funzione di appartenenza che si possa ottenere è data da un indeterminato traffico di anime morte, quei ‘contenuti’ appena scomparsi e non ancora registrati dagli elettori, dal momento che occorre sempre un po’ di tempo, prima di scoprire autenticamente e appieno un bisogno, un bisogno causato da una privazione coatta. E non si pensi che certi comunicatori siano incapaci! Anzi, essi sono molto capaci, quantunque mefistofelici: la cosiddetta “capacità” consiste esattamente nel creare questa stessa privazione, non altrimenti che se fosse un invito implicito a colmare la presunta lacuna. Tutti, in questo modo, si sentono partecipi, laddove, inconsapevolmente, accrescono il numero delle anime morte. È doveroso ricordare che la privazione viene creata non già nell’elettore, bensì come entità a sé stante, equidistante tanto da chi vota quanto da chi vuole ottenere il voto; la qual cosa serve principalmente a neutralizzare le possibili reazioni avverse. A ben vedere, si tratta di una strategia linguistico-comunicativa del tutto diversa da quella adottata da Berlusconi nel 1994, il quale, nell’opporsi ad Achille Occhetto, fece ampiamente leva sulla funzione emotiva del linguaggio e, di conseguenza, sulla personalizzazione della scena: una sorta di identificazione metonimica tra persona e programma o persona e atto veicolata insistentemente dall’enunciazione egotica “io credo”. Ne conseguì, com’è noto, una radicale trasformazione della propaganda degli anni a venire, nel corso dei quali i candidati di turno hanno inscenato la farsa del presidenzialismo immaginario.

elezioni

(Ansa)

Chi ha pensato di attingere forza dalla semantica del verbo credere, rievocando, più o meno deliberatamente, i primordi berlusconiani, è stato Salvini: “Credo negli italiani”. Egli, a differenza dell’alleato di Forza Italia, sfrutta l’obliquità della relazione sintattica tra predicato e complemento, retta dalla preposizione articolata “negli”, trasferendo sull’oggetto “italiani” ciò che, in precedenza, era rappresentato dall’io. Il fenomeno di slittamento, pertanto, è un dato molto significativo. Il fatto è che, in ogni caso, l’oggetto resta sempre fittizio. Infatti, un’asserzione dotata di senso o, diversamente, un’asserzione con la quale si volesse comunicare qualcosa dovrebbe contenere limpidamente tema e rema, vale a dire, rispettivamente, l’informazione già nota al ricevente e l’informazione nuova. “Negli italiani” non è un’informazione ‘limpidamente nuova’, sebbene i fedelissimi possano immaginare il modello sociale ideale che dovrebbe essere simboleggiato dal sintagma in questione.

“Pronti a risollevare l’Italia” fa scrivere Giorgia Meloni sui manifesti. Dal “credo” al “pronti”, messi entrambi in risalto rispetto al resto del messaggio, il modulo linguistico non cambia. Siamo sicuramente in presenza di due costruzioni speculari, anche se non sono affatto congruenti. “Credo negli italiani”, “Pronti a risollevare l’Italia”: le differenze sono sotto gli occhi di tutti. Il soggetto di Salvini è singolare, quello della Meloni è plurale, per quanto l’enfasi sia data sempre alla prima persona. L’obliquità di Salvini si muta in pretta transitività con la Meloni. Se Matteo Salvini si mostra, per così dire, fiducioso e speranzoso, pur non indicandone i motivi, Giorgia Meloni, al contrario, mira a destabilizzare la coscienza collettiva con un tema sempre in voga, quello del dolore condiviso, che seduce il cittadino medio tanto quanto lo affligge. È costume di tutte le civiltà, infatti, dare vita alle mute del lamento: ciò che conta è lamentarsi, non ciò di cui ci si lamenta. Canetti docet. Perché e da cosa dobbiamo risollevare l’Italia? L’oggetto è elegantemente occultato. Giorgia Meloni, tuttavia, ha un grande vantaggio: essendo sempre stata all’opposizione, può affrontare beatamente anche le anime morte. La condizione del governatorato e il ritardo di censimento non si possono imputare a lei. Per converso, Salvini, che non si può concedere certe licenze, non può fare altro che credere; deve guardare oltre il già fatto. Ecco spiegata la mancata congruenza! La semantica non è un passatempo da bar dello sport, anche se i comunicatori di professione, spesso, non se ne curano adeguatamente.

