Dazi Usa, per l’Europa è davvero scacco matto?

scritto da il 29 Luglio 2025

Post di Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer di UBS WM in Italia –

I dazi americani sono ai livelli più elevati dagli anni ’30, circolano timori sulla sostenibilità del debito pubblico statunitense e si percepiscono minacce all’indipendenza della Federal Reserve (Fed), mentre proseguono diversi conflitti geopolitici. Eppure, i mercati mostrano una sorprendente tranquillità: l’indice di volatilità VIX resta ben al di sotto della media storica e anche gli spread creditizi rimangono molto contenuti.

Dopo una rapida correzione ad aprile, i mercati azionari hanno ripreso a salire e le borse si attestano su livelli record. L’unico segnale della turbolenza primaverile sembra essere il mancato recupero del dollaro. Alcuni fattori tecnici stanno probabilmente contribuendo alla calma dei mercati, poiché gli algoritmi (che ormai rappresentano circa la metà degli scambi sulle principali borse) tendono ad accumulare azioni quando la volatilità è bassa, creando un effetto pro-ciclico.

Accordo Trump-von der Leyen: Caporetto o no?

L’accordo commerciale siglato in Scozia tra Stati Uniti e Unione Europea (UE) riduce l’incertezza, ma per l’Europa non rappresenta un buon risultato. I dazi sono stati fissati al 15% sulle esportazioni europee in quasi tutti i settori, incluse auto (in precedenza al 27,5%) e farmaceutica (finora esente). Alcuni prodotti, come componenti per l’aeronautica, composti chimici e materiali agricoli, saranno esenti. Al contrario, i dazi su acciaio e alluminio sembrano rimanere al 50%.

L’UE ha inoltre dovuto accettare di acquistare prodotti energetici dagli Stati Uniti per 750 miliardi di dollari, aumentare gli investimenti negli Stati Uniti per 600 miliardi e impegnarsi in ampi acquisti di armamenti. Restano alcune ambiguità: ad esempio, il Segretario al Commercio Howard Lutnick ha dichiarato che potrebbero essere introdotti nuovi dazi sui semiconduttori.

La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, durante il briefing stampa congiunto con il presidente degli Stati Uniti Donald (non visibile), a seguito del loro incontro a Turnberry, nel sud-ovest della Scozia, il 27 luglio 2025. (Foto di Brendan SMIALOWSKI / AFP)

L’impatto economico è negativo: secondo alcune stime, potrebbe ridurre il PIL della zona euro dello 0,2-0,4% e, a cascata, gli utili delle società più esposte al mercato statunitense. Questi impatti si sommano a quello derivante dalla forza dell’euro, che si è apprezzato di circa il 12% da inizio anno. L’acquisto di materie prime energetiche statunitensi a un prezzo non determinato potrebbe inoltre portare a una perdita di competitività.

I rischi della politica monetaria europea

L’effetto recessivo dei dazi potrebbe essere parzialmente compensato dal piano infrastrutturale tedesco e da una politica fiscale leggermente meno restrittiva, anche in risposta ai nuovi impegni NATO. Tuttavia, oltre ai dazi, pesa la forza dell’euro, che nell’ultimo trimestre ha avuto un impatto visibile sui conti delle società quotate.

Per il momento, la Banca Centrale Europea (BCE) non sembra intenzionata a modificare la propria politica monetaria a causa della forza della valuta e resta ancorata al suo approccio “data dependent”. Pur in parte condivisibile, questa metodologia presenta dei rischi: i dati economici, per loro natura, si riferiscono al passato, seppur recente, mentre i cambiamenti di politica monetaria esplicano i loro effetti a distanza di diversi mesi. Essere “data dependent” può quindi portare a essere cronicamente in ritardo, soprattutto se lo scenario è in rapida evoluzione.

Questi accordi seguono il vertice NATO, nel quale ci si è impegnati a investire il 5% del PIL in difesa e sicurezza. Gli investimenti nella difesa hanno un impatto modesto sul PIL europeo, essendo in larga parte destinati alle importazioni. In Europa, un aumento di 1 punto percentuale del rapporto tra spesa militare e PIL ha storicamente portato a una crescita del PIL reale di soli 0,6 punti percentuali. Sulla base dei nuovi impegni con gli Stati Uniti, non sembra che questo rapporto potrà migliorare.

Le conseguenze sull’economia Usa

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’accordo sarà leggermente inflattivo, ma l’economia americana resta lontana da una recessione e potrà attirare nuovi investimenti, mentre aumenteranno le esportazioni di materie prime energetiche.

Di recente, gli Stati Uniti hanno raggiunto accordi anche con il Giappone, con risultati simili a quelli ottenuti con l’Europa: dazi al 15%, incluse le automobili (che rappresentano circa un terzo delle esportazioni giapponesi verso gli Stati Uniti) e investimenti per 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Tuttavia, il Giappone non è costretto ad acquistare materie prime energetiche e armamenti americani.

Sempre in Asia, gli accordi con Filippine, Vietnam e Indonesia prevedono dazi di circa il 20%. L’attenzione ora si concentra sulla Cina, con un nuovo round di colloqui che si terrà a Stoccolma; pochi giorni fa Trump ha dichiarato ai giornalisti che gli Stati Uniti «vanno molto d’accordo con la Cina».

Quanto è indipendente la Fed?

Un altro tema controverso è l’indipendenza della banca centrale statunitense. Il mandato di Jerome Powell, Presidente della Federal Reserve, terminerà tra dieci mesi, ma nelle ultime settimane Trump ha intensificato le critiche, sostenendo che «sta facendo un pessimo lavoro» e chiedendo tagli dei tassi d’interesse di «3 punti». Lutnick ha suggerito che i tassi d’interesse dovrebbero essere tagliati subito e che il Presidente della Federal Reserve dovrebbe dimettersi o essere rimosso dall’incarico.

Queste interferenze politiche potrebbero essere collegate alla complessa situazione fiscale statunitense, con un debito pubblico che ormai supera il 120% del PIL e un deficit che dal 2009 è stato mediamente superiore al 6%, e che potrebbe salire ulteriormente in base alla nuova legge finanziaria soprannominata “One Big Beautiful Bill Act” da Trump.