Inflazione, perché è qui per durare ma non va temuta dagli investitori

scritto da il 22 Marzo 2023

Post di Frederic Leroux, membro dello Strategic Investment Committee di Carmignac – 

Il calo dell’inflazione negli Stati Uniti dallo scorso giugno ha innescato una forte ripresa dei mercati azionari negli ultimi mesi. Le aspettative di inflazione, così come è possibile dedurle dal prezzo delle obbligazioni indicizzate all’inflazione, lasciano intravedere un ritorno a circa il 2,5% a partire dal prossimo mese di giugno, e una successiva stabilizzazione nel corso degli anni seguenti. La prospettiva è quella di un ritorno duraturo al contesto di mercato del decennio 2010, con rendimenti netti corretti in base all’inflazione ampiamente favorevoli agli asset finanziari e immobiliari, e facilmente replicabili dalle gestioni passive. Da parte nostra, non prevediamo uno scenario di questo tipo.

Le economie avanzate stanno entrando in una fase inflazionistica del ciclo economico a lungo termine, dove l’offerta non sempre riesce a tenere il passo con la domanda. Il rapido susseguirsi di periodi di crescita dell’inflazione, alimentata dalle pressioni strutturali, e di rallentamenti disinflazionistici, orchestrati dalle Banche Centrali, ripristina una ciclicità economica che penalizza le gestioni passive a favore di gestioni più dinamiche e di tematiche che hanno risentito della scomparsa del ciclo economico.

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Immagine dal Sole 24 Ore

Inflazione, ecco altri fattori che la alimentano

Oltre ai fattori strutturali, quali il contesto demografico o il minore dinamismo dell’attività commerciale globale, l’inflazione è alimentata da altri due fattori: la decarbonizzazione delle economie e il cambiamento del rapporto con il lavoro.

La decarbonizzazione delle economie determina un drastico calo degli investimenti nei combustibili fossili, e quindi una flessione strutturale delle riserve e un aumento dei prezzi dell’energia. Negli ultimi dieci anni, sono state investite diverse migliaia di miliardi di dollari a favore della transizione energetica, e tuttavia la quota di combustibili fossili nei consumi di energia a livello globale è diminuita soltanto di poco più di 1 punto, attestandosi all’81%. Questa situazione racchiude in sé gli ingredienti di una crisi energetica della stessa portata di quella che ha contribuito all’ultima grande fase inflazionistica, dal 1965 al 1980, alimentata dallo shock petrolifero del 1973.

Il deficit energetico strutturale

L’OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) ritiene, non a caso, che annualmente e fino al 2045 si dovrebbero investire 1.500 miliardi di dollari nello sviluppo dei combustibili fossili, rispetto ai 1.000 miliardi attuali, per garantire la sicurezza energetica. La verità è probabilmente a metà strada tra questi due dati, ma non permettiamo che la guerra in Ucraina nasconda ai nostri occhi il tema più ampio del deficit energetico strutturale, che stiamo aggravando.

Inflazione spinta da offerta di lavoro insufficiente

Allo stesso tempo, il profondo cambiamento del rapporto con il lavoro, che determina il calo delle ore lavorate, la diminuzione del numero di lavoratori e la mobilità molto elevata della manodopera, e quindi la perdita di produttività, rischia fortemente di portare anche a una mancanza di offerta sostenibile. Le imprese non riescono più ad assumere per far fronte a condizioni soddisfacenti alla domanda. È quindi normale che si inizino a registrare conseguenti aumenti salariali. Ad esempio, Inditex (proprietaria di Zara) e Uniqlo hanno effettuato aumenti salariali compresi tra il 20% e il 40%.

Il rallentamento legato a un’offerta insufficiente è un fattore inflazionistico, che rende più complessa la gestione delle contromisure monetarie da parte delle Banche Centrali. Pertanto, la serie di rialzi dei tassi di riferimento decisa dalla Federal Reserve, di portata e rapidità senza precedenti (475 punti base in 10 mesi), si combina paradossalmente con un tasso di disoccupazione negli Stati Uniti ai minimi dal 1969.

Le recessioni orchestrate dalla Banche centrali? Brevi e poco incisive

La battaglia contro l’inflazione sarà presumibilmente vinta nel breve periodo attraverso qualche altro aumento dei tassi di interesse, i quali probabilmente innescheranno la recessione necessaria a indurre un calo dei prezzi, indebolendo i consumi ma senza risolvere il problema legato al deficit dell’offerta. La minore disponibilità di manodopera e l’aumento dei prezzi dell’energia saranno contrastati solo sporadicamente dalle politiche monetarie e fiscali, considerato quanto la soglia di tolleranza del dolore nei paesi economicamente avanzati si sia abbassata. Le recessioni orchestrate dalle politiche economiche e monetarie per ridurre l’inflazione saranno quindi brevi e poco incisive; insufficienti per sconfiggere l’inflazione in modo duraturo.

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Inflazione, non bisogna temerla perché offre numerose opportunità

La capacità della nostra gestione obbligazionaria di trarre vantaggio dai rendimenti delle obbligazioni pubbliche e corporate in un contesto di tassi di interesse più alti, nell’individuare le situazioni asimmetriche nell’universo emergente, o nel gestire l’esposizione ai tassi di interesse rappresenta un importante punto di forza in questo contesto economico.

La previsione di indebolimento dei tassi reali dovrebbe sostenere i mercati azionari. Questa prospettiva giustifica anche un’esposizione significativa all’oro. Per quanto riguarda la Cina, l’assenza di inflazione in questa fase le conferisce caratteristiche di forte diversificazione.

L’introduzione di una strategia inflazionistica all’interno della nostra gestione consente di sfruttare al meglio le numerose opportunità che il ciclo economico offrirà, fornendo al tempo stesso possibilità di diversificazione. Non dobbiamo temere l’inflazione, ma renderla nostra alleata.