Non è un Paese per i contanti (e altre questioni fiscali)

scritto da il 28 Ottobre 2022

Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –

Ci fu un tempo in cui sui giornali si discusse su quanto fosse la giusta “modica quantità”. Poi venne l’empirismo soggettivo della fissazione dei limiti di velocità. In seguito, tra gli addetti ai lavori, quanto fosse il “modico valore” per la non tassabilità delle donazioni.

Ecco, la discussione sulla “soglia massima” all’utilizzo del contante assomiglia molto a quelle discussioni. Solo che, questa come quelle, se affrontate con piglio ideologico (da una parte e dall’altra), spesso brandendo (come una clava) riferimenti a documenti che (quasi) nessuno ha letto fino in fondo (e, peraltro, a volte viene il dubbio che non l’abbia fatto nemmeno chi si arma di quelle citazioni), non portano da nessuna parte e, anzi, si alimenta una sterile contrapposizione che non aiuta a fare chiarezza.

Il fatto (vero) è che esistono “più” ragioni, anche contrapposte fra loro, il cui bilanciamento si trova – a favore di una tesi o dell’altra – solo avendo chiaro quale sia la visione del futuro che ciascuno ha in mente. E, di conseguenza, ricorrere ad un po’ di (sano) pragmatismo dovrebbe aiutare a comprendere meglio quale siano i termini della questione e cosa ci sia in gioco.

Andiamo per ordine.

L’ottovolante del limite alle transazioni in contanti

Il limite alle transazioni in contanti, in Italia, è oscillato molto, negli ultimi anni. Dal 1991 e fino all’introduzione dell’euro il limite era fissato in 20 milioni di lire; a dicembre 2002 divenne 12.500 euro; nel 2008, prima scese a 4.999,99 (ad aprile) e poi risalì a 12.499,99 (giugno); nel 2010 torna a 4.999,99, ma nel 2011 prima scende a 2.499,99 (agosto) e poi viene portato a 999,99 (dicembre); infine, nel 2016 viene rialzato a 2.999,99 euro e nel 2018 introdotto il vincolo di non poter utilizzare i contanti nei pagamenti per le buste paghe. Recentemente, viene portato a 2.000,00 nel 2020 e poi fissato a 999,99 (Legge di bilancio 2021) per poi essere subito modificato a 1.999,99 (col decreto milleproroghe), rinviando la riduzione a 999,99 ad annualità successive, ma lasciando a tale cifra più bassa il limite per i pagamenti tramite F24 e verso la PA.

contanti

Da una parte, si sostiene che una più rigida limitazione dell’utilizzo dei contanti (per singola transazione, anche se frazionata nel pagamento) serva a ridurre l’evasione e il reimpiego di capitali illeciti; fino ad arrivare all’estremo dell’ipotesi dell’abrogazione tout court dell’uso dei contanti.

Dall’altra, all’estremo opposto, si sostiene che sia una “limitazione delle libertà individuali” e che non vi sia correlazione “certa” fra l’utilizzo dei contanti e l’evasione (o il riciclaggio), evidenziando il fatto che esistono altri sistemi (elusivi) anche con operazioni finanziariamente “tracciate” o tramite l’utilizzo (improprio) di criptoasset.

La moneta elettronica penalizza i poveri?

Il (o “la”, nda) premier Meloni ha sostenuto che l’innalzamento della soglia (già parte del programma di Fratelli d’Italia, ma subito proposto dalla Lega a 10.000 euro, anche se probabilmente verrà fissato a un livello intermedio, 3 o 5 mila) è necessario anche perché la “moneta elettronica privata penalizza i più poveri”.

Tralasciando qui – per ovvie ragioni di spazio – il commento sulla definizione (errata, tecnicamente) di moneta elettronica “privata”, va innanzitutto detto che, da un lato, è certamente vero che le commissioni bancarie sull’utilizzo delle carte di credito abbiano un costo e che questo incida maggiormente al ridursi dell’importo della singola transazione, anche se questa tipologia di costi grava in via diretta sull’esercente e non sul soggetto pagatore, mentre, dall’altro, i soggetti definibili come “poveri” non hanno probabilmente disponibilità tali da avere l’esigenza di effettuare singole transazioni di dimensione atta a giustificare l’innalzamento del limite a cifre oggettivamente molto elevate o, ancor meno, da eliminarlo del tutto.

