Referendum sul lavoro e imprese: rischi e conseguenze possibili

scritto da il 04 Giugno 2025

Post di di Fabio Speranza,  Avvocato della linea Legal di Partner d’Impresa, specializzato in diritto societario, commerciale e fallimentare – 

Domenica 8 giugno e lunedì 9 giugno dalle 7 alle 15 si vota per cinque referendum. I primi quattro riguardano materie di lavoro e sono stati promossi dalla Cgil e altri soggetti che hanno raccolto oltre 4 milioni di firme.

Il quinto è sulla cittadinanza. Perché l’esito del referendum sia valido occorre comunque che esprima il loro voto almeno il 50% più 1 degli aventi diritto.

Cerchiamo di analizzare nel dettaglio i contenuti delle consultazioni legate ai temi del lavoro, scheda per scheda e di valutare con giudizio esente da schemi precostituiti o pregiudizi quali saranno le conseguenze per le imprese italiane nella ipotesi in cui il referendum abrogativo dovesse sortire gli effetti sperati.

Primo quesito: licenziamenti illegittimi e contratto a tutele crescenti

Con il primo quesito si propone l’abrogazione integrale del decreto legislativo n. 23 del 2015 (emanato in attuazione del cosiddetto “Jobs Act”) che riguarda il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, introdotto da questa legge e che garantisce ai lavoratori nuovi assunti una tutela meramente economica, e non più reintegratoria, nella gran parte dei licenziamenti e, soprattutto, in quelli motivati da ragioni economiche.

Il quesito interviene sul trattamento che il giudice può decretare dopo aver stabilito che il lavoratore è stato licenziato in maniera non corretta nelle aziende oltre i 15 dipendenti.

L’obiettivo è quello di ripristinare il reintegro del dipendente licenziato in maniera illegittima nel suo posto di lavoro, così come prevedeva originariamente il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970.

In realtà, la questione è più complessa

Per procedere ad un’analisi consapevole dell’argomento e comprendere meglio gli effetti del referendum, è opportuno avanzare alcune precisazioni preliminari.

Va premesso che con l’approvazione di questo quesito referendario la disciplina che tornerebbe in vigore non è l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma la legge Fornero (l. n. 98/2012).

Come detto il contratto su cui interviene il referendum è il contrato a Tutele Crescenti così come riformato dall’art. 2 del decreto legislativo attuativo della legge n. 183/2014 – c.d. job act – che interveniva sulla disciplina del licenziamento nullo che, di fatto, subiva meni interventi correttivi nell’ambito dell’attuazione della delega governativa.

Il contratto a tutele crescenti si applicava ai nuovi contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato instaurati costituiti dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo attuativo della legge delega e quindi dal 7 marzo 2015 in poi.

Per tutti gli altri rapporti di lavoro antecedenti rimangono ancora valide le norme della legge Fornero.

Va detto che il Job act apportava solo piccole variazioni ma rendeva le regole meno interpretabili e, dunque, più certe rispetto al passato quantomeno per le conseguenze in caso di controversie.

Peraltro, le norme attualmente in vigore sono piuttosto differenti da quelle approvate nel Jobs Act, in quanto la Corte costituzionale è intervenuta sul tema in diverse occasioni, modificando in maniera sostanziale la disciplina. Ad esempio, con l’ultimo intervento della Consulta è stata prevista la reintegrazione anche nell’ipotesi del licenziamento disciplinare e nell’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Nel caso dei licenziamenti illegittimi perché considerati nulli o discriminatori (motivati dal credo religioso o per l’appartenenza a un sindacato o per l’orientamento sessuale, l’età ecc.) è sempre previsto il reintegro nel posto di lavoro.

Negli altri casi in cui invece il licenziamento sia dichiarato “illegittimo”, oggi la normativa, prevede che il giudice possa stabilire solo un risarcimento da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità (oltre sempre a stipendi e contributi non pagati nel periodo tra la fine della prestazione lavorativa e la sentenza).

