Il trasferimento di tecnologia in Italia non sta troppo bene. Ecco perché

scritto da il 23 Aprile 2024

Post di Roberto Valenti, Partner DLA Piper – 

Il technology transfer, ossia le attività che sono finalizzate al trasferimento delle conoscenze dalla ricerca scientifica ai settori produttivi e industriali, è un elemento essenziale dei procedimenti di sfruttamento dell’innovazione. Qual è il suo stato di salute attuale nel nostro Paese? In Italia il trasferimento di tecnologia ha valori non confrontabili non solo con quanto avviene oltreoceano (gli Stati Uniti sono i campioni del mondo in argomento) ma anche se ci compariamo con Francia e Germania, dove il volume degli investimenti è significativamente più alto che nel nostro Paese.

Ma da cosa dipende il ritardo del nostro Paese? Innanzitutto, le dimensioni contano.

Secondo i dati pubblicati da una recente ricerca, nel 2018 sono state costituite circa 150 imprese spin-off dalle università e dai centri di ricerca nei cui Technology Transfer Office (“TTO”) sono attualmente impiegati circa 400 addetti. Se si confrontano i numeri dei dipendenti attivi in ambito technology transfer, il numero dei brevetti concessi agli atenei universitari e il valore dei medesimi con quelli di Paesi analoghi al nostro (in primis appunto Francia e Germania) il confronto è impietoso. Meno persone addette al trasferimento tecnologico, un numero significativamente più basso di brevetti di valore significativamente inferiore si traduce in minori possibilità che l’attività di ricerca e sviluppo svolta in ambito universitario generi innovazione di prodotto o di processo per le imprese.

Il modello italiano è troppo burocratico

Ma non è solo questioni di grandezza e numerosità dei Technology Transfer Office. Molto dipende anche dalla mancanza di un approccio coordinato allo sfruttamento dei risultati della ricerca universitaria. Mentre all’estero soprattutto le grandi università si organizzano collaborando per realizzare spin-off innovativi differenziati nei diversi settori e consentire dunque all’attività di ricerca e sviluppo di canalizzarsi e diventare impresa, in Italia il modello di sfruttamento dell’innovazione derivante dalla ricerca universitaria resta legato al sistema burocratico dell’università (prevalentemente pubblica). L’estrema frammentazione del sistema universitario italiano e un approccio burocratico e novecentesco alla governance istituzionale dell’innovazione e della ricerca universitaria completa un quadro non particolarmente esaltante.

Technology transfer e professor privilege: ostacolo a modelli virtuosi

Anche le regole del gioco fanno la loro parte. Il ritardo nello sfruttamento imprenditoriale dei risultati dell’attività di ricerca universitaria è infatti legato anche alla norma sulla titolarità dei diritti derivanti dall’attività di ricerca in ambito universitario. Fino a poco tempo fa, in Italia era vigente il cosiddetto “professor privilege”, cioè i diritti di proprietà industriale relativi alle invenzioni brevettabili ottenute nell’ambito dell’attività di ricerca erano attribuiti ai ricercatori universitari (art. 65 del codice di proprietà industriale, c.p.i.). Ciò ha determinato un ostacolo allo sviluppo di modelli virtuosi di trasferimento tecnologico nel nostro Paese, rallentando la spinta verso Technology Transfer Office organizzati in modo imprenditoriale.

Situazione normativa in evoluzione

Nel 2023 sono infatti state introdotte modifiche significative al c.p.i. ed è stato rivoluzionato il regime di titolarità delle invenzioni ottenute nell’ambito di attività di ricerca universitaria, anche grazie all’abrogazione del “professor’s privilege”.

L’attuale formulazione dell’art. 65 c.p.i. attribuisce alle università e agli enti di ricerca la titolarità dei diritti relativi alle invenzioni ideate da ricercatori, qualora esse siano stati realizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro o di impiego, anche a tempo determinato, con l’ateneo.

technology transfer

Tra le strutture incluse nell’ambito di applicazione di tale norma sono comprese università, anche non statali, legalmente riconosciute, enti pubblici di ricerca, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (“IRCCS”) e organismi che svolgono attività di ricerca e promozione di attività tecnico-scientifiche senza scopo di lucro o in convenzione tra i medesimi soggetti. L’art. 65 c.p.i. è, quindi, stato allineato con quanto stabilito – per il settore privato – dall’art. 64 c.p.i., che, a determinate condizioni, attribuisce al datore di lavoro lo sfruttamento delle invenzioni realizzate dai dipendenti.

Deposito della domanda di brevetto: cosa cambia

Nell’art. 65 c.p.i. è stato inoltre introdotto un meccanismo specifico da seguire per il deposito della domanda di brevetto delle invenzioni ottenute dai ricercatori universitari, che sono tenuti a comunicare tempestivamente all’università o all’ente di ricerca l’oggetto dell’invenzione. Entro 6 mesi dalla comunicazione, l’ente deve procedere al deposito della domanda di brevetto o informare l’inventore che non intende procedere. La facoltà per il ricercatore di depositare la richiesta di brevetto a proprio nome è divenuta dunque un’ipotesi residuale.

Una regolamentazione specifica è stata prevista per la ricerca finanziata da soggetti privati. In particolare, secondo l’art. 65 c.p.i. i diritti sulle invenzioni derivate da attività di ricerca finanziata, totalmente o parzialmente, da soggetti terzi, saranno disciplinati da contratti da redigere sulla base di linee guida predisposte dal Ministero delle imprese e del Made in Italy con il Ministero dell’università e della ricerca (le “Linee Guida”), adottate con Decreto Interministeriale del 26 settembre 2023. In particolare, le Linee Guida hanno individuato tre tipologie di contratti che possono intervenire nel rapporto tra strutture di ricerca e finanziatori, ossia i contratti con attività di servizio, i contratti per l’attività di sviluppo e quelli con attività di ricerca innovativa.

Infine, ai sensi del nuovo art. 65-bis c.p.i. le istituzioni universitarie e dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, gli enti pubblici di ricerca e gli IRCCS possono dotarsi nell’ambito della loro autonomia di un ufficio di trasferimento tecnologico finalizzato alla promozione della valorizzazione dei titoli di proprietà industriale. Questi uffici devono essere composti da personale con qualificazione professionale adeguata allo svolgimento dell’attività di valorizzazione dell’innovazione e interfacciarsi con i rappresentanti del sistema industriale per veicolare in modo efficiente verso le imprese il passaggio di conoscenze e trovati ottenuti tramite la ricerca.

Technology transfer, con la riforma più collaborazione tra pubblico e privato

La riforma del regime di titolarità delle invenzioni dei ricercatori è volta a favorire una collaborazione più intensa tra il settore pubblico e quello privato per potenziare al meglio lo sviluppo e lo sfruttamento di nuove tecnologie, anche grazie al technology transfer. Non è detto che siano tutte rose e fiori (per esempio: nella ricerca finanziata dalla mano privata attribuire in via preferenziale la titolarità dei risultati della ricerca all’università significa allontanarsi dai modelli di collaborazione pubblico-privato che hanno funzionato meglio in altri Paesi).

Inoltre il ritardo italiano è per grande parte dipendente da problemi strutturali di sistema che non possono certo essere modificati per legge. Ciò detto, si tratta di un primo passo nella direzione giusta perché volto a creare più incentivi per lo sviluppo e lo sfruttamento delle invenzioni universitarie, e a stimolare le imprese a finanziare la ricerca universitaria con la prospettiva di garantirsi la possibilità di sfruttare economicamente i trovati derivanti da questa attività.