Berlusconi e la comitiva di Forza Italia si lasciano velare piacevolmente dalla contraddizione, commerciando apertamente e spregiudicatamente in anime morte. Ci raccontano che “la sinistra demonizza l’avversario” e annunciano di “parlare del progetto politico”, ma cominciano proprio parlando male della sinistra. Di certo, non hanno torto nel sostenere che la sinistra demonizza l’avversario, ma il loro atto linguistico assertivo, ossia la parte del discorso in cui manifestano una certa conoscenza (“la sinistra demonizza l’avversario”), è controverso e, insieme, ingannevole: in effetti, rispetto al contesto, è una proposizione rematica, giacché grazie a essa, il destinatario verrebbe a conoscenza di qualcosa, tuttavia, nel momento in cui si usa la congiunzione avversativa “ma”, si sospende chi legge o ascolta all’esplicitazione di un contenuto (“parliamo del nostro progetto politico”), che non viene astutamente esplicitato. Perché lo si fa? Perché, in questo modo, l’attenzione resta su ciò che si condanna in apertura: la “demonizzazione dell’avversario”.

Hanno pensato davvero a tutto questo coloro che hanno elaborato il messaggio elettorale? Difficile a dirsi. L’evidenza è certamente incontestabile.

La cosiddetta sinistra – l’aggettivo “cosiddetta” è giustificato da un linguaggio di partito che, da tempo ormai, è più sinistroide che sinistrorso – sembra, sulle prime, sottrarsi al traffico di anime morte, quasi volesse cambiare atteggiamento e governatorato. Il sembrare, però, come c’insegnano i grammatici latini, da cui tuttora dipende l’Europa romanza in fatto di parole e parlate, checché ne dicano i post-modernisti, i post-strutturalisti e tutti i ‘post-isti’ ai quali si voglia far posto, è un esser visti in un certo modo, un apparire che non sempre corrisponde all’essere, un accidens (“ciò che cade sopra”) che abbisogna sempre d’una substantia (da sub- e stare, stare sotto). Insomma, la loro proposta linguistica avrebbe fatto impallidire i logici di Port-Royal, per i quali un’enunciazione di senso compiuto e strutturata secondo capacità di giudizio dovrebbe sempre esprimere una connessione di soggetto e attributo in estensione e comprensione: se dico “il politico intelligente”, “intelligente” è attributo di politico: l’estensione del termine è data dalle proprietà che lo caratterizzano, mentre la comprensione è la dimensione semantica di pertinenza del soggetto di cui possiamo predicare una certa cosa. Ebbene? A sinistra, trascurano molto di frequente questa connessione. “Italia rinnovabile” sarebbe un messaggio limpido e quasi convincente, se non fosse accompagnato da “zero burocrazia per le aziende green, più lavoro, bollette più basse”. Per illustrare la causa di questo disastro non bisogna convocare solennemente i linguisti. Il linguista può solo farci notare che i discorsi – perché abbiano un discreto successo – devono rispettare massime e criteri della cooperazione socio-linguistica. Lo ha scritto e ben descritto parecchio tempo fa Paul Grice, non Francesco Mercadante in un articolo. Salvini ha almeno avuto il buon senso di prendere le distanze dall’esperienza di Governo. Letta e soci no. In considerazione dei rincari attuali e della gestione della recente crisi geopolitica, un partito di governo non può pretendere di essere credibile denunciando indirettamente un fenomeno che avrebbe dovuto e potuto contrastare già da tempo. Lo stesso dicasi per la burocrazia e il lavoro!

Di questo stesso distacco logico-semantico è vittima Matteo Renzi, attorno al quale, una volta analizzato il modulo comunicativo del Partito Democratico, si può dire molto poco. Grosso modo, la tecnica è simile. Il leader di Italia Viva, però, s’avventura in un’iperbole inutile e dannosa: “C’è l’anima del paese dei nostri figli nel terzo polo, non una triste macchina da guerra per vincere (…)”. Nessun comunicatore assennato oserebbe mai accostare l’immagine dei figli a quella delle macchine da guerra. E non si capisce proprio cosa sia passato per la testa ai consulenti di Renzi. Il riferimento metaforico esasperato (“macchina da guerra”) è, ancora una volta, una violazione, questa volta ‘parossistica’, dei principi della cooperazione, oltre che uno spreco del lavoro di Grice. Forse che un politico è tenuto a conoscere Grice? Un politico no, un comunicatore sì.

Dulcis in fundo, limitandoci alla valutazione dei messaggi degli ‘schieramenti’ principali, il Conte ferito, ma romantico, del Movimento 5 Stelle e lo sfrontato Calenda di Azione. “Il nostro presidente” affermano nostalgici i pentastellati, come se tempi e governi non fossero cambiati: l’uso del possessivo “nostro” è troppo generoso e, soprattutto, troppo lontano dal mondo e dalla realtà perché non se ne abbia autentica compassione; il che, purtroppo, è un guaio per un candidato. In questo caso, la potenza gogoliana si fa archetipica e sovrasta l’individuo vivente, a tal punto che reputiamo ingiusto aggiungere altro.

Abbiamo il dovere, adesso, di dedicare un po’ d’attenzione a Calenda, il quale può solo essere ‘ricordato’ così: “Uniti per vincere”. Ma questa sintesi di compagnonaggio appartiene ormai a un’epoca remota e irrecuperabile, quando Carlo Calenda schioccava teneri baci sulla guancia di Enrico Letta.