La storia della ricchezza è il romanzo della vita dei popoli

scritto da il 07 Aprile 2023

La storia della ricchezza si rivela, subito e sorprendentemente, come romanzo della ricchezza, un’epifania dell’avere che annienta i prevedibili e pacifici meccanismi di causa ed effetto, quelli cui ci abituiamo presto e pigramente, e si fa narrazione della vita dei popoli e del loro essere nel mondo.

Un qualsivoglia autore che decida di fare lo ‘storico di qualcosa’, di solito, riassume la molteplicità degli eventi in schemi, categorie e date, temendo, forse, di misurarsi con la storia stessa, una storia da considerarsi come entità, visione, non già e non solo quale insieme di fatti o dotto resoconto d’uno studioso. Insomma, la questione potrebbe anche essere la seguente: il nostro cervello, in genere, immagazzina dati; in età scolare, siamo più o meno correttamente educati a memorizzarli e ricordarli; in materia d’economia, tuttavia, non si è disposti quasi mai ad ammettere l’esistenza d’una pòiesis con volti, nomi, sentimenti, intrecci e trame, poiché si preferisce ripiegare su tendenze, variazioni, percentili.

Ricchezza, da dove comincia tutto (ci sono i dazi)

Il numero, che istruisce la ricchezza e che, secondo Pitagora, è ciò di cui tutte le cose sono costituite in ordine e disordine, perfezione e imperfezione, è anche e soprattutto l’archè, ovverosia il principio – philo-sophico ­– per cui si formano gli stati di cose. Maurizio Sgroi, l’autore che adesso proponiamo per una diversa ermeneutica della storia della ricchezza, s’impegna a esplorare questo principio.

“Si erigono mura per proteggersi, mura che, poi, diventano dazi, tariffe o altro, ma, nello stesso tempo, si aspira all’espansione (…) La ricchezza, perciò, è condannata al mutamento che prende la forma di un costante peregrinare lungo le coordinate del mondo (…) La ricchezza, la cui vicenda per convenzione abbiamo fatta iniziare nel paese di Sumer, nello spazio di alcuni secoli, comincia a muoversi verso Nord, nella Mesopotamia di mezzo, la futura terra di Akkad (…)” [p. 27]

Nell’accingersi a dare compiutezza a un primordio storico-economico, Sgroi parla di “mura”, “dazi”, “espansione” e mette questi elementi in relazione tramite il “mutamento”; in altri termini, fa in modo che appaiano nitidamente – di qui, l’uso del sostantivo “epifania” in apertura – le forme simboliche che hanno caratterizzato l’agire dell’homo oeconomicus habens. Un confine, pertanto, non è semplicemente l’indicatore d’uno spazio di aggregazione o separazione, ma è il segno d’una metamorfosi potenziale, cosicché l’apparente incongruenza tra “mura” e “dazi” è riscattata dalla dialettica che sottende il valore dei termini. Si ritiene, per esempio, che l’esordio della scrittura risalga al 3500 a.C., cioè a quel periodo in cui i sacerdoti sumeri, dovendo tenere traccia concreta delle derrate e, in generale, di tutti i prodotti in entrata e in uscita dal tempio, utilizzarono i caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla. Sono numerose, a tal proposito, le testimonianze provenienti da Uruk.

Dalla ricchezza alla scrittura

Ebbene? L’autore di La storia della ricchezza amplia, con audacia, l’insieme semantico di “mura”, “dazi” e “mutamento” proprio con “scrittura”; ed è appena il caso di documentarne la raffinata abilità leggendo direttamente un altro frammento del suo testo.

“La scrittura, strumento dell’avere, scopre molto presto la propria utilità al servizio del potere, inaugurando una tradizione che durerà fino ai nostri giorni” [p.30]

Tra le altre cose, il rapporto tra scrittura, potere e denaro non si esaurisce affatto in un’incursione estemporanea e con chissà quale pretesa estetico-esornativa. Sgroi dimostra di essersi reso conto che il linguaggio modifica la realtà e, parimenti, che l’uomo esiste prevalentemente grazie alla propria voglia e alla propria capacità di raccontarsi. Di conseguenza, quando parla dell’Età Moderna e scrive che essa è fondata, anzitutto, sulla distruzione quale implicazione dell’espansione [p. 179], fa notare che la stessa nascita delle lingue volgari è “uno dei fenomeni più visibili di questo processo di distruzione” e lo fa a dispetto degli innumerevoli testi d’opposizione.