Nella ipotesi in cui dovessero vincere i sì, se il licenziamento individuale fosse stato intimato per un motivo ritenuto dal giudice insufficiente, si tornerebbe a un indennizzo di entità compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità così come previsto appunto dalla legge Fornero successiva allo Statuto dei lavoratori ma antecedente al Jobs Act.

Nel caso invece di licenziamenti collettivi (almeno 5 dipendenti) in cui la scelta dei lavoratori sia stata indebita a giudizio della magistratura, il dipendente sarebbe reintegrato nel posto di lavoro.

Referndum

Quali gli svantaggi per le imprese e consequenzialmente i vantaggi per i lavoratori

Per i lavoratori dipendenti, assunti dopo il 2015, sarebbe ampliata la possibilità di ritornare al proprio posto di lavoro. Ed eventualmente a concordare una transazione economica più alta da una posizione di maggior vantaggio nella ipotesi in cui il lavoratore volesse interrompere il legame con l’azienda.

Questo consentirebbe a molti lavoratori, che potrebbero non avere più interesse a rientrare in impresa a causa di rapporti non più ottimali di contrattare una posta economica più alta per  avere l’immediato vantaggio economico in cambio dell’uscita dall’azienda.

La conseguenza per le imprese è un aggravio dei costi rispetto all’attuale regime quale conseguenza delle più alte indennità previste in favore del lavoratore e, quindi, una maggiore difficoltà a gestire il turn over per ragioni connesse alla giusta causa del licenziamento.

Secondo i promotori del referendum l’abolizione del contratto a Tutele crescenti rafforzerebbe in generale la condizione dei dipendenti, che risulterebbero meno “ricattabili”, ad esempio in materia di sicurezza, in realtà dal punto di vista delle imprese ciò renderebbe meno flessibile la gestione del lavoratore nella ipotesi in cui vi fossero giuste ragioni per avviare il suo esodo a vantaggio di lavoratori più efficienti ed in linea con i valori aziendali.

Tuttavia, a sfavore del lavoratore, il ritorno all’applicazione della legge Fornero abbasserebbe a 24 mensilità il massimale nel caso di licenziamenti individuali, mentre il minimo verrebbe innalzato da 6 a 12 mensilità.

Quale conseguenza e più immediata ripercussione sul mercato del lavoro è possibile, infine, che il rientro al maggiore irrigidimento della normativa, possa scoraggiare le assunzioni, ma non è provata una correlazione diretta tra i due fattori.

Secondo quesito: indennità per licenziamenti nelle piccole imprese

Con il quesito numero due si mira ad eliminare il tetto massimo all’indennizzo economico (6 mesi di stipendio) per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle imprese con meno di 15 dipendenti, restituendo al giudice la discrezionalità nel determinare l’ammontare del risarcimento (sulla base di una serie di criteri, tra cui l’età, carichi di famiglia, e capacità economica dell’azienda).

Anche su questo quesito va fatta una piccola precisazione. Per le piccole imprese, in caso di licenziamento considerato illegittimo, si applica l’art. 8 della legge 604/66 modificata dalla legge la 108/90, secondo la quale è previsto sempre e solo il risarcimento monetario e non la reintegra nel posto di lavoro (la cosiddetta tutela attenuata).

La tutela reale, cioè la reintegra nel posto di lavoro scatta invece sempre (e solo) se la risoluzione del rapporto avviene per motivi discriminatori (a causa ad esempio del credo religioso o dell’appartenenza a un’organizzazione sindacale o per l’orientamento sessuale, l’età eccetera).

Il referendum in questo caso interviene per eliminare il tetto massimo del risarcimento, fissato attualmente a 6 mensilità di stipendio, non cambia la natura della tutela.

Se dovessero vincere i sì, si ritornerebbe a rimettere alla discrezionalità del giudice stabilire la misura del risarcimento senza un massimale preciso, potenzialmente molto più alto delle 6 mensilità oggi previste.

