Banche in crisi, per ora senza effetto domino. E le scelte della Bce

scritto da il 28 Marzo 2023

Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali – 

Non solo Silicon Valley Bank e Signature, ormai “andate” – più altre cinque/sei banche medio piccole negli States “in scia”, tenute a bada dalla FED e dal Governo USA, che hanno dovuto prendere misure straordinarie di intervento – ma anche al di qua dell’oceano si “balla” sui mercati, sia per i Credit Default Swap di Credit Suisse (anche se qui “giocano” anche altri fattori, come più oltre si dirà) e di Deutsche Bank, che per alcune altre banche ed assicurazioni europee (vedi il caso EuroVita) che hanno un (finora celato) “mal di pancia” per “troppe” perdite “potenziali” sui titoli obbligazionari a seguito del rialzo sostenuto dei tassi di interesse.

Banche e curve (dei tassi)

In un periodo di tassi bassi, per ricercare maggiori rendimenti (se non ci si accontenta dei bassi rendimenti) si è portati a investire aumentando il rischio, sia in termini di tipologia di investimento e/o sia in termini di durata dello stesso. In condizioni di stabilità della curva dei tassi, infatti, vincolando i propri denari a lungo termine ci si aspetta di ottenere un guadagno maggiore che a breve termine. Così hanno fatto molti intermediari finanziari (e le compagnie di assicurazione, soprattutto per le polizze di ramo primo) negli ultimi anni.

La recente risalita dei tassi, conseguente al riaccendersi dell’inflazione, ha però generato – per effetto delle previsioni di riduzione della crescita inflattiva nel tempo – un’inversione della curva dei tassi, così che le emissioni a breve sono arrivate ad offrire un rendimento superiore rispetto a quelle emesse a più lunga scadenza. Il che, implicitamente, determina una riduzione dei corsi (i.e. prezzi) di queste ultime sul mercato.

Ora, per farla semplice, banche e assicurazioni detengono investimenti in parte nei conti di “trading” (valutati al valore di “mercato”) e in parte nei conti “immobilizzati” (valutati al valore di “costo” di acquisto); le perdite potenziali, dovute all’andamento dei tassi appena descritto, si accumulano solo nel secondo gruppo, ma – essendo originariamente destinate ad essere detenute fino alla scadenza del titolo – di norma non destano “preoccupazioni”, essendo appunto solo “potenziali”. Il problema, però, esplode – come nel caso SVB – quando, e se, l’intermediario finanziario si trova costretto a vendere quei titoli sul mercato, “realizzando” contabilmente quelle perdite altrimenti “teoriche”.

Questione di “Tempi Moderni”

Quando ciò può accadere? Quando la richiesta di prelievi supera le disponibilità liquide immediate dell’intermediario, si è soliti rispondere. E ciò relegherebbe il problema solo ai casi di “bank run” (i.e. la “corsa agli sportelli”) per default di singole banche (o – ma non pare questo il caso – nei casi di crollo sistemico come nella crisi del 1929).

Ma esiste anche un altro caso, in cui può accadere. Più pernicioso e meno intuitivo. Come quello che sta davvero accadendo ora: con la crescita dei tassi, gli investitori (del tutto legittimamente) diventano propensi a convertire la loro liquidità in investimenti (i.e. acquisti di strumenti finanziari) che diano loro una rendita maggiore dei conti correnti. Se questo diventa un fenomeno diffuso, quelle banche che hanno poca liquidità dovranno ricorrere a vendere sul mercato i titoli immobilizzati (illiquidi o di lunga durata che siano), “realizzando” le perdite di cui sopra.

E, se non hanno un patrimonio sufficiente per “assorbire” quelle perdite, rischiano di andare in default. Perfino di scatenare un “bank run”, acuito dalla velocità di circolazione delle informazioni nel mondo di internet e dalla (impensabile una volta) maggiore velocità di operatività data ai clienti dagli strumenti informatici di home banking.

credit suisse

(Reuters via Sole 24 Ore)

Quindi, regole e opportunità

Se, poi, ci si aggiunge un’applicazione non omogenea delle regole di intervento pubblico (bail out versus bail in) nei (tentativi di) salvataggi bancari, vuoi per difformità legislative fra i Paesi e/o per incertezze applicative dei singoli decisori (politici o autorità di vigilanza che siano), acuite dalla scarsa conoscenza delle stesse da parte degli investitori, la frittata è fatta.

Il caso Credit Suisse, ne è esempio. Salvataggio lampo effettuato, strettamente rigoroso delle regole elvetiche, anche. Ma ha generato una situazione, poco compresa dai più, che ha generato panico ulteriore (spesso errato) sui mercati e nuove aspettative (queste oggettivamente reali) di incremento del costo del “funding” per le banche (e quindi, a cascata, che verrà ribaltato sui loro prestiti).