Da un punto di vista linguistico, si può indubbiamente seguire una differente fenomenologia della frammentazione idiomatica italiana, ma nessuno, a ben vedere, può confutare la tesi di Sgroi, tanto più che, se si segue il “vagabondaggio della ricchezza” di quell’epoca, ci si avvede presto che, nell’arco di un paio di secoli, essa passa dalla Spagna all’Inghilterra, attraverso l’Olanda [p. 160].

La scoperta dell’abbondanza

Se, tuttavia, la questione fosse strettamente legata a un’elencazione di luoghi o alla mera esibizione di calcoli, La storia della ricchezza, che ha come sottotitolo, non a caso, L’avvento dell’homo habens e la scoperta dell’abbondanza, si ridurrebbe presto a un ripetitivo e piatto compendio. Questo incidente di produzione, invece, non si verifica mai. L’homo habens del sottotitolo, opportunamente citato, è colui che, secondo la pretta accezione latina dell’hăbēre, oltre a possedere, governa, amministra, giudica, comanda e, di conseguenza, scopre l’abbondanza.

Entro la dimensione di questa scoperta, cui il lettore può votarsi con la certezza d’una sostanziosa ricompensa, due sostantivi costituiscono un dominio d’eccellenza: “rivoluzione” ed “espansione”. Di quest’ultimo abbiamo dato conto in precedenza mostrandone legami e dialettica d’uso. In quanto al primo, preferiamo offrire, ancora una volta, la prosa e il pensiero dell’autore:

“Cosa c’entrano tutte queste rivoluzioni politiche in un libro che parla della ricchezza? La risposta è molto semplice: è in questo succedersi di rivoluzioni politiche che si specchia l’espansione che gli storici dell’economia chiamano rivoluzione industriale. Gli storici ci hanno abituato a contemplare con occhi differenti – quello politico per i fatti politici, quello economico per i fatti economici – sostanzialmente la stessa cosa. Un modo di osservare la storia che oramai da tempo non convince più gli osservatori meno tradizionali (…)

Quando accade una rivoluzione? Di solito si fa coincidere per semplice comodità espositiva con la data di un qualche evento giudicato determinante, in chiave causale. Classicamente, per quella francese: la presa della Bastiglia a Parigi nel 1789. Ma troverete sicuramente uno storico che magari, con ottime ragioni, data la Révolution nel 1791, quando fu approvata la Costituzione, o nel 1793, quando fu decapitato Luigi XVI” [pp. 264-265].

Dunque: “rivoluzione”, occorrenza che compare duecentosette volte nel testo, diventa sinonimo di “metamorfosi”, si configura, forse, come vertice di una parabola, trasposizione semantica e lessicografica dell’intera fenomenologia della ricchezza, che dai primevi segni ugaritici ci conduce all’imperscrutabile avanzata della paper money [p. 285] o al ruolo delle banche centrali come prestatrici di ultima istanza [p. 294]. È doveroso dire che sarebbe stato comodo, anche per noi, passare in rassegna quei capisaldi della storiografia economica grazie ai quali autori e lettori, per lo più, sono in armonioso accordo.

Storia della ricchezza come romanzo di vita

Gli storici, per esempio, sono unanimi nel descrivere la nascita delle banche o nel mettere in risalto il ruolo dei banchieri fiorentini, i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaiuoli, e Sgroi non ci priva di certo delle notizie di pertinenza, ma La storia della ricchezza è colma di quegli aneddoti che trasformano la lettura di un saggio storico in quella di un romanzo di vita, a tal punto che il suo più forte potere attrattivo è il coinvolgimento emotivo.

Il libro di Sgroi rappresenta un’apertura per gli umanisti, un’opportunità di riflessione per gli economisti. Nel 1494, il francescano Luca Pacioli diede alle stampe la propria Summa de Arithmetica; il che potrebbe apparire irrilevante, un episodio come ce ne sono tanti, ma ciò che, al contrario, lo rende più che rilevante è il fatto che la Summa di Pacioli conteneva un capitolo sulla contabilità aziendale, tanto che il metodo veneziano della partita doppia era ormai diventato un fondamento dell’impresa bancaria e, più in generale, della cultura economica.