Il magistrato per stabilire l’indennizzo potrebbe tenere conto di diversi parametri come l’anzianità aziendale, i carichi familiari, l’età, il fatturato aziendale.

Il vantaggio per i lavoratori delle piccole imprese sarebbe quello di avere una tutela risarcitoria più consistente che, in questo caso, sarebbe di volta in volta fissato dal giudice presso cui viene intentata la causa di lavoro. Un potenziale problema è che, eliminato il limite massimo, il giudice potrebbe stabilire un indennizzo molto elevato, persino più alto di quello da 24 o 36 mensilità previsto per i dipendenti delle grandi aziende, un onere molto pesante per piccole realtà produttive.

E questo rischio, senza un limite certo ai risarcimenti, potrebbe scoraggiare le piccole imprese dal fare assunzioni.

Terzo quesito: “Contratti a termine”

Si propone l’abrogazione di alcune norme contenute nel Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81, che regolano la possibilità di instaurare contratti a tempo determinato e le condizioni per le proroghe e i rinnovi.

Ad oggi è già prevista una durata massima per i contratti a tempo determinato: nei primi dodici mesi è possibile fare un contratto a termine senza nessuna causale, mentre nel periodo successivo (fino ad un massimo di 24 mesi) devono essere presenti delle causali stabilite dalla contrattazione collettiva o da accordi tra le parti. Dopo due anni, il contratto si trasforma in indeterminato.

Quando la durata del rapporto di lavoro è pari o inferiore ai dodici mesi, i proponenti vorrebbero fosse imposto l’obbligo ai datori di lavoro di indicare nel contratto il motivo – la cosiddetta causale appunto – che oggi non è richiesta. Il quesito – che interviene sul decreto 81 del 2015, una parte del Jobs act – mira a limitare il ricorso ai contratti a termine rispetto alle assunzioni a tempo indeterminato. Nel caso vincessero i sì per assumere un lavoratore con un contratto a termine andrà indicata una motivazione tra quelle valide secondo la legge e i contratti collettivi nazionali per i rapporti a termine.

Quindi sarebbe possibile fare contratti a termine solo qualora siano previsti dai contratti collettivi o per sostituzione di lavoratori, sempre specificando nel contratto la causale e comunque per un periodo massimo di 24 mesi. Viene quindi esclusa la possibilità di utilizzare questa tipologia contrattuale nel caso in cui sia prevista dai contratti aziendali o di accordo fra le parti.

Il vantaggio principale, secondo i promotori del referendum, sarebbe quello di limitare il ricorso ai contratti a termine solo a quelli sostenuti da solide motivazioni previste dai contratti, senza inflazionarne l’accensione.

E dunque intervenire così su quella che viene considerata una forma di precarietà del lavoro e di “debolezza” della posizione del lavoratore.

Per le imprese lo svantaggio deriva dal non poter più gestire le assunzioni a tempo per esigenze particolari, senza doverle “motivare” rigidamente, ciò comporterebbe per le stesse una minore libertà di assunzione a tempo determinato, contratti ai quali molte imprese hanno fatto ricorso una o più volte anche per gestire il primo ingresso strutturato nelle imprese dei giovani, contendo loro di testare e formare il lavoratore prima della instaurazione di un più duraturo e più impegnativo rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Inoltre, se passasse il referendum si avrebbe un sistema di contratto a termine che non consente alle imprese neppure di fare contratti a tempo determinato di fronte a incrementi straordinari e imprevedibili di produzione.

Quindi l’irrigidimento delle condizioni per l’accensione dei contratti a termine potrebbe avere un effetto negativo sulle assunzioni, considerando che le società e le imprese possono creare maggiore occupazione se più “libere” di assumere personale. È possibile, inoltre, che aumenti il contenzioso giudiziario a riguardo.

Una considerazione va fatta: rendere il mercato più rigido come hanno inteso i sostenitori del referendum non facilita la possibilità di trovare un’occupazione stabile, ma, al contrario, darà luogo ad una maggiore stasi del mercato del lavoro ed una diminuzione delle possibilità per chi si affaccia al mondo del lavoro, quindi in particolare per i giovani.