Come, d’altro canto, appare per contro razionalmente ingiustificata la tesi di eliminazione del contante in favore della sola moneta elettronica; in proposito, senza scomodare filosofiche lotte libertarie, si pensi a situazioni comuni di piccole regalie fra parenti, soprattutto se minori e senza disponibilità di utilizzo di conti bancari, ovvero – come l’attuale denegata realtà ci sta proponendo – ove vi fossero razionamenti (o blocchi) di elettricità dovuti a fattori eccezionali (eventi climatici, effetti di conflitti armati).

Ancora, dal lato soggettivo, si scontrano le esigenze di comodità pratica (anche qui evito di usare il termine “libertà”) di poter pagare anche senza dover prelevare agli sportelli automatici (e anche per piccole cifre), da un lato, e la difficoltà di utilizzo (in alcune situazioni) per i soggetti anziani non abituati alla tecnologia (non “nativi digitali”, secondo la definizione più recente). Se non addirittura il rischio di esclusione sociale per quei soggetti privi di rapporto bancario (si pensi a soggetti indigenti e/o a soggetti “cattivi pagatori” a cui viene negato l’accesso ai rapporti bancari).

Invero il tema non sono gli estremi della questione – solo moneta elettronica o nessun limite ai contanti – bensì la fissazione di un limite ad una soglia “giusta”, al fine di “prevenire” fenomeni evasivi e/o illeciti. Quindi la questione (tecnica) deve necessariamente indagare se esistano o meno idonee correlazioni che possano far pendere la bilancia su un limite più o meno stringente.

Le ricerche sulla limitazione all’uso dei contanti

Occorre dire che in favore della correlazione, tra l’introduzione di limitazioni all’utilizzo dei contanti e riduzione del volume dell’evasione, si pongono due ricerche indipendenti. Una del settembre 2020, intitolata “cash thresholds, cash expenditure and tax evasion” (Russo; per il CSEF – Centre for Studies in Economics and Finance – promosso dalle università di Napoli-Federico II, Salerno e Bocconi). L’altra dell’ottobre 2021, dal titolo “Pecunia olet – l’uso del contante e l’economia sommersa” (Giammatteo, Iezzi, Zizza; Occasional Paper, Banca d’Italia).

Entrambe giungono a conclusioni sostanzialmente sovrapponibili, evidenziando la correttezza dell’assunto che l’introduzione di limiti all’utilizzo dei contanti contribuisca al contrasto all’evasione. Va detto che, ovviamente, ci si riferisce alla cd. “evasione di prossimità” e non alle “grandi manovre elusive” e, ancora, che ci si riferisce al reimpiego di contante di (possibile) provenienza illecita sostanzialmente nei consumi “abituali” e non al “reinvestimento strutturato” di dette somme.

Anche la Commissione UE, nell’ambito del pacchetto di modifiche alle disposizioni contro il riciclaggio e al finanziamento al terrorismo presentato nel luglio 2021, è intervenuta sul tema, assieme alla proposta di istituzione di un’Authority antiriciclaggio europea (AMLA) e all’estensione dell’applicazione di tali norme ai cd. criptoasset, proponendo l’introduzione di un limite unico ed omogeneo ai Paesi membri, individuandolo (come compromesso tra quelli esistenti) in 10.000 euro.

Cosa succede in Europa

Già, perché (anche) su questo i singoli Paesi finora sono andati in ordine sparso. Si va dal limite più basso della Grecia (500 euro) a quelli simili all’Italia del Portogallo (1.000) e del Belgio (3.000), a quelli più elevati dei paesi dell’est-Europa (da 5 a 15.000), passando da limiti diversificati (fra residenti e non residenti) come in Francia (rispettivamente 1.000 e 15.000) e in Spagna (2.500 e 15.000), fino all’assenza di limitazioni in Paesi come Germania, Austria, Olanda e Lussemburgo.

Ma ciò non deve trarre in inganno, poiché di quei Paesi senza limitazioni, alcuni escono (rectius, stanno ancora uscendo) da un passato di “simil-paradiso-fiscale” (quindi “captive” di capitali stranieri; per dire, recentemente anche la Svizzera ha introdotto limitazioni, seppur più elevate di quelle europee, ai prelievi e all’uso del contante) e la Germania non può dirsi certo “virtuosa” in termini di compliance fiscale, dato che la sua evasione stimata è, in termini di importi, maggiore di quella italiana (seppur minore, in percentuale al PIL, essendo quest’ultimo maggiore).