Poco meno di trent’anni dopo la pubblicazione del lavoro di Pacioli, saranno dei banchieri, i Fugger, a finanziare in modo decisivo l’elezione di Carlo V a imperatore del Sacro Romano Impero. Leggiamo, a pagina 197, che proprio i Fugger, solo in Svevia, possedevano un centinaio di villaggi in un territorio che si estendeva per 250 chilometri quadrati. Se torniamo indietro di qualche secolo, possiamo riesaminare il noto provvedimento di Solone, la seisàchtheia (scotimento dei pesi), grazie al quale i debitori non furono più costretti a offrire sé stessi in schiavitù per compensare la propria insolvenza [p. 63]. Procedendo ancora lungo l’itinerario narrativo, possiamo documentare il primo modello di ordine di pagamento scritto e rivolto ai ‘banchieri’ [p. 75], sebbene avesse – lo s’intuisce facilmente – delle caratteristiche elementari. Ciò si fa risalire all’epoca della globalizzazione ellenistica concepita da Alessandro Magno. In quegli anni, fu inventato anche lo storno, anche se, come scrive Sgroi, occorrerà attendere l’ingegno degli Egizi del I secolo a.C. per conoscere il precursore dell’assegno.

Dalla coniazione della moneta di Roma al fisco in Inghilterra

E ancora: ci cattura la perizia con cui l’autore tratta la coniazione della moneta presso i romani: “Quando lo fecero, usarono il bronzo come metallo. Ne vennero fuori gli asses, pezzi da una libbra osco-latina (273 grammi). D’altronde all’epoca il metallo era scarso. Una libbra di argento valeva 120 libbre di bronzo e una di oro 15 di argento” [p. 89].

Non è da meno il modo in cui viene delineata la trasformazione del fisco nell’Inghilterra del XVII secolo, non solo per ciò che ne derivò per la politica economica inglese, ma anche e soprattutto per ciò che comportò a livello internazionale. “Nell’Inghilterra dei Tudor – scrive Sgroi – la tassazione era praticamente assente. La Corona traeva i propri mezzi per funzionare da un vasto patrimonio terriero (…) La storia cambiò nel 1641, quando il Parlamento Lungo confiscò i contratti d’appalto doganali che avevano consentito al re di pagare i suoi conti, di fatto paralizzandolo.

La paralisi del sovrano condusse alla presa di potere del Parlamento per le questioni fiscali, e all’approvazione delle prime imposte, una indiretta – quindi sui consumi – e l’altra fondiaria, che avvenne alla fine del 1643. In questo modo fu assai più semplice finanziare le guerre che animarono il periodo repubblicano fino alla restaurazione (…) Il capitale commerciale rimaneva libero di circolare senza balzelli.

Per di più, a partire dagli anni Cinquanta del Seicento cambiò anche la politica doganale col proposito di favorire l’export, abbassando le tasse sui prodotti venduti all’estero, mentre aumentavano quelle sulle importazioni per favorire le produzioni locali. Una classica manovra protezionistica. Si inaugurava una tendenza che si rafforzò notevolmente dopo la Gloriosa rivoluzione. È stato calcolato che fra il 1690 e il 1704 le tasse sulle importazioni erano quadruplicate, mentre quelle sulle esportazioni, ad esempio della lana, azzerate” [pp. 228-230].

ricchezza

Immagine di Lance Reis per Unsplash

È davvero difficile darsi un limite di scrittura nel ricostruire la fabula dell’homo oeconomicus habens; e questo accade non per captatio benevolentiae nei confronti dell’autore, il quale, tra le altre cose, ha sempre mantenuto il bassissimo profilo dell’umilissimo studioso, ma perché colui che s’è versato nella stesura di questa ‘ricchezza’ s’è contraddistinto per audacia ermeneutica, audacia della quale diamo immediatamente una prova al lettore.

Un problema molto serio: la ricchezza si può redistribuire?

Nelle ultime pagine di La storia della ricchezza, quando ogni fatica sembra volgere al termine, Sgroi afferma che molti pensano che sia sufficiente impoverire i ricchi per migliorare la condizione di vita dei poveri e che, di conseguenza, il problema della povertà si possa risolvere con un progetto di redistribuzione [p. 397], laddove è evidente che non si può immaginare che il tasso di estrazione (rapporto tra la diseguaglianza effettiva e la massima diseguaglianza possibile) si possa ridurre per decreto. Non è forse questa la limpida testimonianza di un grande sforzo intellettuale, proprio di chi resiste alle naturali tentazioni della retorica e non cerca il solito rifugio dell’opinione comune?

Una cosa è certa: quando uno storico dell’economia ci propone la risultanza delle proprie ricerche, molto di rado ci parla di Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Dickens, nel tentativo di fare luce sulla relazione di potere tra parole e denaro. Sgroi, invece, lo fa. E lo fa molto bene.