Quarto quesito: responsabilità solidale negli appalti

Il quesito chiede l’abrogazione della norma che esclude la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore, per gli infortuni sul lavoro derivanti da rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.

Il quesito sull’esclusione della responsabilità sociale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici” riguarda l’abrogazione di un comma del decreto 81 del 2008 varie volte modificato fino al testo della legge 215 del 2021.

In generale è sempre prevista la responsabilità solidale del committente e dell’appaltatore oltre che per il pagamento degli stipendi anche per il risarcimento dei danni da infortuni se non coperti dall’Inail.

Oggi è però prevista una esclusione che riguarda i danni conseguenti ai rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici.

Facciamo un esempio per comprendere meglio: se oggi una società che si occupa di un centro commerciale intendesse ristrutturare un suo punto vendite, sottoscrivendo un contratto di appalto con una un’impresa edile, non sarebbe corresponsabile in solido dei danni da risarcire a un operaio che riportasse lesioni sul posto di lavoro. Questo perché la ditta appaltante opera in un altro settore rispetto a un’impresa edile.

I proponenti vorrebbero che la corresponsabilità ci fosse in qualsiasi caso.

Se vincessero i sì la corresponsabilità solidale del committente si applicherebbe sempre e comunque, senza eccezioni.

Le implicazioni per le imprese in tema di scurezza sicurezza sul lavoro sarebbero un aumento delle responsabilità per il committente, anche in caso di rischi propri delle imprese esecutrici, il che, se valutato sotto il profilo del miglioramento della sicurezza sul lavoro, sarebbe finalizzato alla riduzione gli incidenti.

A questo vantaggio però si contrappone l’aumento delle responsabilità delle aziende senza garantire maggiore sicurezza.

Ciò comporterebbe per le imprese la necessità di rafforzare le verifiche di idoneità tecnico-professionale degli appaltatori, occorrerà una maggiore attenzione per gli appaltatori che dovranno essere più attenti alla redazione del DUVRI, anche in ambiti finora considerati “autonomi”.

Conseguentemente dovrà esserci un incremento dei controlli e delle azioni preventive da parte del committente per evitare co-responsabilità.

Il rovescio della medaglia è individuabile nella ipotetica possibilità che l’irrigidimento delle regole e della estensione della corresponsabilità prevedendo che l’azienda che appalta un lavoro ad un’impresa sia responsabile di tutto ciò che avviene a valle potrebbe produrre come effetto un blocco degli appalti in Italia.

Quindi, imporre ad un’impresa committente una corresponsabilità solidale per un rischio estraneo alla sua attività normale, non segue una logica coerente, considerato che allo stato non sussistono adeguati strumenti per giudicare l’affidabilità di un’impresa in ambiti specifici e tecnici se non le formali certificazioni che una impresa possiede, le quali non sempre garantiscono il rispetto delle regole tecniche fissate in ambito di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Pertanto, se l’impresa appaltante, avvalendosi degli strumenti oggi a sua disposizione seleziona una impresa appaltatrice verificando, quindi, anche tutte le certificazioni che la stesa azienda appaltatrice possiede, non è corretto imputare responsabilità alla committente che invece dovrebbero permanere nell’ambito dell’organizzazione autonoma di mezzi e di risorse umane della impresa prescelta sulla scorta di certificazioni pubbliche che ne attestano la sua qualità.

Un vantaggio sarebbe certamente quello di spingere qualsiasi azienda committente a una maggiore vigilanza sulle attività e le condizioni dei lavoratori delle imprese appaltatrici. Verrebbe scoraggiato il ricorso a imprese con lavoratori in “nero” o poco professionali. Per contro, verrebbe richiesta ai committenti una “competenza” che non possono avere nella valutazione del lavoro delle imprese a cui appaltano un’opera.

E ciò potrebbe risultare, oltre che eccessivo, economicamente svantaggioso, tanto da scoraggiare il ricorso ad alcune attività in subappalto.