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Casa, il grande vuoto italiano. Perché il punto non è Milano


Post di Gianpaolo Lafargue, pseudonimo di un manager operante nel settore finanziario –
L’inchiesta aperta dalla procura di Milano ha riportato l’attenzione sulle pratiche di governo del territorio e sui potenziali conflitti d’interesse nella gestione delle trasformazioni urbane. Che esistano zone d’ombra, relazioni opache e promiscuità tra ruoli pubblici e incarichi professionali è un fatto che va affrontato con rigore e trasparenza, ma non si può fare a meno di notare come, attorno a questa vicenda, si sia rapidamente sedimentata una narrazione più ampia e ideologicamente connotata, in cui l’intera traiettoria di sviluppo urbano di Milano viene rimessa in discussione, quasi che il problema risieda nella logica che oggi connota globalmente lo sviluppo delle metropoli meglio connesse con le filiere di produzione cognitiva e nel suo essere determinata da significativi flussi di persone e di capitali.
Le città possono ancora attrarre investimenti?
A essere messa sotto accusa è, in sostanza, l’idea che le città possano e debbano attrarre investimenti, promuovere interventi privati, rigenerare aree dismesse, assecondando, intrinsecamente, una dinamica favorevole alla rendita fondiaria. L’urbanistica, in questo racconto, sarebbe divenuta strumento di esclusione, veicolo di gentrification e strumento di espulsione dei ceti popolari dalla città. Ma questa ricostruzione, per quanto suggestiva, finisce per oscurare la realtà delle condizioni materiali. In un sistema in cui da oltre vent’anni lo Stato ha sostanzialmente rinunciato a promuovere direttamente l’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), la possibilità stessa di costruire alloggi a prezzi accessibili passa quasi interamente dalla leva della collaborazione delle istituzioni decentrate con il capitale privato.

