Dazi e Pmi: il conto salato dell’Italia

scritto da il 12 Giugno 2025

Post di Paolo Borghetti, CEO di Future Age – 

L’introduzione o l’inasprimento dei dazi rappresenta un rischio concreto per molte piccole e medie imprese italiane, soprattutto per quelle che vivono di export. Ma il vero problema non è solo la barriera commerciale in sé. È l’impreparazione con cui le imprese italiane la affrontano. A mancare è una cultura imprenditoriale capace di guardare oltre l’operatività quotidiana e pianificare a medio-lungo termine.

Oggi molte PMI italiane stanno scoprendo a proprie spese cosa significhi dipendere da un solo mercato o da un solo cliente, senza aver mai investito in un vero percorso di sviluppo manageriale e strutturazione dell’impresa. Quando il dazio arriva e ti taglia fuori dal tuo unico mercato, è già troppo tardi per correre ai ripari.

Quando il cliente estero detta legge

Esistono aziende italiane che realizzano fino al 95% del proprio fatturato con un solo cliente, spesso statunitense. L’introduzione improvvisa di un dazio – anche solo del 20% – può far crollare la competitività da un giorno all’altro, riducendo drasticamente i margini di profitto. Le risposte dei buyer esteri sono nette: “O ti adegui, oppure spostiamo la produzione altrove”.

Questo è il risultato di anni di miopia nella pianificazione e di assenza di una cultura orientata alla guida evolutiva dell’impresa, alla valorizzazione delle risorse interne e al rafforzamento della struttura manageriale. Nessuno ha mai pensato seriamente a diversificare mercati e clienti. Oggi la sopravvivenza si gioca sulla capacità di sviluppo manageriale, non più solo sull’efficienza produttiva.

dazi

I dazi come cartina di tornasole dell’impreparazione italiana

Il problema non risiede tanto nei dazi in sé, quanto nel fatto che questi eventi globali funzionano come veri e propri test di stress che mettono in luce la fragilità del nostro sistema produttivo. Le PMI italiane faticano a sostenere l’internazionalizzazione perché mancano di organizzazione interna, tracciabilità dei processi e adeguatezza delle strutture.

Sempre più spesso, i buyer stranieri vengono in Italia per valutare con audit rigorosi la qualità dei fornitori. Ma le nostre imprese non sempre superano queste prove: non basta avere un buon prodotto, serve anche un’organizzazione all’altezza.

Il rischio deindustrializzazione

Questa vulnerabilità è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più grave: la possibile deindustrializzazione del Paese. Se non si interviene con una strategia concreta di riposizionamento, entro 6-7 anni potremmo perdere fino al 50% del nostro tessuto manifatturiero, trasformandoci in un’economia a vocazione turistica, come la Spagna. Con gravi conseguenze su occupazione e competitività.

È una trasformazione che nessuno sembra voler affrontare apertamente, forse anche per l’assenza di soluzioni immediate: cosa succederà quando migliaia di lavoratori resteranno senza impiego perché le aziende avranno chiuso o delocalizzato? Dove ricollocare figure tecniche e operative altamente specializzate, che oggi non trovano spazio in un’economia basata solo su servizi e turismo?

La proposta: serve una nuova cultura imprenditoriale (e politica)

Il problema è soprattutto culturale: in Italia abbiamo ancora una visione artigianale dell’impresa, mentre il mondo corre. Se vogliamo evitare di diventare una periferia industriale dell’Europa, dobbiamo formare imprenditori più consapevoli, riorganizzare i processi aziendali, sostenere l’internazionalizzazione vera, reale e fare in modo che anche la politica accompagni questo cambiamento. Il Made in Italy non si difende con i dazi, ma con la competitività e lo sviluppo manageriale.