categoria: Vicolo corto
Il gatto che si morde la coda: lavoro fragile e nanismo produttivo


Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –
Due editoriali usciti il 15 maggio 2025 — “La tentazione del referendum” di Tito Boeri su la Repubblica e “Perché i salari non aumentano” di Fabrizio Onida su Il Sole 24 Ore — offrono uno spunto prezioso per riflettere su due letture diverse, e in parte concorrenti, delle difficoltà strutturali dell’economia italiana. In gioco c’è l’identificazione delle vere leve della crescita. Da un lato, Boeri insiste sul lavoro come terreno di intervento, proponendo ancora una volta il paradigma della flessibilità come condizione per un mercato dinamico. Dall’altro, Onida sposta lo sguardo sulla struttura del sistema produttivo, indicando nella scarsa dimensione media delle imprese e nella carenza di capitale di rischio i veri colli di bottiglia dello sviluppo.
È lungo questa polarità — flessibilità del lavoro versus accesso al capitale — che si può (e si dovrebbe) rileggere il dibattito sulle riforme italiane degli ultimi trent’anni. La tesi di Boeri è nota e coerente: la rigidità del mercato del lavoro avrebbe bloccato per troppo tempo l’occupazione, specialmente quella giovanile. L’introduzione di strumenti più “agili” — contratti a termine, apprendistato semplificato, tutele crescenti — avrebbe dovuto aprire spazio a un’occupazione più mobile, più in linea con le esigenze di un’economia globale e digitale. Non a caso Boeri è stato tra i sostenitori del Jobs Act, riforma che ha segnato il punto di arrivo di questa visione.
Produttività e lavoro agile: una promessa mancata
Ma a dieci anni di distanza, le promesse non si sono concretizzate. I salari reali sono rimasti stagnanti, la produttività non è aumentata, la frammentazione del lavoro si è accentuata. In parallelo, l’Italia ha continuato a perdere competitività rispetto agli altri Paesi europei. Secondo i dati ISTAT, tra il 1995 e il 2022 la produttività del lavoro in Italia è cresciuta di appena il 4%, contro il 34% della Germania e il 32% della Francia. Invece di produrre un mercato del lavoro più efficiente, la flessibilizzazione ha generato precarietà cronica, cicli occupazionali più volatili e una compressione salariale che ha disincentivato investimenti in formazione e innovazione.
È a questo punto che l’editoriale di Onida interviene, offrendo un’ipotesi alternativa: il vero ostacolo alla crescita dei salari non è (o non è solo) la rigidità del lavoro, ma la dimensione insufficiente delle imprese italiane, incapaci di generare la produttività necessaria per sostenere retribuzioni più alte. Il problema non è l’eccesso di tutele, ma il deficit di finanza paziente, di venture capital, di private equity. In altre parole: più che riformare il lavoro, bisogna riformare l’impresa.
Flessibilità e nanismo come modello. Da superare
I dati lo confermano. Secondo il Censimento permanente delle imprese dell’ISTAT del 2023, il 95% delle imprese italiane ha meno di 10 addetti, e solo lo 0,4% supera i 250. In Germania, le imprese medie e medio-grandi rappresentano una quota molto più rilevante del tessuto produttivo e contribuiscono in modo decisivo alla tenuta dell’export, all’innovazione tecnologica, alla formazione del capitale umano. In Italia, invece, la crescita dimensionale è bloccata. E una delle ragioni principali è l’assenza di un ecosistema finanziario che premi l’ambizione. Come osserva Onida, le imprese che potrebbero crescere faticano ad accedere a capitali di rischio. Il credito bancario resta dominante, ma è orientato al breve termine e alla garanzia patrimoniale, non alla scommessa sul futuro.
In questo contesto, la flessibilità del lavoro ha finito per essere un surrogato della crescita: un modo per adattarsi senza evolvere, per restare piccoli evitando il salto organizzativo e finanziario che la crescita comporta. Il lavoro “snello” ha permesso a molte imprese di evitare l’investimento: nella struttura, nei processi, nelle persone. Così, il nanismo è diventato funzionale. È il modello, non l’anomalia. E ha prodotto un’economia che non riesce ad assorbire capitale umano qualificato, che non attrae investitori esteri, che si affida a incentivi estemporanei e misure spot.
Le riforme del lavoro, le tutele limitate, lo sviluppo che non c’è
La frustrazione generazionale che attraversa il Paese nasce anche da qui. Il capitale umano non trova sbocchi perché non ci sono imprese in grado di valorizzarlo. La mobilità lavorativa è diventata precarietà, e la flessibilità un sinonimo di ricattabilità. Le riforme del lavoro, lungi dal correggere queste tendenze, le hanno spesso assecondate. Eppure, si continua a insistere su quel versante, come se liberalizzare ancora i contratti o limitare ancora di più le tutele potesse miracolosamente generare sviluppo.
Ma non è così. Il confronto tra gli editoriali di Boeri e Onida ci ricorda che la discussione sulle politiche del lavoro non può essere separata da quella sulla struttura dell’impresa e sull’allocazione del capitale. Continuare a parlare solo di “rigidità” e “libertà contrattuale” significa ignorare l’altra metà del problema: la mancanza di strumenti finanziari adeguati, di orizzonti imprenditoriali lunghi, di politiche industriali che favoriscano la crescita organizzata anziché la sopravvivenza individuale.
E un referendum sul modello produttivo?
In questo senso, più che un referendum sul lavoro, servirebbe un referendum implicito — nel senso di una decisione collettiva — sulla direzione del nostro modello produttivo. Vogliamo restare un’economia di microimprese che compensano la loro debolezza con il lavoro a basso costo? O vogliamo costruire un ecosistema capace di accompagnare la crescita con capitale, competenze, innovazione e responsabilità?
Non si tratta di idealizzare il passato né di riesumare simboli del dibattito novecentesco. Si tratta di capire che l’Italia ha imboccato una strada che ha privilegiato l’adattamento alla trasformazione. E che, forse, è giunto il momento di invertire la rotta.