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Trump e la Fed: la prospettiva di uno scontro finale


Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –
Negli ultimi giorni, due editoriali pubblicati sul Sole 24 Ore – quello di Marco Buti e Marcello Messori e quello di Donato Masciandaro – hanno esposto con chiarezza la posizione della maggior parte degli economisti e dei “mercati” di fronte alla politica economica dell’amministrazione Trump. Il giudizio è netto: la traiettoria è insostenibile, l’equilibrio fiscale compromesso, la credibilità sistemica degli Stati Uniti in pericolo. Il disavanzo, attualmente oltre il 6,5% del PIL, in prospettiva esplode, mentre il debito federale oggi al 124% si avvicinerebbe al 135% entro il 2035. I soli interessi passivi sul debito, già oggi superiori al bilancio della difesa, sono destinati a crescere ulteriormente con tassi reali positivi. Moody’s, buon’ultima dopo Fitch e Standard & Poor’s, ha lanciato l’allarme con il downgrade. I mercati sussultano. L’opinione corrente è che l’azzardo di Trump sia, in fondo, un suicidio economico e politico.
Per Trump la rottura come scorciatoia?
In realtà, l’idea che la sostenibilità fiscale sia diventata problematica non riguarda solo gli Stati Uniti. Dopo la pandemia e la guerra in Ucraina, gran parte delle economie avanzate si muove in bilico tra crescita nominale modesta, spesa pubblica espansa e nuove esigenze industriali o militari. Il Giappone ha un rapporto debito/Pil oltre il 260%, l’Italia si attesta intorno al 140%, la Francia ha superato stabilmente il 110%, e perfino la Germania – campione dell’ortodossia fiscale – si prepara ora a rivedere la sua regola aurea.
Il programma fiscale dell’Unione a supporto della nuova dottrina di difesa europea, con il suo corredo di investimenti in armamenti, sicurezza e reshoring strategico, rischia di svuotare di significato il più volte prefigurato ritorno di un patto di stabilità a “maglie strette”. In questo contesto, il ritorno dell’austerità è più evocato che praticato. Ma mentre in Europa si procede con cautela, cercando di salvare la forma, Trump sembrerebbe scegliere la scorciatoia della rottura.
O una strategia non dettata dal caso?
Ma le cose, forse, sono un po’ più complesse. Non perché i numeri non siano preoccupanti, né perché i fondamentali del bilancio federale siano meno fragili di quanto appaiano. Piuttosto, perché ciò che a molti osservatori sembra una sequenza caotica di decisioni populiste, un puro azzardo davanti al quale si erge un muro contro il quale l’amministrazione statunitense andrà sicuramente a sbattere, potrebbe rispondere a una logica più solida di quanto si sia disposti ad ammettere.
Un’ipotesi potrebbe essere quella che Trump non stia affatto giocando a caso con il fuoco, ma che stia piuttosto portando alle estreme conseguenze rispetto al primo mandato, con il supporto di una costellazione politico-sociale più definita, una visione più coerente oltre che determinata e, soprattutto, una finestra politica reale – per quanto temporanea – una strategia che ha come obiettivo finale la ridefinizione dell’architettura economico-monetaria oltre che istituzionale americana.
Meno Fed e più Casa Bianca
La coalizione che lo sostiene oggi è mutata: la white working class e l’industria della rust belt non sono più sole. Al loro fianco si sono schierati settori crescenti dell’high tech e del capitale produttivo, uniti da una domanda di Stato e protezione interna, più che da ideologia. È questa la base del “partito della domanda interna”, un blocco trasversale che chiede meno globalizzazione e più politica economica, meno vincoli internazionali e più crescita interna, meno Fed e più Casa Bianca.
Dentro questa logica si articolano le tre direttrici della sua ormai storica e consolidata agenda. La prima – il contrasto alla globalizzazione commerciale – è già nota, e prosegue attraverso dazi, incentivi al re-onshoring e retoriche sovraniste. La seconda – la politica fiscale espansiva – si traduce oggi in un ritorno del “Big Beautiful Bill”, evocato da Masciandaro non senza ironia, e che allude anche alla possibilità concreta di un declassamento del debito americano al di sotto dell’investment grade. La linea è chiara: crescita nominale a tutti i costi, finanziata da tagli fiscali senza copertura, sostenuti dall’idea che il Pil possa tenere il passo del debito. L’incoerenza, secondo molti, è macroscopica. Ma è proprio su questa incoerenza che si gioca la scommessa.
