Finanza d’impatto e regole a Milano: due condizioni per la svolta

scritto da il 25 Luglio 2025

Post di Mario Calderini, Professore POLIMI Graduate School of Management

La finanza non è neutra e chi lo pensa è spesso in cattiva fede.

L’evoluzione degli ultimi anni della città di Milano, spesso descritta come un laboratorio avanzato di rigenerazione urbana sostenuta dalla finanza, impone oggi una riflessione critica. Il cosiddetto “modello Milano” ha rappresentato per lungo tempo una narrazione dominante: un insieme di pratiche pubbliche e private che promettevano, e spesso realizzavano, una trasformazione del tessuto urbano grazie a un sapiente utilizzo di strumenti finanziari innovativi. In particolare, il modello di finanza positiva, sostenibile o a impatto, è stato proposto, e spesso rivendicato, come il dispositivo in grado di legare insieme ambizione progettuale, sostenibilità ambientale e responsabilità sociale. Tuttavia, è proprio da questo modello che emergono oggi le maggiori contraddizioni.

Rigenerazione urbana: narrazione e sostanza

Le operazioni più iconiche di rigenerazione urbana a Milano sono state accompagnate da una narrativa fortemente orientata alla sostenibilità, all’inclusione, all’innovazione sociale. Ma a questa narrazione, in molti casi, non ha corrisposto una sostanza effettiva. Al contrario, si è assistito a un progressivo scollamento tra il linguaggio dell’impatto e la realtà dei processi attuati, con effetti concreti sulla struttura sociale e urbana della città.

Il nodo principale è stato l’emergere di una dinamica estrattiva mascherata da rigenerazione. Alcuni grandi soggetti privati hanno saputo utilizzare in modo sofisticato il lessico dell’impatto per attrarre consenso e risorse, ma senza che ciò si traducesse in un dividendo sociale equamente distribuito. Questo ha determinato una profonda frattura tra le promesse originarie della finanza d’impatto e gli esiti effettivi.

Il divario tra sostenibilità ambientale e sociale

Alla base di questa crisi si trova una distorsione progressiva della stessa nozione di sostenibilità. Come emerge da un’attenta osservazione dei casi milanesi, la sostenibilità ambientale è stata enfatizzata e celebrata, mentre quella sociale è stata progressivamente marginalizzata, se non del tutto espunta. Questo non è avvenuto per caso. I grandi interessi finanziari, legittimi e non intrinsecamente viziosi, hanno avuto una tendenza naturale a privilegiare quelle componenti della sostenibilità più compatibili con logiche di mercato e di profitto fortemente elitarie.

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Il complesso Park Tower, in via Crescenzago a Milano

La “sostenibilità verde” ha trovato così una rappresentazione più immediata, misurabile e profittevole e ha potuto essere facilmente utilizzata dagli sviluppatori in chiave strumentale. La dimensione più sociale della sostenibilità, invece, si è scontrata con una doppia resistenza: da un lato è più difficile da progettare e misurare, perché si realizza attraverso processi lenti, complessi e non lineari; dall’altro, soprattutto, espone direttamente gli interessi privati al dilemma secco tra profitto e valore condiviso.

Una politica incapace di esercitare una funzione regolativa all’altezza

A questo si è aggiunto un ritardo politico. La politica urbana, a fronte della crescente sofisticazione dei soggetti privati, si è dimostrata debole, priva di strumenti adeguati e incapace di esercitare una funzione regolativa all’altezza. Ne è risultato un pendolo sbilanciato: da una parte operazioni urbane formalmente innovative ma in realtà marcatamente estrattive a livello sociale; dall’altra, l’assenza di operazioni realmente capaci di produrre valore né privato né condiviso per la comunità.

Milano si è così trasformata in una città sempre più esclusiva, dove il linguaggio dell’inclusione viene evocato nei rendering architettonici – spesso popolati da immagini rassicuranti di astratte famiglie felici – ma dove gli effetti concreti sono stati estrattivi, con un aumento della marginalizzazione delle fasce più deboli.

Rendere la finanza d’impatto uno strumento politico

Di fronte a questo scenario, è necessario un ripensamento profondo. Non si tratta di rinunciare alla finanza d’impatto, ma di riportarla al suo significato originario e riscoprirne l’integrità e la purezza: uno strumento per orientare risorse private verso finalità pubbliche, secondo una logica di giustizia sociale esplicita, anche a vantaggio degli sviluppatori privati. Ma soprattutto, una finanza strumentata con una misurazione d’impatto degna di questo nome, affinché essa rappresenti realmente l’arena negoziale di composizione tra interessi privati e interessi pubblici. Ciò comporta due cambiamenti fondamentali.

Il primo riguarda la sfera professionale e culturale. È tempo di passare da un atteggiamento “promozionale” a uno più selettivo. Chi si occupa di impatto – accademici, esperti, centri di ricerca, advisor – deve smettere di comportarsi come un “buttadentro” della finanza sostenibile, cercando di includere tutto e tutti in una definizione morbida e accomodante. Al contrario, serve un atteggiamento da “buttafuori”, capace di stabilire criteri rigorosi e invalicabili: non si può parlare di impatto sociale se non si dispone di una teoria del cambiamento, di una misurazione ex ante, in itinere ed ex post, con indicatori chiari, principi definiti e una logica integrale.

Non opporsi alla finanza, ma di arginarne la natura estrattiva

Il secondo cambiamento è di natura politica. La misurazione dell’impatto deve entrare nella fase progettuale delle operazioni, non limitarsi alla rendicontazione ex post. La politica deve essere in grado di chiedere e ottenere, da parte degli sviluppatori, una progettazione trasparente e vincolante degli obiettivi sociali, dei nessi causali, degli strumenti di valutazione. Deve, in una parola, tornare a essere anticipativa. E dotarsi di una governance di controllo pubblica e partecipativa in itinere. Questo significa attrezzarsi tecnicamente, ma anche assumere una postura più assertiva nel negoziare i partenariati pubblico-privato.

In sintesi, la finanza d’impatto deve diventare parte di una visione politica, orientata da una volontà di redistribuzione del valore urbano. Non si tratta di opporsi alla finanza, ma di arginarne la natura estrattiva attraverso strumenti sofisticati, trasparenti e verificabili.

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Dimostrazione davanti al cantiere del Pirellino, Milano, 24 Luglio 2025, Ansa/Andrea Fasani

Milano come caso di scuola

Il caso Milano è oggi un’occasione di riflessione, ma anche un monito. È stato il terreno dove si è tentato di costruire una nuova forma di sviluppo urbano sostenuto dalla finanza, con frutti anche virtuosi. Ma è anche il luogo in cui quella finanza ha perso progressivamente il contatto con i suoi obiettivi dichiarati.

La sfida dei prossimi anni sarà ristabilire un equilibrio tra interesse pubblico e capitale privato, tra innovazione finanziaria e giustizia sociale. Per farlo, sarà necessario che la finanza d’impatto abbandoni ogni ambiguità e si strutturi come una prassi politica matura. Una prassi capace di misurare, selezionare, rendere conto. E, soprattutto, di includere chi finora è stato escluso.