Un cantiere sotto sequestro a Milano (ANSA / Andrea Fasani)
Non solo a Milano. In Italia l’ERP non si costruisce più
Il punto non è Milano. In nessuna città italiana si costruisce ERP vera, integralmente finanziata con risorse pubbliche, da almeno un quarto di secolo. La svolta, anticipata da decenni di progressivo disinvestimento, si è consolidata a fine anni Novanta, con il definitivo arretramento della mano pubblica in nome dell’equilibrio di bilancio. Questo fenomeno non ha riguardato soltanto l’Italia: tutta Europa, negli stessi anni, ha progressivamente abbandonato l’ERP classica come modello fondato su intervento pubblico diretto, edilizia popolare gestita da enti locali, canoni simbolici e finanziamento strutturale in conto capitale e corrente. Altrove, però, a quella ritirata ha fatto seguito la costruzione di nuovi modelli, ibridi ma efficaci, capaci di mantenere una base ampia di offerta abitativa non di mercato.
Che cosa succede in Europa
In Francia, Paesi Bassi e Regno Unito, in parte anche in Germania a livello regionale si è dato luogo a regimi regolati, stabilmente finanziati e fortemente professionalizzati, in cui il pubblico continua a esercitare una regia significativa, pur senza più gestire in prima persona il patrimonio. Le Housing Associations britanniche, gli organismes HLM francesi, le cooperative tedesche olandesi rappresentano il perno di questa nuova forma di edilizia sociale. Queste strutture, formalmente terze rispetto allo Stato e agli occupanti, sono vincolate a obiettivi di lungo periodo e operano in un quadro giuridico e finanziario chiaro, dotato di risorse. Pur non essendo organi pubblici in senso stretto, restano pienamente integrate nella missione di interesse generale: regolamentate, cofinanziate, vigilate, sono di fatto strumenti attraverso cui lo Stato garantisce l’accesso all’abitare.
L’edilizia sociale non elimina la logica del rendimento
I capitali pubblici ci sono: sotto forma di cessione del suolo a prezzi simbolici, contributi in conto capitale, strumenti di garanzia, cofinanziamento dell’equity. In Francia, ad esempio, lo Stato e gli enti locali contribuiscono in media fino al 20% dei costi di sviluppo degli alloggi HLM. Nel Regno Unito, le Housing Associations gestiscono oltre 2,5 milioni di unità abitative a canone calmierato e beneficiano di fondi pubblici sia per la costruzione sia per la gestione. In Olanda e in alcuni Länder tedeschi, pur con forme diverse, la regia centrale è solida e continua.
Questi modelli non hanno eliminato la logica del rendimento: il social housing resta un settore economico, talvolta redditizio, ma la rendita privata è subordinata a vincoli d’uso, obblighi di locazione, criteri di selezione degli inquilini e controllo dei canoni. L’intervento pubblico non è più quello dell’impresa immobiliare pubblica o dell’ente gestore, ma resta decisivo nella fase iniziale: definisce le regole del gioco, cofinanzia l’avvio, assicura stabilità. È un sistema pensato per durare. E i numeri lo dimostrano: a Berlino, Parigi, Amsterdam, Lione e Amburgo, tra il 15% e il 35% dello stock abitativo rientra ancora oggi nella categoria dell’edilizia sociale o a canone regolato.
In Italia dopo il disinvestimento nessuna politica alternativa
In Italia, nulla di tutto questo. Il disinvestimento pubblico non è stato accompagnato da alcuna politica strutturale alternativa. Gli alloggi ERP non sono stati rimpiazzati da un nuovo sistema di social housing coerente con i bisogni. L’unica esperienza parziale è stata quella dei fondi promossi da Fondazione Cariplo e poi estesi da CDP, con l’intervento pubblico limitato a una dotazione complessiva di circa 1,5 miliardi. Il modello è interessante, ma circoscritto, privo di continuità di finanziamento e incapace di generare volumi significativi. Al netto di questo, l’Italia negli ultimi venticinque anni ha sostanzialmente rinunciato alla politica della casa.
La leva urbanistica, la crescita degli squilibri
Il risultato è che, nell’assenza di una regia nazionale, i comuni si arrangiano. L’unico strumento a disposizione per tentare di ampliare l’offerta a canone moderato è la leva urbanistica: si concedono diritti edificatori ai promotori immobiliari, in cambio della destinazione di una quota di alloggi a locazione agevolata. È l’unica “moneta” negoziabile che resta ai sindaci. Ma anche qui i margini sono stretti: nessun operatore privato accetterà mai di costruire e gestire unità a reddito negativo, tipiche dell’ERP storica e in assenza di finanziamento pubblico esplicito, non è possibile spingersi oltre una moderazione parziale del canone.

Il ceo di Coima SGR, Manfredi Catella, dopo l’interrogatorio a Palazzo di Giustizia a Milano, 23 luglio 2025. ANSA/MOURAD BALTI TOUATI
Nel frattempo, lo squilibrio cresce. A Milano, il canone medio incide per oltre il 60% del salario netto. A Parigi e Berlino si viaggia ben sotto il 40%, proprio perché esiste una rete abitativa alternativa al libero mercato. L’offerta pubblica o regolata funziona da contrappeso, da ancora di equilibrio. Senza di essa, il mercato si auto-determina in base al potere d’acquisto di pochi, escludendo gli altri e la pesante compressione del reddito reale italiano occorsa negli ultimi decenni, peraltro anche nella città di punta del sistema paese, non fa che aggravare la situazione.
Non è Milano, non è il privato
Stigmatizzare l’avidità del privato o demonizzare il mercato serve a poco. Il vero problema è la latenza di lungo periodo della responsabilità politica rispetto al tema dell’abitare. Senza una nuova stagione di edilizia pubblica e sociale, anche nelle sue forme evolute e ibride, il diritto alla casa resterà una formula vuota. Non è il conflitto d’interessi connesso agli eccessivi appetiti degli sviluppatori immobiliari a generare la crisi abitativa, ma il vuoto assoluto di politiche pubbliche strutturate e continuativamente finanziate per la casa. Un vuoto che oggi colpisce tanto le fasce fragili quanto quella parte crescente della popolazione che, pur lavorando, non riesce più ad accedere a un alloggio dignitoso in affitto.