Lo scontro con la Fed di Powell
È però il terzo fronte – quello monetario – che si prefigura come il più esplosivo. Per ora, il confronto con la Federal Reserve è rimasto sotto traccia: qualche dichiarazione sul livello dei tassi, un malumore diffuso verso Powell. Ma tutto lascia pensare che, nei prossimi mesi, lo scontro potrebbe diventare diretto e strategico. La scadenza del mandato di Powell, fissata a maggio 2026, apre una finestra temporale di circa un anno e mezzo, coincidente con il mid term, in cui Trump, forte del controllo del Congresso e soprattutto del Senato, potrà non solo nominare un successore politicamente compatibile, ma anche ridefinire informalmente – e forse formalmente – il mandato della banca centrale, spingendola verso una funzione più esplicitamente subordinata agli obiettivi dell’esecutivo, a cominciare dalla sostenibilità del debito e dal supporto alla crescita nominale.

Il presidente Donald Trump durante la cerimonia di consegna dei diplomi all’Accademia militare di West Point, 24 maggio 2025. REUTERS/Nathan Howard
Attacco al tabù della politica economica occidentale
Probabilmente è questo il vero obiettivo: non la revisione di una singola decisione, ma la rottura del tabù fondativo della politica economica occidentale degli ultimi quarant’anni: l’indipendenza della banca centrale. Dopo la Cina, dopo Harvard, dopo la cultura woke, il nuovo nemico, in tempi molto brevi, potrebbe molto probabilmente Powell – o meglio, ciò che Powell rappresenta: l’ultima istituzione non ancora assoggettata al potere esecutivo, il cuore normativo del compromesso post-Volcker. E proprio per questo, il bersaglio perfetto.
Naturalmente, l’ipotesi appare inconcepibile agli occhi del mainstream. Non solo perché la Fed è percepita come il garante della stabilità sistemica, ma perché si ritiene che i “mercati” non accetteranno mai un suo ridimensionamento. L’indipendenza della banca centrale viene trattata come un dogma inviolabile, quasi fosse un vincolo naturale dell’economia. Eppure, dal 2008 in poi, questo stesso dogma è stato piegato ripetutamente: il quantitative easing ha segnato, nei fatti, una forma di monetizzazione soft del debito, giustificata come misura tecnica e straordinaria. La pandemia ha poi legittimato un ritorno massiccio dell’intervento monetario. Con la fiammata inflazionistica post pandemica il paradigma “hawkish” è tornato – dopo oltre un quindicennio – una professione di fede. Ma il precedente resta.
Obiettivo: una Fed compiacente
Ed è proprio su un simile precedente che Trump potrebbe costruire la sua mossa. Se riuscisse ad orientare la Fed verso una nuova fase di accomodamento – non dichiarato ma pratico – potrebbe sostenere la sua politica fiscale espansiva senza scatenare crisi immediate. Il paradosso è che, in questo scenario, i mercati che oggi tremano potrebbero diventare i suoi principali alleati. Una Fed compiacente, tassi reali prossimi allo zero, debito largamente assorbito: lo stesso schema che ha alimentato l’espansione finanziaria dei quindici anni successivi al default di Lehman, e che sostanzialmente nessuno ha avuto troppi scrupoli ad applaudire.
Resta naturalmente l’incognita dell’inflazione. È lì che la scommessa si fa più rischiosa. Se il riassorbimento del debito tramite monetizzazione dovesse riaccendere la dinamica dei prezzi, l’intero castello potrebbe crollare. Ma anche qui, la situazione è meno lineare di quanto appaia. L’inflazione post-pandemica si è rivelata sebbene persistente alla fine contenibile e incapace di innescare alcuna spirale prezzi-salari. In un contesto simile, l’ipotesi che solo la banca centrale possa garantire la stabilità dei prezzi appare più ideologica che analitica.
Per Trump una scommessa pericolosa con una logica profonda
Trump, che non è un economista, ma un animale politico molto più fine di quanto i suoi molti ed acerrimi avversari siano disposti ad ammettere, questo lo ha capito e per questo molto probabilmente potrebbe preparare lo scontro finale. Se riuscisse ad aprire quella breccia, non si tratterebbe soltanto di una vittoria in una battaglia tecnico-istituzionale, ma della riscrittura delle regole monetarie dell’Occidente. Sarebbe una scommessa pericolosa, certo. Ma avrebbe una logica profonda. E nei mercati – come nella politica – non è il rispetto dei dogmi a contare, ma, alla fine, accodarsi alle regole scritte dai vincitori.
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