La “cancellazione” di una tipologia di prestiti subordinati, azzerando in un uggioso pomeriggio domenicale oltre 16 miliardi di franchi come corollario di un intervento pubblico di complessivi circa 200 miliardi, tra liquidità e linee rese disponibili, ha destato scalpore. Ciò perché, nel contempo, il salvataggio prevedeva un concambio a favore degli azionisti, che si sono visti trattare meglio (i.e. “qualcosa” recupereranno in azioni del “cavaliere bianco” UBS) di una tipologia di obbligazionisti.

Banche e regole (svizzere)

Cosa che, alla lettera, era prevista dalla regolamentazione Svizzera e dai regolamenti di emissione (e quindi avrebbe dovuto essere un “rischio conosciuto” dall’investitore), ma che, per le sue dimensioni e l’impatto sul mercato, appare un errore “politico” che alimenta l’incertezza sui mercati (e “incrina” un po’ la proverbiale immagine di “solidità” elvetica; sempre però maggiore – a ben vedere – di quella nostrana, se si contassero le perdite realizzate nei default, e nei quasi-default, bancari domestici di questi ultimi anni).

E quindi la corsa continua, nell’incertezza del futuro, delle scelte di politica monetaria e della tenuta del sistema finanziario, acuita anche – amara verità – dalla poca cultura finanziaria media degli investitori.

Le scelte della BCE, nonostante tutto questo

La BCE ha aumentato ancora di 50 punti base il tasso di riferimento, come ampiamente atteso e disinteressandosi (giustamente, ad avviso di chi scrive) dei recenti scossoni sui mercati.

Un errore, secondo alcuni; ma è proprio così? Non esattamente. L’inflazione si combatte agendo sulle “aspettative” e un diverso atteggiamento, più accomodante (utile più a nascondere gli errori gestionali di alcuni – cioè, come detto, l’eccesso di attivi a rischio e/o l’eccesso di titoli a durata lunga, con la conseguente, illustrata, emersione di perdite potenziali – che al sistema finanziario in sé), avrebbe comportato effetti perniciosi sulla dinamica dei prezzi. Qualcuno vince, qualcuno perde (è sempre così), ma il “sentiero stretto” non può essere che questo, poiché un’inflazione perdurante in crescita è più dannosa, per la generalità delle persone, che una fase temporanea di tassi alti.

Incidentalmente, appare evidente come le grida di dolore nostrane (di molti politicanti e di taluni banchieri) suonino più come “alibi” (di parte) che come “indicazione di una via migliore” (che invero “non c’è”).

Sintesi finale in 5 punti, dalle obbligazioni alla Vigilanza

Per cercare di capire il problema, in estrema sintesi:

1) conta più la duration media, dell’esposizione in titoli obbligazionari (che non dovrebbe essere troppo “lunga”), piuttosto che la quota di obbligazioni detenuta in sé;

2) per tenere sotto controllo questa, servono policy adeguate (molte banche hanno limiti stringenti sulle durate “lunghe” e alle emissioni “rischiose”) affiancate da un efficiente risk management (che però, va detto, si basa sulla “tolleranza” – o “appetito”, direbbero gli anglosassoni – al rischio “deliberata” dai singoli organi amministrativi);

3) tenendo poi altresì conto che alcuni “innalzamenti” della soglia di rischio sono stati (purtroppo) una necessaria conseguenza al periodo (troppo lungo) di tassi (troppo?) bassi;

4) ciò si spiega considerando che per mantenere redditività a tassi bassi occorre o alzare i volumi investiti o, a parità di volumi, alzare il rischio accettato, salvo non accettare le perdite temporanee date dalla contrazione del margine di interesse; mentre, al contrario, tassi in crescita (o mediamente più alti) rilanciano il margine di interesse e consentono (ma solo alle banche più solide)  una riduzione del rischio complessivo in essere, potendo (queste) agire anche tramite una riduzione degli attivi (a rischio);

5) in altri (crudi) termini: a fronte di una crisi di liquidità emergente (se non disinnescata), vi è un probabile “credit crunch” alle porte.

Banche, che cosa andrebbe sempre verificato

In soldoni (e ok, sarebbe stato compito della Vigilanza, ma..), andrebbe verificato (sempre) se la singola banca con cui si sta operando sia ben patrimonializzata (rispetto alla dimensione dei suoi impieghi), non abbia duration troppo lunghe (sui titoli) o attivi troppo a rischio (sia finanziario, cd. “illiquidi”, che di credito, cd. “npe”, non performing exposure) e abbia un buon sistema di risk management; verifica non esperibile da un singolo investitore, ma informazioni potenzialmente comunicabili (spontaneamente o su iniziativa della Vigilanza) da parte delle banche stesse per confermare la loro solidità.