Inoltre, posto che a livello internazionale si sono introdotte limitazioni all’anonimato (per le partecipazioni societarie e per i conti e depositi finanziari) e sono entrati in vigore i cd. scambi di informazioni automatici (CRS – common reporting standard, in sede OCSE – e FATCA, con gli Stati Uniti) fra le varie autorità fiscali aderenti, l’utilizzo dei contanti costituisce un vulnus all’efficacia di tali accordi, che si aggiunge alle non ancora del tutto puntuale ed efficace loro implementazione da parte di alcune nazioni.

La stessa BCE, che ai tempi del Governo Conte II aveva richiamato l’Italia segnalando l’esigenza di non penalizzare i meno abbienti con limitazioni troppo stringenti che avrebbero potuto comportare aggravi di costi per i servizi essenziali (come ricordato dal Premier sul punto), si è comunque mostrata favorevole all’introduzione di una soglia di utilizzo, nel momento in cui fu proposta – e poi non ancora introdotta – in Olanda.

Quanto pesa l’economia sommersa

Va altresì rilevato che in Italia la dimensione dell’economia sommersa – e la sua composizione – si è modificata nel corso del tempo. Tralasciando la comprensibile vacuità della stima di qualcosa che per sua natura sfugge a rilevazioni puntuali, adottando modelli valutativi simili nei vari Paesi (cd. criteri EuroStat), il valore del PIL di una nazione “contiene” la stima dell’evasione (e delle attività illecite). I più recenti dati ISTAT, sul 2020, anno in cui è scoppiata la pandemia, parlano di un’economia “non osservata” in calo più che proporzionale rispetto al calo dell’economia “regolare”, attestandosi a circa 174 miliardi di euro, di cui 157 relativi al “sommerso”.

L’incidenza sul PIL è scesa dall’11,2% (5,7% le “sottodichiarazioni”, 4,6% il lavoro irregolare) del 2017, al 9,5% (rispettivamente, 4,8% e 3,8%) del 2020. Stime annue, dunque, di circa 80 miliardi di “evasione” e 62 di “lavoro in nero”, con però forti differenze rilevabili fra settori di attività e singole tipologie di contribuenti, a cui va aggiunto circa un altro punto percentuale – per circa 17 miliardi di euro – di “attività illecite”.

Per contro, nel 2022, va anche ricordato che le entrate tributarie (periodo gennaio – agosto) sono aumentate di circa 41/42 miliardi e quelle contributive di circa 12 miliardi. Portando così l’incidenza (nominale) della pressione tributaria sul PIL al 42,4% (quella “reale”, cioè al netto dell’effetto incrementativo del PIL dato dall’aggiunta della stima dell’evasione, si attesta dunque al 47% circa).

Il nuovo patto fiscale

Nel discorso alla Camera, Meloni ha parlato di “un nuovo patto fiscale”, puntando a una diminuzione della pressione fiscale su imprese e famiglie “all’insegna dell’equità”.

In tema di Irpef, verrà perseguita l’introduzione “graduale” del quoziente familiare (sostanzialmente, a prescindere da quale forma tecnica verrà utilizzata, poiché ve n’è più d’una utilizzabile, una riduzione del carico fiscale inversamente proporzionale al numero dei componenti del nucleo familiare). A seguire l’estensione della “tassa piatta” per le micro-attività da 65 a 100 mila euro di volume d’affari (in realtà, pare più probabile che la soglia venga portata a 85 mila). Infine, l’introduzione di una “tassa piatta incrementale” (probabilmente a più aliquote) sull’eccedenza del reddito dichiarato rispetto alla media dell’ultimo triennio (non si sa ancora a quali soggetti sarà applicabile e per quanti anni).

Inoltre, ha parlato di “tregua fiscale” per permettere la “regolarizzazione” dei debiti fiscali, soprattutto per le PMI (non è ancora chiaro se solo una dilazione temporale nei pagamenti di debiti scaduti, una riedizione della rottamazione delle cartelle o una forma di condono più o meno generalizzato).

