L’esplosiva questione dei salari in Italia

scritto da il 05 Dicembre 2022

Articolo a cura di Davide Lanticina per Accademia Politica – 

Una delle maggiori criticità che affliggono l’economia italiana è il ridotto potere d’acquisto del denaro. Questo è dovuto non solo all’inflazione (12,8% su base annua, come riportato dall’Istat), che peraltro è comune a tutti i Paesi occidentali, bensì soprattutto ai salari praticamente bloccati da oltre 30 anni. Rispetto all’anno 1990, l’Italia è infatti l’unico Paese UE con salari addirittura decrescenti (-2,9%), a fronte di incrementi corposi nelle altre economie mature.

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Fonte: Openpolis

A dispetto di facili conclusioni, questa situazione non è imputabile né al lockdown dovuto alla pandemia, né alla rottura delle global value chain in seguito ai recenti sconvolgimenti macroeconomici. È lecito domandarsi, dunque, come sia possibile che in un mercato occidentale volto al libero scambio, l’equalizzazione dei prezzi dei fattori produttivi non abbia influito positivamente anche sui salari italiani; analogamente, sembra controintuitivo vedere dei saggi di crescita tanto corposi in economie più avanzate -o “più mature”- di quella italiana (Francia, Germania e Svezia su tutte).

Ebbene, la soluzione è da ricercarsi in quella che i macroeconomisti chiamano Total Factor Productivity (TFP). Alla TFP sono associabili, intuitivamente, la ricerca, l’efficienza della Pubblica Amministrazione, l’equità della giustizia, etc.; in breve, lo scenario economico. In concreto, la TFP dipende eminentemente da tre aspetti: progresso tecnologico, qualità del capitale umano e bontà delle Istituzioni. Analizziamoli nel dettaglio.

La mancanza di modernizzazione

L’economia italiana si basa molto sulle aziende a conduzione familiare, che però sono in genere più piccole e meno produttive delle loro equivalenti in altri Paesi. Questo problema è peggiorato negli ultimi decenni. In effetti, negli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, quando i ritmi di crescita erano serrati, “il modello di business delle piccole e medie imprese ha guidato la crescita, ma molte di queste aziende non hanno investito in ricerca e sviluppo e non hanno né le capacità di gestione, né il capitale umano per consentire loro di competere su scala globale” (Silvia Ardagna – Barclays).

Secondo lo SME tracker della Commissione Europea, il 95% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti. I dati dell’OCSE mostrano inoltre che le aziende italiane di quelle dimensioni hanno livelli di produttività del lavoro inferiori rispetto alle loro pari altrove. Il seguente grafico mostra il valore aggiunto da ogni dipendente, distinguendo le imprese per dimensione.

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Fonte: Financial Times

In realtà, neanche le aziende più grandi riescono a innovare, molte volte a causa della proprietà familiare,resistente al cambiamento o per le difficoltà a ottenere credito.

L’ultima indagine economica dell’OCSE sull’Italia ha mostrato che, contrariamente all’esperienza della maggior parte degli stati membri, la produttività tra le aziende più efficienti in Italia sta diminuendo ancora più rapidamente che tra quelle meno produttive. Il seguente grafico mostra l’andamento della produttività in alcuni Paesi OCSE, prendendo come riferimento l’anno 2000 (fissato a 100).

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Fonte: Financial Times

Come si riflette l’istruzione sui salari 

Un buon proxy per la qualità del capitale umano è il livello di istruzione e formazione della popolazione. A tal proposito, secondo il rapporto PISA (Programme for International Student Assessment) dell’OCSE, i quindicenni italiani hanno prestazioni in matematica, scienze e lettura inferiori rispetto alla maggior parte dei loro coetanei. A ciò, si aggiunge che meno di un italiano su tre tra i 25 ei 34 anni ha un titolo universitario, ben al di sotto della media OCSE del 44%. Infatti, l’Italia ha uno dei più alti tassi di abbandono degli studi nell’OCSE e circa un italiano su quattro di età compresa tra i 15 ei 34 anni non lavora né studia: è la percentuale più alta nell’UE. Il seguente grafico mostra i risultati dei test PISA, in termini di differenza con la media OCSE.

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Fonte: Financial Times

Qualora questi possano sembrare solo numeri senza significato, l’OCSE stima che in Paesi come Francia, Germania e Stati Uniti, la qualità del capitale contribuisce ogni anno allo 0,5% della crescita del PIL. L’effetto si deve a dinamiche di complementarità tra capitale umano e capitale fisico, che origina esternalità positive: in sostanza, si innesta un circolo virtuoso tra capitale umano e capitale fisico che genera un effetto positivo sulla produttività.

Un Paese non attrattivo

Venendo all’ultimo punto, per giudicare la bontà delle Istituzioni si fa riferimento agli indicatori di governance forniti dai report annuali della Banca Mondiale. L’Italia è mal posizionata sull’ease-of-doing-business index, con una particolare insoddisfazione per i servizi pubblici destinati al business.

Per l’appunto, secondo questo indice, l’Italia si trova al 111° posto su 190 Paesi del mondo per facilità di far rispettare i contratti. L’Italia ha un punteggio altrettanto scarso sulla burocrazia per la risoluzione delle insolvenze, per il pagamento delle imposte e per la gestione dei permessi di costruzione. Il sistema di giustizia civile, infatti, è al penultimo posto tra 35 Paesi ad alto reddito (fonte: WJP – World Justice Project).

Nel concreto, questo significa che “in Italia ci vuole molto più tempo che in altri Paesi sviluppati per concludere processi civili e penali, con conseguenze per l’ambiente imprenditoriale” (Mauro Pisu – esperto OCSE). È come se la Pubblica Amministrazione inefficiente agisse quale costo aggiuntivo per le imprese, frenando gli investimenti e la crescita. Il seguente grafico mostra il rule of law index nei principali Paesi ad alto reddito:

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Fonte: Financial Times

Basti pensare che l’Italia, pur avendo un’economia più grande rispetto alla Spagna, ha ricevuto meno della metà degli investimenti diretti all’estero (IDE) greenfield di quest’ultima a partire dal 2003.

greenfield

 

Fonte: Financial Times

Salari sintomo di economia stagnante

Possiamo affermare quindi che salari fermi sono l’emblema di un’economia stagnante, inospitale per le imprese e non interessante per chi abbia capitale da investire. Ammesso e non concesso che si disponga dei fondi, non si alzano i salari come si abbassano le bollette, con una manovra economica. Essi richiedono una visione programmatica di lungo periodo, che si traduca in una maggiore attenzione alla scuola e ai giovani, nonché in profonde riforme semplificatrici di giustizia civile che attualmente non invoglia – per usare un eufemismo – all’iniziativa economica.