KPI delle mie brame: quando i numeri mentono sulla performance

scritto da il 27 Giugno 2025

Post di Silvano Joly, Business Advisor in Deloitte –

C’era una volta, in un reame non così lontano – anzi, proprio nella zona industriale dietro l’uscita della tangenziale – un’azienda governata da un Re illuminato. Un Re che non si fidava più né della saggezza degli anziani né dell’istinto dei suoi consiglieri, ma solo della verità suprema e indiscutibile: quella dei numeri. Ogni giorno, come una novella matrigna digitale, si specchiava nel suo cruscotto di performance e domandava con voce grave: “KPI delle mie brame, chi è il più bravo nell’azienda del mio reame?” E la dashboard, con l’impassibilità tipica di un foglio Excel, rispondeva: “È colui che ha consegnato il report settimanale prima dell’alba, ha moltiplicato i lead come pani e pesci, e ha tenuto riunioni senza sosta, anche mentre scaldava la lasagna nel microonde.”

Il Re, soddisfatto, distribuiva premi e pacche sulle spalle. Ma qualcosa cominciava a scricchiolare nel suo perfetto castello fatto di numeri, frecce verso l’alto e diagrammi a torta.

KPI

Specchio, specchio delle mie brame… (Immagine generata con ChatGPT 4o)

I KPI non sono il tesoro, sono solo la mappa

Nel vasto – e spesso autocelebrativo universo del management moderno – la letteratura sulla misurazione delle performance è così ampia da poterci riempire una libreria IKEA. Da Drucker a Kaplan e Norton, fino all’epopea di John Doerr che inventò gli OKR, tutti hanno provato a dirci come misurare, mappare, tracciare, ottimizzare. Il problema non è il principio. Il problema è che abbiamo confuso i numeri con la realtà. I KPI (Key Performance Indicators o indicatori chiave di prestazione) non sono il tesoro, sono solo la mappa. Ma quando la mappa non corrisponde al territorio, ci si perde. E spesso con entusiasmo.

C’è un bell’articolo di MIT Sloan Management Review intitolato The quest for a killer-kpi, che spiega come l’ossessione per la misurazione rischi di spegnere quella scintilla che chiamiamo motivazione intrinseca. Eh sì, quella cosa intangibile e antica come il lavoro stesso, che ti fa impegnare perché ci credi, perché ti piace, perché vuoi farlo bene. Ma se ogni azione viene soppesata, contata, tracciata e magari anche trasformata in una gif animata da mostrare nel town hall mensile, la motivazione si trasforma in ansia da prestazione. Un po’ come andare a una cena romantica con il cardiofrequenzimetro: si può fare, ma non se ti aumenta il battito cardiaco ed è vero amore non lo devo vedere sul display dell’Apple Watch.

Giocare abilmente con i KPI

Ma torniamo al nostro Re, al suo specchio: come in tutte le fiabe che si rispettino, anche in questo regno non manca l’astuzia, il cortigiano, la politica. Perché se i KPI diventano moneta sonante – ovvero, bonus e avanzamenti di carriera – allora c’è sempre chi impara a giocarci. Non violando apertamente le regole, per carità, ma eludendole con l’eleganza del miglior illusionista. Per essere bravo basta farsi inserire nel team giusto, con un “tag” in quel progetto ad alta visibilità ma già quasi chiuso. Oppure affiliarsi, o farsi affiliare da qualcun altro che accede al sistema, a quel sales team dove il lavoro lo fanno in tre, ma i meriti si possono dividere in dieci. Se il tuo nome è nel sistema, se il tuo ID compare nella cella giusta del gestionale, allora sei dentro. Ed è il KPI stesso a certificare che tu vali. Chi osa dire che magari non hai fatto nulla, rischia di passare per invidioso o, peggio, non allineato con i valori aziendali.

Così, mentre i sistemi HR affinano sofisticati algoritmi per valutare le performance, i più furbi imparano a essere “visibili” nei posti giusti. Mica solo nei sistemi, usano anche outlook, vedono le agende altrui e non sono nel meeting ma ci tengo molto, mi puoi inoltrare l’invito, poi si presentano al meeting chiave senza aver fatto nulla, prendono parola nei momenti strategici, e poi scompaiono ma continuano a curare la loro presenza nei sistemi informativi aziendali con la dedizione di un influencer alle prese con l’algoritmo di Instagram. L’importante non è contribuire davvero, ma risultare in carico. E se poi alla fine dell’anno il sistema dice che sei stato fondamentale, chi mai potrà contraddirlo?

La demotivazione di chi lavora senza brillare nei KPI

Nel frattempo, altri, forse i veri lavoratori – quelli che magari non brillano nei KPI perché hanno cose più importanti da fare o fanno cose poco visibili ma assolutamente essenziali – iniziano a demotivarsi. Si sentono come quei servi della gleba rispetto ai nobili che vivono di rendita: producono valore, ma nessuno lo misura. Loro zappano, ma il loro sforzo non compare nelle dashboard, e così anche la loro dedizione non è tracciabile. “Hai aggiornato il task su Jira”, “Ach, l’ho chiuso ieri sera alle 22!” “Sì, ma il sistema dice di no.”

E mentre il Re continua a consultare la sua dashboard come se fosse l’Oracolo di Delfi, si consolida l’illusione che tutto ciò che conta si possa contare. La competitività interna cresce come l’edera: che, come dice il mio amico giardiniere è bella da vedere, ma pronta a soffocare tutto ciò che le sta intorno. Ed ecco nascere il marchese De KPI, il Barone OKR, il Conte MBO tutti intenti a curare la propria immagine numerica, a ottimizzare i propri indicatori come se fossero ticker di azioni di borsa. Addio al concetto di squadra, rimpiazzato da alleanze tattiche, micro-negoziazioni da corridoio e progetti con più owner e team member che attività.

Rispolverare le categorie di von Moltke

Quanto sarebbe utile rispolverare il quadrante del feldmaresciallo prussiano Helmuth von Moltke, con le sue quattro categorie di ufficiali: intelligenti, pigri, stupidi e laboriosi. I peggiori? Gli stupidi laboriosi, perché fanno danni con zelo. I migliori? Gli intelligenti pigri, capaci di trovare soluzioni semplici e praticabili, senza l’ansia di chi corre troppo. Nessuna traccia di zelanti ottimizzatori di KPI che macinano attività senza mai porsi la domanda più importante: “Perché?”

E mentre il sole tramonta il nostro Re esamina lo specchio dell’ennesimo trimestre misurato, tabellato e presentato in PowerPoint, ma vedendo certe facce gli torna in mente un antico monito latino che gli pare di sentire risuonare tra le mura dell’azienda: Fiat numerus, pereat sensus: Fatto il numero, muore il senso.