Infine, in tema di “lotta all’evasione”, ha puntato il dito verso gli evasori totali, le grandi imprese e le grandi frodi.

Se manca equità orizzontale non è maggiore equità

In termini di principio, va detto che una generalizzata riduzione fiscale sarebbe certamente buona cosa, pur al netto del non sapere ancora quali coperture verranno messe in campo. Se improntata all’equità, ancora di più. Ma – c’è sempre un “ma” – dietro il principio il problema consiste in “quali” modalità si vuole raggiungere questo risultato.

Infatti, se per “equità” si intende “equità orizzontale” (cioè, pari tassazione a parità di reddito, qualunque provenienza abbia e per qualunque tipologia di contribuente, almeno per le persone fisiche), le proposte avanzate non vanno nella direzione di “maggiore equità”, introducendo anzi ulteriori elementi distorsivi a un quadro già di per sé complicato e distorto quale è l’attuale sistema fiscale.

Intendiamoci, al nostro Paese una riforma fiscale – magari anche meno timida di quella che la scorsa legislatura era stata ad un passo da approvare – serve; una minore tassazione, anche; una seria (e “serrata”, cit.) lotta all’evasione, pure.

Ma l’introduzione di una “tassa piatta” (i.e. flat tax), che poi, semantica a parte, tanto piatta non è (poiché essa sottintenderebbe un’unica aliquota, mentre la sua applicazione attuale – e proposta – è solo fino a una certa soglia di fatturato, in un caso, o a partire da una base imponibile triennale preesistente e a più aliquote crescenti al crescere del reddito, nell’altro) allontana l’obiettivo di “equità orizzontale”. Può verificarsi, infatti, il caso di contribuenti con diverse caratteristiche soggettive che, a parità di reddito, si troverebbero a pagare differenti oneri tributari.

Se già oggi, nonostante gli auspici, è così in alcuni casi (rendite finanziarie e immobiliari soggette a imposte sostitutive, ad esempio) e se normare una riduzione in funzione dei carichi familiari appare condivisibile come obiettivo politico, rafforzare e introdurre di nuove distorsioni è incoerente con l’obiettivo dichiarato.

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Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni

A meno che l’obiettivo non sia in realtà un altro, che invero renderebbe le parole usate dal Presidente del Consiglio più coerenti e lineari. Ma che diverrebbero (forse) meno condivisibili, sotto il profilo “tecnico”.

Contanti, tassa piatta, tregua fiscale: a chi conviene?

Da tutto quanto sin qui illustrato, “sommando” le intenzioni sui contanti, la riformulazione della “tassa piatta”, le possibili forme di “tregua fiscale” implementabili e la “selettività” dei bersagli per il contrasto all’evasione, cosa emerge in controluce? Il profilo di una specifica ben determinata categoria di soggetti beneficiari: le micro attività, fatte di piccoli negozianti, piccoli artigiani, e piccoli professionisti; e le piccole imprese industriali.

Soggetti che, nell’immaginario collettivo, coincidono con l’elettorato medio dell’attuale maggioranza. Ma che, sotto il profilo economico, pur necessitando forme di tutela, non rappresentano oggi il fattore competitivo determinante per la crescita economica di un Paese che vuole recuperare la propria leadership internazionale.

Certo, cogliere l’opportunità di un vantaggio fiscale – e, implicitamente, di una maggiore tolleranza ai comportamenti non-compliant, siano essi legati ai mancati pagamenti erariali che a quella parte di utilizzo dei contanti al servizio del piccolo sommerso – nei fatti non dispiace a nessuno.

Ma è davvero questo quello che serve all’Italia? Non sarebbe meglio arrivare magari ai medesimi benefici con una riforma di sistema più generalizzata. Una riforma che dia vantaggi a tutti i contribuenti e che si regga su una maggiore compliance fiscale diffusa e su una efficace spending review qualitativa?

Per concludere, è vero che non tutte le transazioni in contanti, anche di importi rilevanti, debbano per forza essere indizio di illeciti economici. Ma è altrettanto vero che l’individuazione di una soglia in sé più o meno ampia non è l’acceleratore della crescita economica.

Il rischio è che diventi invece il primo passo per un sistema economico-fiscale che, guardando all’indietro, torni a premiare (solo) un “bacino di riferimento” piuttosto che (tutte) le vere potenzialità di crescita economica.