Oro: unico driver la paura dell’ignoto

scritto da il 07 Maggio 2025

Post di Gianpaolo Lafargue, pseudonimo di un manager operante nel settore finanziario – 

Negli ultimi mesi l’oro ha messo a segno una delle sue fasi più brillanti, raggiungendo nuovi massimi storici oltre i 3.300 dollari l’oncia. Da inizio anno la sua performance ha superato il 20%, facendo meglio di quasi tutti gli asset considerati capaci di proteggere dal rischio d’inflazione, inclusi gli investimenti in titoli immobiliari (REIT), le materie prime industriali e le obbligazioni indicizzate all’indice dei prezzi al consumo. Solo il Bitcoin ha fatto meglio, ma con un profilo di rischio e volatilità che lo rende, per molti investitori istituzionali, una categoria del tutto a parte.

L’impennata recente dell’oro si è prodotta in un contesto tutt’altro che pacificato, segnato da tensioni geopolitiche crescenti, frizioni commerciali, conflitti regionali e incertezza sul ciclo politico statunitense. È un quadro che alimenta comprensibilmente la domanda di beni rifugio. Ma proprio per questo, vale la pena chiedersi se la dinamica dell’oro rifletta ancora una lettura macroeconomica, oppure se non sia ormai trainata quasi esclusivamente da un posizionamento difensivo di natura sistemica.

Un hedge contro il rischio di inflazione strutturale

Fino a qualche anno fa, il razionale per detenere oro era in larga parte macroeconomico. Tra il 2008 e il 2022, i bilanci delle banche centrali sono cresciuti quasi senza interruzione. La Federal Reserve è passata da un attivo di 870 miliardi di dollari nel 2007 a quasi 9.000 miliardi nel 2022. La BCE ha sfiorato gli 8.800 miliardi di euro. La BoJ ha moltiplicato per sei il proprio bilancio. L’oro, in questo contesto, rappresentava un hedge contro il rischio di inflazione strutturale, alimentato dalla percezione di un’espansione monetaria permanente e senza freni.

Quel rischio si è in parte concretizzato nel biennio 2021–2022, ma in una forma diversa da quella attesa. Non tanto per una causa monetaria, quanto per uno squilibrio profondo tra domanda e offerta. I lockdown globali hanno compresso violentemente la capacità produttiva e logistica, mentre le politiche fiscali – specie negli Stati Uniti – hanno gonfiato la domanda aggregata. L’inflazione che ne è derivata è stata reale, ma con radici più contingenti che sistemiche. Va anche detto che il processo di riallineamento tra domanda e offerta aggregata è stato più lungo e irregolare del previsto: le strozzature si sono risolte solo gradualmente e il rientro degli stimoli fiscali è avvenuto in tempi differenti nei vari paesi. Ma nel complesso, una volta superate le distorsioni più acute della fase pandemica, l’inflazione ha cominciato a normalizzarsi.

I flussi verso l’oro non si sono arrestati. Perché?

Nel frattempo, la politica monetaria ha fatto inversione. I bilanci delle banche centrali, pur restando ampi, sono in fase di contrazione. La Fed ha ridotto il proprio attivo di oltre 2.000 miliardi di dollari dal picco post-pandemico. La BCE ha avviato un Quantitative Tightening di oltre 2.200 miliardi di euro. I rendimenti reali sono tornati positivi: i TIPS statunitensi a 10 anni offrono oggi rendimenti reali superiori al 2%, un livello raro negli ultimi quindici anni. Il cash in dollari rende circa il 4%. In un simile contesto, detenere oro implica un costo-opportunità significativo, come non accadeva da tempo.

Oro

Le spinte che guidano i corsi dell’oro sono prevalentemente, per non dire esclusivamente, legate all’incertezza geopolitica e a una ricerca di protezione (Designed by Freepik)

Eppure, i flussi verso l’oro non si sono arrestati. Il motivo è in parte da cercare fuori dalla sfera macro. Negli ultimi tre anni, le banche centrali – in particolare quelle di paesi emergenti o in posizione di crescente distanza politica dagli Stati Uniti e dai suoi alleati – hanno aumentato sensibilmente le loro riserve auree. Nel 2023 e nel 2024, gli acquisti ufficiali hanno superato le 1.000 tonnellate annue, con Cina, Turchia, India, Russia e Polonia tra i principali compratori. La quota di oro nelle riserve ufficiali globali è salita dal 10% al 15%. Una dinamica che risponde più a logiche strategiche che a valutazioni di rendimento: ridurre la dipendenza dal dollaro, proteggersi da un sistema internazionale percepito come instabile o ostile, ancorare parte del valore in un bene fisico e fuori dal perimetro finanziario occidentale.

Troppo ambizioso prevedere il futuro

È plausibile che questa domanda strategica verso l’oro continui, almeno in parte. Ma è altrettanto evidente che si tratta di una dinamica difficile da modellare, con limiti naturali legati alla composizione delle riserve ufficiali e alla gestione della liquidità da parte di alcuni paesi. Il metallo giallo è oggi molto più centrale nei portafogli istituzionali rispetto a qualche anno fa, e questo suggerisce che parte del riposizionamento difensivo sia già avvenuto.

Come sempre, troppo ambizioso prevedere gli andamenti dei mercati, sicuramente nel breve e spesso anche nel lungo periodo. I mercati ci hanno molte volte di fronte all’anticipazione dell’impensabile… Ciò che è però abbastanza evidente è che i fondamentali sottesi alle attuali quotazioni della “barbara reliquia” non sono molto solidi, e che le spinte che ne guidano i corsi sono prevalentemente, per non dire esclusivamente, legate all’incertezza geopolitica e a una ricerca di protezione rispetto a uno scenario economico globale nuovo e molto difficile da leggere.